NEWSLETTER 8/2024

Novita’ normative

Legge 12 luglio 2024, n. 101 (G.U. n. 163 del 13 luglio 2024) recante “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 15 maggio 2024, n. 63, recante disposizioni urgenti per le imprese agricole, della pesca e dell’acquacoltura, nonché’ per le imprese di interesse strategico nazionale”.

La legge in esame converte il c.d. Decreto Agricoltura, con cui, il legislatore ha introdotto misure a sostegno delle imprese agricole, della pesca e acquacoltura e nuove regole per l’installazione di impianti fotovoltaici in terreni agricoli.

Il provvedimento normativo ha introdotto una serie di misure finalizzate ad incrementare i controlli sul lavoro.

Innanzitutto, dispone i fondi sia per provvedere all’assunzione di un totale 514 ispettori tra INPS e INAIL, sia per investire in strumentazioni informatiche. Infatti, presso il Ministero del Lavoro, viene istituito un Sistema informativo per la lotta al caporalato nell’agricoltura, volto alla condivisione delle informazioni tra amministrazioni statali e regioni, per consentire lo sviluppo di una strategia volta al contrasto del caporalato, oltre a favorire l’evoluzione qualitativa del lavoro agricolo.

Inoltre, per rafforzare i controlli sugli appalti nel settore agricolo, è stata prevista anche l’istituzione presso l’INPS di una banca dati degli appalti in agricoltura. L’iscrizione alla banca dati sarà obbligatoria per le imprese che intendono partecipare ad appalti in cui l’impresa committente sia un’impresa agricola di cui all’art. 2135 c.c. e che sono imprese non agricole singole ed associate che svolgono servizi di raccolta di prodotti agricoli, nonché ad attività di cernita, pulitura e imballaggio dei prodotti ortofrutticoli, sia le imprese che effettuano lavori e servizi di sistemazione e di manutenzione agraria e forestale, di imboschimento, di creazione, sistemazione e manutenzione di aree a verde.

Le stesse imprese dovranno anche attivare una polizza fideiussoria assicurativa, da rilasciare al committente, a garanzia dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, nonché delle retribuzioni spettanti i lavoratori dipendenti dell’impresa stessa impiegati nell’appalto. In assenza di tale polizza verrà applicata

una sanzione amministrativa, che grava tanto sul committente quanto sull’appaltatore e che oscilla tra un minimo di Euro 5.000 ad un massimo di Euro 15.000. L’irrogazione della stessa impedirà, inoltre, per un periodo di un anno a decorrere dalla notifica dell’illecito, l’iscrizione o la permanenza dell’impresa committente nella Rete del lavoro agricolo di qualità.

Il D.Lgs. 12 luglio 2024, n. 103, recante misure di semplificazione dei controlli sulle attività economiche, potrebbe incidere anche sui controlli in materia di lavoro e legislazione sociale.

L’art. 1 del citato decreto, nel definire l’ambito di applicazione, fa un generico riferimento ai controlli amministrativi sulle attività economiche svolti dalle Pubbliche Amministrazioni, tra le quali appare difficile escludere l’Ispettorato nazionale del Lavoro. Di seguito si analizzano alcune delle nuove disposizioni che entreranno in vigore il prossimo 2 agosto 2024 e che rischiano di confliggere con istituti attualmente utilizzati dal personale ispettivo.

L’art. 6 si occupa delle violazioni sanabili e stabilisce che, per le infrazioni per le quali è prevista l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria non superiore nel massimo ad Euro 5.000, l’organo di controllo incaricato, nel caso in cui accerti, per la prima volta nell’arco di un quinquennio, l’esistenza di violazioni sanabili, diffida l’interessato a porre fine alla violazione, ad adempiere alle prescrizioni trasgredite ed a rimuovere le conseguenze dell’illecito amministrativo entro un termine non superiore a venti giorni dalla data della notificazione dell’atto di diffida.

Tale istituto presenta aspetti comuni e aspetti differenti rispetto alla diffida obbligatoria di cui all’art. 13, comma 2 D.Lgs. n. 124/2004, operativa ad oggi per le verifiche ispettive in materia di lavoro.

Tra i tratti comuni vi rientrano: (i) la finalità: entrambi si applicano ai casi di irregolarità sanzionate in via amministrativa con la finalità di indurre il trasgressore ad eliminare le conseguenze dannose; (ii) il risultato: per entrambe le procedure, il risultato finale dell’attività sanante e, quindi, dell’ottemperanza alla diffida, è quello di estinguere il procedimento sanzionatorio limitatamente alle inosservanze sanate.

