NEWSLETTER n. 10/2022

Novità normative e giurisprudenziali

Novità NORMATIVE

Legge 21 settembre 2022, n. 142 recante: “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 9 agosto 2022, n. 115, recante misure urgenti in materia di energia, emergenza idrica, politiche sociali e industriali.”. (GU n. 221 del 21.09.2022) – Vigente dal: 22.09.2022

È stata pubblicata, sulla Gazzetta Ufficiale n. 221 del 21.09.2022, la L. n. 142/2022, di conversione del D.L. n. 115/2022 (cd. decreto “Aiuti-bis”), recante «Misure urgenti in materia di energia, emergenza idrica, politiche sociali e industriali».

Di particolare interesse, per quanto riguarda la materia del lavoro, la proroga del lavoro agile semplificato sino al 31.12.2022 (art. 25 bis), senza accordo tra le parti.

Inoltre, il diritto,sino al 31.12.2022, di prestare l’attività in modalità agile per talune categorie di lavoratori (art. 23 bis):

Il diritto è acquisibile previa verifica della compatibilità dell’attività lavorativa con la modalità agile

Queste le altre novità per aziende e lavoratori:

Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Circolare n. 19 del 20 settembre 2022 recante “Decreto legislativo 27 giugno 2022, n. 104 di attuazione della direttiva (UE) 2019/1152 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea.”.

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha emanato la circolare n. 19 del 20.09.2022, con la quale fornisce indicazioni su taluni specifici profili degli obblighi informativi introdotti dal D.L. n. 104/2022 (cosiddetto “Decreto Trasparenza“) in materia di condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili.

Questi alcuni passaggi della circolare sull’informativa da fornire ai lavoratori.

Il datore di lavoro è tenuto a fornire al lavoratore le informazioni di base riferite ai singoli istituti di cui al nuovo art. 1 del D.L. n. 152/1997, potendo rinviare per le informazioni di maggior dettaglio al contratto collettivo o ai documenti aziendali che devono essere consegnati o messi a disposizione del lavoratore secondo le prassi aziendali.

L’obbligo informativo non è assolto con l’astratto richiamo delle norme di legge che regolano gli istituti oggetto dell’informativa, bensì attraverso la comunicazione di come tali istituti, nel concreto, si atteggiano, nei limiti consentiti dalla legge, nel rapporto tra le parti, anche attraverso il richiamo della contrattazione collettiva applicabile al contratto di lavoro.

Quanto ai congedi, l’obbligo di informazione per il datore di lavoro riguarda solo quelle astensioni espressamente qualificate dal legislatore come “congedo”.

In via esemplificativa e non esaustiva si indicano, di seguito, alcune ipotesi di congedi retribuiti previsti dalla legge:

Il datore di lavoro dovrà tenere conto, oltre che della disciplina legale, anche di quella contenuta nel contratto collettivo.

Sotto il profilo retributivo, ci si riferisce a tutte quelle componenti della retribuzione di cui sia oggettivamente possibile la determinazione al momento dell’assunzione, secondo la disciplina di legge e di contratto collettivo.

Quanto all’orario di lavoro programmato, le informazioni devono riguardare, più che la generale disciplina legale, i riferimenti al contratto collettivo nazionale e agli eventuali accordi aziendali che regolano il tema dell’orario nel luogo di lavoro.

Nello specifico, le informazioni devono essere incentrate sulla concreta articolazione dell’orario di lavoro applicata al dipendente, sulle condizioni dei cambiamenti di turno, sulle modalità e sui limiti di espletamento del lavoro straordinario e sulla relativa retribuzione.

Le informazioni relative a previdenza e assistenza dovranno essere fornite dal datore di lavoro anche alla luce della specificità della contrattazione collettiva applicabile al rapporto, rappresentando al lavoratore, ad esempio, la possibilità di aderire a fondi di previdenza integrativa aziendali o settoriali.

