Conversione del contratto a tempo determinato acausale.

TRIBUNALE DI TRENTO, 4 DICEMBRE 2018

CONVERSIONE DEL CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO ACAUSALE IN CONTRATTO A TEMPO INDETERMINATO SE LA SUCCESSIONE DEI CONTRATTI HA SODDISFATTO ESIGENZE DI CARATTERE PERMANENTE

Successione di contratti a tempo determinato acausali: conversione in contratto di lavoro a tempo indeterminato se il lavoratore offre la prova che la successione dei contratti, pur rispettosi dei limiti di durata massima, siano stati diretti a soddisfare esigenze di carattere permanente o comunque non temporanee. Il Tribunale di Trento si pronuncia in materia di successione di contratti a tempo determinato (ante L. 96/2018), interpretando la normativa interna (art. 19 co. 2 e 3 D.Lgs. n. 81/2015) in conformità alla normativa europea (Direttiva n. 1999/70/CE) che, come noto, ha la finalità di prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti a tempo determinato. Secondo il Giudice, in particolare, in conformità ai principi espressi dal diritto europeo, la norma interna deve essere interpretata nel senso di riconoscere alla parte che abbia interesse (il lavoratore) la facoltà di offrire prova che la successione dei contratti a tempo determinato sia stata determinata da esigenze non temporanee e, dunque, ottenere la conversione in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Licenziamento G.M.O. Efficienza Azienda

CASSAZIONE CIVILE, SEZIONE LAVORO, 18 GENNAIO 2019 N. 1377

LEGITTIMO IL GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO VOLTO A MIGLIORARE L’EFFICIENZA GESTIONALE DELL’AZIENDA.

Affinché risulti legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, poiché risulta sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo. Tale mutamento deve avvenire attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa e non con una generica riduzione di personale con mansioni fungibili; se sussistono i suddetti requisiti il recesso della neo-mamma non è affatto discriminatorio, ma legittimato dal giustificato motivo oggettivo.
Il Tribunale in primo grado aveva dichiarato la nullità del licenziamento intimato dalla società alla lavoratrice in quanto discriminatorio, essendo stato irrogato dalla società a meno di un mese dal compimento di un anno di età del figlio della lavoratrice. Il Tribunale condannava la società datrice di lavoro alla reintegra ed al risarcimento del danno in misura delle retribuzioni mensili, pari all’ultima globale di fatto, maturate dalla data di recesso sino a quella di riammissione in servizio, detratto l’aliunde perceptum. Al contrario, la Corte d’Appello adita dalla Società escludeva la prova di una discriminazione di genere nei confronti della lavoratrice, accertando la concreta sussistenza del giustificato motivo oggettivo – consistente nella soppressione della posizione di direttore generale di cui la lavoratrice era segretaria – e accertando altresì l’assoluzione dell’onere datoriale di repechage, sia pure attuato con una offerta a mansioni inferiori rifiutata, peraltro, dalla lavoratrice. Di qui il ricorso in Cassazione da parte della neo-mamma. I giudici di legittimità, riprendendo un orientamento costante e recente della Corte, sostengono che, ai fini della legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa. La scelta imprenditoriale che ha comportato la soppressione del posto di lavoro della ricorrente, non è sindacabile in ossequio al disposto dell’art. 41 Cost. Alla luce di tale ragionamento, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.