Tra le differenze invece rilevano: (i) i termini: il termine per ottemperate è pari a 30 giorni per la diffida ex art. 13, mentre è di 20 giorni per la nuova diffida; (ii) apparato sanzionatorio: l’ottemperanza alla diffida ex art. 13, comporta l’applicazione di un importo sanzionatorio, commisurato nel minimo edittale previsto ovvero nel quarto della misura fissa, mentre la diffida ex art. 6 D.Lgs. n. 103/2024 consente al trasgressore di non andare incontro ad alcuna sanzione, la quale troverà applicazione nel solo caso di mancata ottemperanza.

Al fine di coordinare i due istituti occorre fare riferimento a quanto previsto dall’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 6, in ragione del quale la diffida amministrativa ivi disciplinata non si applica a violazioni di obblighi o adempimenti che riguardano la tutela della salute, la sicurezza e l’incolumità pubblica e la sicurezza sui luoghi di lavoro.

Con risposta ad interpello n. 142 del 24 giugno 2024 l’Agenzia delle Entrate ha risposto ad un quesito in merito alla dematerializzazione delle note spese e dei documenti che giustificano le spese sostenute dai dipendenti durante le trasferte di lavoro, in prevalenza per servizi di trasporto tramite taxi, saldati utilizzando, di regola, la carta di credito aziendale.

Il parere fornito dall’Agenzia si può così riassumere:

•        quando si parla di documenti informatici qualsiasi considerazione non può prescindere dal D.Lgs. n. 82/2005 (c.d. Codice dell’Amministrazione Digitale o CAD) e dai relativi decreti attuativi;

•        qualunque documento informatico avente rilevanza fiscale ossia qualunque documento elettronico che contiene la rappresentazione di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti ai fini tributari come le note spese che verranno poi utilizzate per la deducibilità dei relativi costi ai sensi del D.P.R. n. 917/1986, deve possedere, tra le altre, le caratteristiche della immodificabilità, integrità ed autenticità. Laddove tali accorgimenti siano effettivamente presenti, nulla osta a che i documenti analogici siano sostituiti da quelli informatici sopra descritti e che la procedura sia interamente dematerializzata;

•        restano fermi tutti gli ulteriori requisiti legislativamente individuati per la deducibilità dei costi (quali inerenza, competenza e congruità e le modalità di imputazione dei redditi in capo ai soggetti rimborsati);

  • ove sia richiesta la fattura, dal 1° gennaio 2024, è obbligatorio che la stessa sia emessa elettronicamente tramite il c.d. Sistema di Interscambio (SdI).;

•        in merito all’efficacia probatoria delle copie per immagine di documenti analogici, si rammenta che l’art. 22 del D.Lgs. n. 82/2005 (c.d. CAD) stabilisce che, «1 bis. La copia per immagine su supporto informatico di un documento analogico è prodotta mediante processi e strumenti che assicurano che il documento informatico abbia contenuto e forma identici a quelli del documento analogico da cui è tratto, previo raffronto dei documenti o attraverso certificazione di processo nei casi in cui siano adottate tecniche in grado di garantire la corrispondenza della forma e del contenuto dell’originale e della copia”.

Garante per la Protezione dei Dati Personali, provvedimento 6 giugno 2024, n. 338.

Utilizzo di sistemi di riconoscimento facciale per il controllo delle presenze sul posto di lavoro e di un gestionale per il rilievo dei tempi e delle pause di lavoro: violazione della disciplina a tutela dei dati personali.

Il Garante Privacy è intervenuto a seguito del reclamo di un dipendente di una concessionaria di automobili che lamentava il trattamento illecito di dati personali tramite un sistema di rilevazione dei dati biometrici dei lavoratori. Il lavoratore lamentava inoltre l’utilizzo di un software con cui ciascun dipendente era tenuto a registrare gli interventi di riparazione svolti sui veicoli assegnati, i tempi e le modalità di esecuzione dei lavori, nonché le pause e i tempi di inattività.

L’Autorità, in tale occasione, ha ribadito che il trattamento dei dati biometrici non è ad oggi consentito stante il fatto che non esiste alcuna norma che ne preveda l’utilizzo per la rilevazione delle presenze. Il datore di lavoro, infatti, è tenuto ad utilizzare strumenti di controllo meno invasivi tra i quali vi rientra, ad esempio, il badge.

Lo stesso Garante ha ricordato che il consenso prestato dai dipendenti non può in ogni caso essere considerato tale da ammettere la liceità dei suddetti sistemi di controllo altamente invasivi, in quanto vi è una evidente asimmetria tra le parti del rapporto di lavoro.

Anche l’utilizzo del software è stato sanzionato in quanto la Società non aveva fornito riscontri precisi sul trattamento effettuato, sulla natura e la tipologia dei dati trattati, sull’effettiva necessità e proporzionalità del trattamento rispetto alle finalità da perseguire, peraltro senza nemmeno fornire un’adeguata informativa a riguardo ai dipendenti.

Novita’ GIURISPRUDENZIALI

Corte Costituzionale, sentenza 16 luglio 2024, n. 129.