Dalla lettura della disposizione possono poi individuarsi due distinte ipotesi che il decreto ha voluto regolare per gli aspetti informativi, qualora il datore di lavoro utilizzi sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati che sono:

Per sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati si intendono quegli strumenti che, attraverso l’attività di raccolta dati ed elaborazione degli stessi effettuata tramite algoritmo, intelligenza artificiale, ecc., siano in grado di generare decisioni automatizzate.

L’obbligo dell’informativa sussiste anche nel caso di intervento umano meramente accessorio.

Il decreto legislativo richiede che il datore di lavoro proceda all’informativa quando la disciplina della vita lavorativa del dipendente, o suoi particolari aspetti rilevanti, siano interamente rimessi

all’attività decisionale di sistemi automatizzati.

Ad esempio, l’obbligo dell’informativa sussiste nelle seguenti ipotesi:

Non sarà necessario procedere all’informativa nel caso, ad esempio, di sistemi automatizzati deputati alla rilevazione delle presenze in ingresso e in uscita, cui non consegua un’attività interamente automatizzata finalizzata ad una decisione datoriale.

Per quanto riguarda le indicazioni incidenti sulla sorveglianza, la valutazione, le prestazioni e l’adempimento delle obbligazioni contrattuali dei lavoratori, anche in questa ipotesi il datore di lavoro ha l’obbligo di informare il lavoratore dell’utilizzo di tali sistemi automatizzati, quali – a puro titolo di esempio: tablet, dispositivi digitali e wearables, gps e geolocalizzatori, sistemi per il riconoscimento facciale, sistemi di rating e ranking, etc.

L’obbligo informativo trova applicazione anche in relazione all’utilizzo di sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati integrati negli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa, allorquando presentino le caratteristiche tecniche e le funzioni descritte in precedenza.

E’ infine da ritenersi ammessa la possibilità di comunicazione dell’informazione in modalità informatica.

I.N.P.S., Circolare n. 102 del 19 settembre 2022: ”Esonero dal versamento dei contributi previdenziali a carico delle lavoratrici madri dipendenti del settore privato, a decorrere dalla data del rientro nel posto di lavoro dopo la fruizione del congedo di maternità. Indicazioni operative. Istruzioni contabili. Variazioni al piano dei conti”.

L’INPS, con la circolare n. 102 del 19.09.2022, fornisce le indicazioni e le istruzioni per la gestione degli adempimenti previdenziali connessi all’esonero contributivo previsto, per il solo anno 2022, per le lavoratrici madri dipendenti del settore privato, della durata di un anno, decorrente dalla data del rientro nel posto di lavoro dopo la fruizione del congedo obbligatorio di maternità (disciplinato dall’articolo 16 del D.Lgs. n. 151/2001).

Si tratta dell’esonero pari al 50% della contribuzione previdenziale a carico delle lavoratrici, previsto dall’art. 1, comma 137, della L. n. 234/2021 (cd. Legge di Bilancio per l’anno 2022).

L’applicazione dell’esonero in oggetto lascia comunque ferma l’aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche.

Sebbene la previsione faccia riferimento al solo rientro dopo la fruizione del congedo obbligatorio di maternità, per un periodo massimo di un anno, laddove la lavoratrice fruisca dell’astensione facoltativa al termine del periodo di congedo obbligatorio, la misura può comunque trovare applicazione dalla data di rientro effettivo al lavoro della lavoratrice.

Parimenti, l’esonero contributivo in esame spetta anche al rientro della lavoratrice dal periodo di interdizione post partum di cui all’art. 17 del D.lgs. n. 151/2001.

Il rientro della lavoratrice nel posto di lavoro dovrà in ogni caso avvenire entro il 31.12.2022.

L’esonero contributivo è rivolto a tutti i rapporti di lavoro dipendente, sia instaurati che instaurandi, del settore privato, ivi compreso il settore agricolo, in riferimento alle lavoratrici madri che rientrino nel posto di lavoro dopo aver fruito del congedo di maternità.

Riguarda i seguenti rapporti di lavoro:

  • tempo indeterminato;
  • tempo determinato;
  • part-time;
  • assunzione a scopo di somministrazione;
  • apprendistato;
  • lavoro domestico;
  • contratto intermittente;
  • lavoro subordinato instaurato in attuazione del vincolo associativo stretto con una cooperativa di lavoro ai sensi della L. n. 142/2001.

Novità GIURISPRUDENZIALI

Corte Costituzionale, sentenza 22 luglio 2022, n. 183

Monito della Corte costituzionale: nelle piccole imprese più adeguate tutele contro il

licenziamento illegittimo.

Il Tribunale di Roma, chiamato a decidere sul ricorso proposto da una lavoratrice, licenziata per giustificato motivo oggettivo da un datore di lavoro che non raggiungeva i requisiti dimensionali di cui all’art. 18 della L. n. 300/1970, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale della disposizione del c.d. Jobs Act che, in caso di licenziamento illegittimo da parte di una piccola impresa, riconosce al lavoratore un’indennità ricompresa tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità (art. 9, co. 1, D.Lgs. n. 23/2015), un ammontare che, secondo il giudice rimettente, non svolgerebbe alcuna funzione deterrente né sarebbe in grado di garantire un adeguato ristoro al pregiudizio sofferto dal lavoratore.

Le censure del tribunale capitolino sono condivise dalla Corte Costituzionale (pur nel mutato sistema di cui al D. Lgs. n. 23/2015, “imperniato sulla portata tendenzialmente generale della tutela monetaria”), che in motivazione osserva come l’esiguo scarto tra il minimo e il massimo dell’indennità previsto dalla legge impedisca di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda e non sia coerente con i requisiti di adeguatezza e dissuasività, già affermati in recenti pronunce della stessa Corte.

Secondo i giudici della Consulta, tuttavia, la scelta della soluzione più appropriata per rimediare all’evidente deficit di adeguatezza che caratterizza l’attuale disciplina dei licenziamenti, implicando inevitabili valutazioni discrezionali, spetta al legislatore, e non alla Corte.

Per questo motivo, la Corte dichiara l’inammissibilità delle questioni sollevate dal Tribunale di Roma, ma lancia al contempo un monito al legislatore: nel protrarsi dell’inerzia legislativa sul fronte della riforma della disciplina dei licenziamenti arbitrari nelle piccole imprese, essa stessa provvederà direttamente a intervenire sulla disciplina censurata, qualora la questione fosse riproposta.

Corte di Cassazione, sentenza 7 settembre 2022, n. 26395

Licenziamento ritorsivo e prova per presunzioni.

La Corte d’appello aveva dichiarato la nullità, perché sorretto da motivo illecito determinante, del licenziamento intimato a un lavoratore che, per opporsi a un trasferimento ritenuto ritorsivo, non si era presentato al lavoro.

Secondo i giudici di merito, l’assenza del lavoratore, posta a fondamento del provvedimento espulsivo, non poteva dirsi ingiustificata, costituendo il legittimo esercizio da parte del dipendente del potere di autotutela contrattuale a fronte di un trasferimento il cui carattere ritorsivo risultava dimostrato sulla base di idonei indici presuntivi, dai quali poteva altresì ricavarsi che il medesimo intento illecito era risultato determinante anche nella successiva scelta datoriale di licenziare il lavoratore.

La Cassazione, nel confermare la sentenza di merito, afferma che l’onere di provare la natura ritorsiva determinante del licenziamento grava sul lavoratore, in base alla regola generale di cui all’art. 2697 c.c., ma esso può essere assolto anche mediante presunzioni, come accaduto nel caso di specie, ed evidenzia altresì come il giudizio sull’attitudine degli elementi presuntivi a consentire di inferirne logicamente la natura ritorsiva del provvedimento datoriale sia di mero fatto, come tale devoluto all’apprezzamento del giudice di merito e insuscettibile di riesame da parte dei giudici di legittimità.

Corte di cassazione, sentenza 6 settembre 2022 n. 26246

Dopo la legge Fornero sui licenziamenti, la prescrizione dei crediti di lavoro non decorre durante il rapporto.

Giunge alla sede di legittimità il problema della decorrenza della prescrizione (quinquennale) dei crediti di lavoro nei contratti di lavoro a tempo indeterminato dopo che la legge Fornero e quella successiva (del rapporto di lavoro a tutele crescenti) hanno fortemente ridimensionato la disciplina sanzionatoria dei licenziamenti ingiustificati e illegittimi.

Come noto, con le sentenze degli anni ’60 e ’70, la Corte costituzionale aveva dichiarato incostituzionale la decorrenza in corso di rapporto della prescrizione dei crediti di lavoro, per la presenza di ostacoli di fatto, soprattutto il timore del licenziamento, che potrebbero sconsigliare il lavoratore dal vantare pretese in questa sede.

Restava salva la regola della decorrenza immediata nei casi in cui fosse assicurata la stabilità del rapporto di fronte al licenziamento ingiustificato o illegittimo, come per i pubblici dipendenti o per i casi soggetti alla disciplina dello Statuto dei lavoratori, che prevedeva il pieno ripristino della situazione antecedente al licenziamento.

Con le leggi citate (L. n. 92/2012 e 23/2015) la reintegrazione nella situazione antecedente è divenuta recessiva, essendo prevista solo in alcuni casi, mentre in altri la sanzione è meramente indennitaria.

Da qui, la richiesta alla Corte in ordine alla persistenza della decorrenza immediata della prescrizione anche nel mutato quadro normativo dei licenziamenti “garantiti”.

La risposta della Corte (diversamente da quella dei giudici di merito) è negativa, in base alla valutazione dell’inadeguatezza della nuova disciplina a scongiurare il timore di un licenziamento ingiusto, costituente remora all’esercizio dei crediti del lavoratore in corso di rapporto di lavoro.

Corte di cassazione, sentenza 6 settembre 2022 n. 26199

Legittimo il licenziamento del dipendente che rifiuta per due volte la visita medica

Legittimo, “per assenza ingiustificata”, il licenziamento del dipendente che si sia preso un periodo di congedo straordinario, “per assistere la madre“, senza però aver ricevuto il necessario via libera dalla sede dell’Inps.

Ed è altresì legittimo il licenziamento del lavoratore che per due volte, nell’arco di una settimana, non si presenti alla visita medica obbligatoria prima del cambio di mansioni, affermando che il nuovo lavoro avrebbe configurato un demansionamento.

Lo ha stabilito la Sezione lavoro della Corte di cassazione con le ordinanze nn. 26196 e 26199.

Per quanto concerne il congedo non autorizzato, la Corte di appello di Reggio Calabria, dando ragione al lavoratore, aveva confermato la decisione di primo grado che aveva dichiarato la illegittimità del licenziamento e condannato la società datrice di lavoro alla reintegrazione e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione.

Proposto ricorso da parte della società, la Sezione lavoro ha affermato che “a fronte della precisa individuazione della condotta materiale addebitata al lavoratore non si richiedeva, quindi, come viceversa ritenuto dal giudice del reclamo, anche la indicazione delle specifiche norme di legge o collettive violate, competendo al giudice la qualificazione giuridica dei fatti contestati“.

Il lavoratore, spiega la Suprema corte, decade infatti dai diritti previsti dalla “legge 104” (art. 33) “qualora il datore di lavoro o l’Inps accerti l’insussistenza o il venir meno delle condizioni richieste per la legittima fruizione dei medesimi diritti“.

La fattispecie dunque, prosegue il ragionamento, doveva essere ricondotta, sotto il profilo sanzionatorio alla disciplina dettata dal contratto collettivo per la ipotesi di “assenza ingiustificata, non potendo in senso contrario rilevare il riferimento alla prassi tollerante adottata dalla società datrice di lavoro in precedenti occasioni”.

Tali occasioni, continua la Corte, erano infatti diverse “in quanto, sia pure a posteriori, la assenza dal lavoro era risultata giustificata dall’intervenuto provvedimento autorizzatorio dell’INPS e la tolleranza della società aveva riguardato il ritardo con il quale il lavoratore aveva inviato la prescritta documentazione“.

Tornando al caso della mancata presentazione alla visita medica, la Cassazione afferma che il controllo sanitario era preventivo e prodromico all’assegnazione delle nuove mansioni e che l’omissione delle visite “avrebbe costituito un colposo e grave inadempimento di parte datoriale”.

Coerentemente – prosegue – è stata disposta, a seguito della contestazione della lavoratrice, una nuova visita, senza che fossero espletate le diverse e nuove mansioni; anche a tale visita la lavoratrice non si è, però, sottoposta“.

Si tratta, conclude la Cassazione, di una reazione che “non è assolutamente giustificabile” ai sensi dell’art. 1460 c.c., vale a dire la norma che prevede una “eccezione di inadempimento“.

Da un lato, infatti, il datore di lavoro “si era limitato ad adeguare la propria condotta alle prescrizioni imposte dalla legge per la tutela delle condizioni fisiche dei dipendenti nell’espletamento delle mansioni loro assegnate e, dall’altro, la dipendente avrebbe ben potuto impugnare un eventuale esito della visita, qualora non condiviso, ovvero l’asserito illegittimo demansionamento, innanzi agli organi competenti”.

L’articolo del codice invocato dal dipendente invece è applicabile “solo in caso di totale inadempimento del datore di lavoro o in ipotesi di gravità della condotta tanto grave da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali del lavoratore medesimo (Cass. n. 836/2018): ipotesi, queste, escluse dalla Corte di merito con un accertamento in fatto, esente dal vizio di motivazione ex art. 360 n. 5 cpc (nuova formulazione) e, pertanto, insindacabile in sede di legittimità (Cass. n. 11430/2006)“.

Corte di cassazione, ordinanza 19 agosto 2022 n. 24977

Illegittima la collocazione unilaterale in ferie, se non preceduta dalla relativa comunicazione a ognuno dei dipendenti interessati.

Un’impresa aveva unilateralmente stabilito per tutto il personale la fruizione delle ferie residue prima della programmata collocazione in CIGS, dandone avviso alla RSU.

Nel giudizio promosso da alcuni dipendenti per sostenere l’illegittimità di tale comportamento aziendale e ottenere il risarcimento danni, la Corte, accogliendo le domande, afferma che ogni iniziativa unilaterale del datore di lavoro di collocare in ferie il personale deve essere comunicata, con un congruo preavviso, a ciascuno dei dipendenti interessati, in modo da consentire loro eventuali osservazioni e comunque di organizzarsi per la migliore fruizione del loro diritto al riposo.

Corte di Cassazione, ordinanza 5 agosto 2022, n. 24391

Legittimo il licenziamento scritto, anche se comunicato non con la trasmissione dell’atto.

L’art. 2 della L. n. 604/1966 prescrive che il licenziamento deve essere comunicato per iscritto: Secondo la Cassazione, fermo restando che lo scritto costituisce la forma sia dell’atto che della sua comunicazione, la legge non prescrive peraltro le modalità della comunicazione scritta.

Sicché, in un caso in cui il licenziamento di un dipendente di ente locale, disposto per iscritto con “determinazione dirigenziale”, non era stato mai tramesso all’interessato, che ne era venuto a conoscenza richiedendone e ottenendone una copia informe dall’ente, la Corte ha ritenuto efficace il licenziamento a quest’ultima data, ribadendo che la relativa comunicazione per iscritto può avvenire anche in forma indiretta, purché chiara.

Corte di Cassazione, sentenza 21 luglio 2022, n. 22861

L’elusione del carattere temporaneo del lavoro interinale va accertata anche in base alle varie missioni presso il medesimo utilizzatore succedutesi nel tempo, indipendentemente dalla tempestiva impugnazione di ciascuna di esse.

Dopo aver lavorato, tra il 2008 e il 2016, per oltre 65 mesi presso la medesima impresa, in forza di dieci successivi contratti di somministrazione a tempo determinato, un lavoratore aveva agito giudizialmente per ottenere il riconoscimento del proprio diritto alla costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con la società utilizzatrice.

Tribunale e Corte d’appello avevano rigettato le domande del lavoratore, rilevando, da un lato, che per tutti i contratti antecedenti all’ultimo, l’accertamento richiesto dal lavoratore risultava precluso dal fatto che la prima impugnativa stragiudiziale era stata proposta solo a maggio 2016, oltre il termine di decadenza di sessanta giorni previsto dall’art. 32, co. 4, lett. d), L. n. 183/2010; dall’altro lato, che l’ultimo contratto, l’unico impugnato tempestivamente dal lavoratore, doveva considerarsi legittimo, essendo stato concluso sotto il vigore del D. Lgs. n. 81/2015, che non richiede l’indicazione di causali giustificative, né prevede limiti di durata per i contratti di somministrazione a tempo determinato.

Le valutazioni dei giudici di merito non superano il vaglio di legittimità della Corte di Cassazione, la quale, nell’accogliere il ricorso del lavoratore, osserva anzitutto che il carattere temporaneo del lavoro tramite agenzia interinale, sebbene non espressamente previsto dal D. Lgs. n. 81/2015, deve tuttavia considerarsi un requisito implicito e strutturale di questa tipologia contrattuale, in conformità con quanto stabilito dalla Direttiva 2008/104, alla quale i giudici nazionali sono tenuti a fare riferimento in virtù del principio di interpretazione conforme del diritto nazionale al diritto dell’Unione.

Da tale principio la Cassazione fa quindi discendere l’onere in capo al giudice di merito di verificare se, nel caso concreto, la reiterazione delle missioni del lavoratore presso l’impresa utilizzatrice abbia costituito il mezzo col quale eludere la regola della temporaneità.

Tale verifica, che sarà compito del giudice del rinvio effettuare deve necessariamente tenere conto di tutti i contratti di somministrazione succedutisi nel tempo, ivi inclusi quelli per i quali è maturata la decadenza dell’impugnazione, rilevanti come circostanze fattuali utili a stabilire se, nel suo complesso, l’utilizzo del lavoratore tramite somministrazione si sia protratto per un tempo superiore a un limite di durata che possa ragionevolmente considerarsi temporanea.

Corte di Cassazione, sentenza 14 luglio 2022, n. 22212

Cassazione: cambio appalto e clausola sociale

Con ordinanza n. 22212/2022, la Corte di Cassazione ha affermato che in caso di cambio di appalto la clausola sociale, prevista dal CCNL, che impone al datore di lavoro subentrante di assumere tutto il personale presente nell’appalto, trova un limite nel fatto che l’imprenditore ha il diritto ex art. 1218 c.c. di verificare l’idoneità del lavoratore a svolgere le mansioni previste.

Nel caso di specie quest’ultimo era stato condannato per spaccio di stupefacenti (fatto di particolare gravità): tale fatto consente al datore di lavoro di non adempiere all’obbligo di assumere.

Corte d’Appello di Roma, 12 luglio 2022

Cambio di appalto nei call center: il rapporto non continua automaticamente con l’appaltatore subentrante, ma se c’è licenziamento l’appaltatore uscente deve rispettare l’obbligo di repêchage.

La Corte accoglie il reclamo presentato da alcuni lavoratori di call center contro la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale competente aveva ritenuto giustificato il licenziamento degli operatori adibiti a un appalto nel frattempo aggiudicato ad un’altra società.

Secondo il Collegio la L. n. 11/2016, applicabile in questo caso, che prevede che il rapporto di lavoro “continua” con l’appaltatore subentrante non dispone un effetto di subentro automatico. Se il rapporto non prosegue con il subentrante, il datore uscente può recedere con licenziamento individuale, ma solo se prova l’impossibilità della ricollocazione presso altre commesse.

Corte d’Appello di Firenze, 23 giugno 2022

Reiterazione di contratti a tempo determinato, termine di decadenza per l’impugnazione, regime di acausalità.

La sentenza della Corte di Appello di Firenze esamina il ricorso di un musicista assunto a tempo determinato da una Fondazione Lirico-Sinfonica con una successione di contratti a tempo determinato in un arco temporale complessivo di oltre dieci anni.

La Corte, premesso immediatamente che alla vicenda in esame dovevano ritenersi applicabili le ordinarie norme sul rapporto di lavoro a tempo determinato (artt. 19 ss. D.lgs. n. 81/2015), stante la contrarietà alla normativa eurounitaria della disposizione nazionale che prevedeva un regime derogatorio per i rapporti di lavoro alle dipendenze delle fondazioni lirico-sinfoniche (Corte Giustizia UE, 25 ottobre 2018, n. 331, Causa C-331/17), ha tuttavia confermato la sentenza di primo grado del Tribunale di Firenze e respinto il ricorso del lavoratore.

La sentenza in esame evidenzia infatti che il lavoratore, in virtù del regime di decadenza di cui all’art. 28, comma 1, D.lgs. n. 81/2015, aveva impugnato soltanto alcuni dei contratti a termine intercorsi, e precisamente quelli stipulati nel periodo dal 12.06.2018 al 02.09.2018.

La Corte evidenzia, anche, che a mezzo dei suddetti contratti impugnati non può certamente dirsi superato il limite massimo di durata di un rapporto a termine pari a 36 o 24 mesi e dunque tale doglianza dell’appellante non può accogliersi.

L’elemento significativo di questa statuizione della Corte risiede nell’affermazione per cui, secondo il Collegio fiorentino, l’avvenuto decorso del termine di decadenza per l’impugnazione di alcuni contratti impedisce al Giudice non solo di valutarne la legittimità in termini di elementi e vizi formali e sostanziali, ma anche di considerare la stessa esistenza di quei contratti al fine di cumularne la durata con quella dei contratti tempestivamente impugnati per rilevare l’eventuale superamento del limite massimo di durata dei rapporti a termine complessivamente intercorsi tra le medesime parti.

Tale orientamento non risulta univoco in giurisprudenza: già nella vigenza del precedente D.Lgs. n. 368/2001, la giurisprudenza di merito aveva infatti affermato che “l’art. 32 del c.d. Collegato lavoro prevede l’onere di impugnare il contratto a termine nei soli casi relativi alla genesi del rapporto ed alla sua proroga […] mentre in nessun caso […] la norma prevede espressamente la decadenza nel caso di azione tesa a far valere, come nella fattispecie in esame, la successione abusiva di contratti a termine”(Trib. Ferrara, 11 aprile 2017, n. 81).

Anche di recente, è stato argomentato che, nel caso in cui il vizio fatto valere in giudizio non riguardi la forma e sostanza del singolo contratto, bensì l’illegittima reiterazione di più contratti a termine, è ovvio che l’impugnazione tempestiva dell’ultimo contratto renda possibile contestare l’eccessiva durata del complessivo rapporto intercorso, a prescindere dall’avvenuto decorso del termine di decadenza rispetto a precedenti rapporti che, sommati all’ultimo, superano il limite massimo globale di durata di 24 o 36 mesi (App. Roma, 19 febbraio 2021, n. 372; Trib. Trento, 4 dicembre 2018, n. 223).

Si segnala che, al contrario, in tema di somministrazione di lavoro a tempo determinato la Suprema Corte sembra stabilmente orientata nel riconoscere il decorso del termine di decadenza per l’impugnazione in relazione ad ogni singolo rapporto intercorso, a prescindere dalla reiterazione di diversi successivi contratti tra le medesime parti (Cass., 30 settembre 2019, n. 24356, ove vengono richiamati tutti i precedenti della Corte).

Un altro aspetto evidenziato dalla Corte fiorentina nella sentenza in esame riguarda il regime di indicazione della causale giustificativa nei contratti impugnati: il Collegio è in questo senso chiaro nel ritenere che, trattandosi di rinnovi di contratto a termine, la nuova disciplina del cd. Decreto Dignità (D.lgs. n. 87/2018) sia applicabile unicamente ai contratti sottoscritti successivamente al 31.10.2018 (art. 1, comma 2, D.lgs. n. 81/2018) e che, dunque, essendo i contratti oggetto di giudizio stipulati nel regime della cd. acausalità di cui al previgente art. 19 D.Lgs. n. 81/2015, non sia permessa al Giudice alcuna indagine sulla causale stessa e il suo carattere di temporaneità.

Questa tesi, come noto, ha trovato opposizione in giurisprudenza (invero in tema di contratto di somministrazione a termine) nelle pronunce di merito che hanno ritenuto che, a prescindere dal regime normativo di acausalità, la reiterazione per un lungo periodo di tempo di rapporti a termine si sarebbe posta in ogni caso in contrasto con il quadro normativo di riferimento, che impone che le esigenze di ricorso ai rapporti a tempo determinato, per quanto non esplicitate, siano comunque munite di un carattere costitutivo di temporaneità, negato in radice dall’esistenza di un complessivo rapporto durato per anni in modo pressoché ininterrotto (Trib. Lecce, 18 ottobre 2021, n. 3401; Trib. Firenze, 26 settembre 2019, n. 794).

Tribunale di Lodi, 12 settembre 2022

Legittimo il licenziamento del disabile per superamento del periodo di comporto.

Il Tribunale di Lodi, con la recente sentenza n. 19/2022, aderendo all’orientamento maggioritario tra i tribunali di merito, ha ritenuto non discriminatorio il licenziamento per superamento del periodo di comporto di un lavoratore disabile precisando che”nella fattispecie oggetto di causa la malattia della disabile non possa ritenersi discriminata e meritevole di maggior favore rispetto a quella di un altro lavoratore del settore non disabile, affetto da una patologia cronica o sottoposto ad un intervento chirurgico assimilabile a quello della ricorrente…in presenza di una durata del comporto che garantisca in presenza di una pluralita di eventi morbosi in un periodo di trenta mesi la conservazione del posto a fronte di una durata complessiva delle assenze per 15 mesi non può ritenersi discriminatorio applicare al lavoratore disabile il medesimo periodo di comporto del lavoratore non disabile, che abbia goduto di un analogo periodo di malattia.”

Tribunale di Cosenza, 14 settembre 2022

Inapplicabile l’art. 2070 c.c. nell’attuale sistema di contrattazione collettiva.

Con la pronuncia del 14.09.2022, il Tribunale di Cosenza ha ribadito il consolidato orientamento secondo il quale, nell’attuale sistema di contrattazione collettiva, non può trovare applicazione l’art. 2070 c.c. che individua il contratto collettivo applicabile al rapporto di lavoro in relazione all’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore.

Detta disposizione, infatti, appartiene al corredo di norme relative ai contratti collettivi corporativi e, in quanto tale, contrasta con il modello di contrattazione collettiva c.d. di diritto comune oggi in vigore.

In assenza dell’attuazione della seconda parte dell’art. 39 Cost. e in applicazione dei principi di libertà sindacale e autonomia negoziale riconosciuti dal co. 1 del medesimo articolo al rapporto di lavoro, trova applicazione il contratto collettivo sottoscritto dall’organizzazione a cui il datore di lavoro è iscritto o, in mancanza del vincolo associativo, il contratto che il medesimo datore richiama esplicitamente o implicitamente nel contratto individuale o a cui di fatto aderisce.

Tribunale di Palermo, 3 agosto 2022

Le società di food delivery sono tenute a tutelare i riders dal rischio di disidratazione

per le alte temperature per effetto degli obblighi in materia di sicurezza sul lavoro.

Hanno fatto scalpore le pronunce emesse in pieno agosto (cfr. anche Tribunale di Palermo 18 agosto), e in piena ondata di calore estivo, da due Giudici del Tribunale palermitano, che hanno accolto i ricorsi ex art. 700 c.p.c. presentati dai rider di due distinte società di food delivery per una tutela di condizioni di lavoro sostenibili.

Il Tribunale ha accordato le misure richieste dai lavoratori, ritenendo che, a prescindere dall’applicabilità dell’art. 2 del D.lgs. n. 81/2015 ai rapporti in questione, le società di food delivery siano in ogni caso vincolate agli obblighi in materia di sicurezza sul lavoro, ordinando alle stesse di farsi carico di una adeguata formazione e a fornire dispositivi di protezione (scorte di acqua, integratori creme protettive, ecc.).