Tutele crescenti: sì alla reintegrazione in caso di mancanze disciplinari tipicizzate dal CCNL con sanzione conservativa.

Era stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2 del D.Lgs. n. 23/2015 (in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 2, 34, 35, 36, 39, 40 41 e 76 Cost.) in un giudizio relativo all’impugnazione, con conseguente richiesta di tutela reintegratoria, di un licenziamento disciplinare motivato da mancanze risultate esistenti, ma che il CCNL applicabile sanzionava con una misura conservativa del rapporto. Con una decisione, che ricostruisce puntualmente il quadro normativo di contenimento della libertà di recesso del datore di lavoro (e relativa disciplina sanzionatoria), nel suo sviluppo nel tempo dalla L. n. 604/66 a quella n. 300/70, dalla L. n. 92/2012 al D.Lgs. n. 23/2015 (applicabile ai neo-assunti dal 7 marzo 2015), la Corte dichiara infondata la questione sotto ogni profilo considerato. Ma, in riferimento all’art. 39 Cost., il giudizio è condizionato ad una interpretazione adeguatrice della norma, con riferimento all’ipotesi in cui la contrattazione collettiva tipicizzi specifiche ipotesi di mancanze disciplinari cui ricolleghi una sanzione conservativa. Attraverso tale interpretazione, la Corte giunge ad equiparate, sul piano sanzionatorio della reintegrazione c.d. minore, questa ipotesi a quella, esplicitamente considerata dalla legge, di insussistenza del fatto materiale contestato.

Corte Costituzionale, sentenza 16 luglio 2024, n. 128.

Jobs Act incostituzionale per assenza della tutela reintegratoria se il fatto che giustifica il licenziamento per giustificato motivo oggettivo risulti insussistente.

Era stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 1 e 2 del D.Lgs. n. 23/2015, nella parte in cui, in presenza dei prescritti requisiti dimensionali aziendali, non prevede la tutela reintegratoria in caso di insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (di dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015). La questione era stata sollevata nel giudizio di impugnazione di un licenziamento, in cui era risultata l’insussistenza del fatto oggettivo che lo avrebbe dovuto giustificare. La Corte, nell’accogliere le questioni con riferimento agli artt. 3, 4 e 35 Cost., ricorda il principio della necessaria causalità del licenziamento, posto a garanzia del lavoratore. In assenza della causa (insussistenza del fatto posto a suo fondamento), il licenziamento degrada a mero recesso senza causa, risultando di conseguenza illegittimo. Da qui il giudizio di irragionevolezza della diversità di trattamento dell’assenza di causa a seconda che questa sia legata a motivi soggettivi (nel qual caso la tutela è di reintegrazione) o a ragioni oggettive (mera tutela indennitaria). Conclusione sostenuta anche dalla possibilità di un uso distorto del licenziamento per causa oggettiva che mascheri una ragione soggettiva, escludendo così il rischio della reintegrazione per insussistenza del fatto contestato.

Corte di Cassazione, ordinanza 8 luglio 2024, n. 18547.

È ritorsivo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo dopo il rifiuto del part-time?

La Corte di Cassazione con tale ordinanza ha chiarito che, mentre il licenziamento motivato dall’esigenza di trasformazione del part time in full time o viceversa va ritenuto ingiustificato alla luce dell’art. 8, comma 1 D.Lgs. n. 81/2015, il licenziamento intimato a seguito del rifiuto del part time deve essere considerato ritorsivo, in quanto mosso dall’esclusivo e determinante fine di eludere il divieto di cui all’art. 8 D.Lgs. n. 81/2015 attraverso una ingiusta ed arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore, che attribuisce al licenziamento il connotato della vendetta.

Al licenziamento ritorsivo, essendo riconducibile ad un caso di nullità del recesso previsto dell’art. 1345 c.c., si applica la tutela reintegratoria.

Corte di Cassazione, ordinanza 8 luglio 2024, n. 18529.

Valida l’impugnazione del licenziamento avvenuta con l’invio via PEC da parte del difensore di un documento Word.

I giudici di merito avevano dichiarato la decadenza del ricorso di impugnazione di un licenziamento in quanto avvenuto per mezzo di invio tramite PEC, da parte del difensore del prestatore di lavoro, di un semplice file Word non sottoscritto e contenente il ricorso, anziché nella forma prescritta dal D.Lgs. n. 82/2005, ossia con l’invio di copia informatica di documento analogico. La Cassazione, nell’accogliere il ricorso del lavoratore, osserva che: (i) la soluzione formalistica adottata dai giudici di merito contrasta con la costante applicazione sostanzialistica dell’art. 6 L. n. 604/1966 praticata dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, quel che conta ai fini della validità dell’atto di impugnazione, è che esso sia idoneo a far conoscere con la dovuta certezza la volontà inequivoca di impugnare il licenziamento; (ii) nel caso di specie, tale idoneità sussiste senz’altro, dal momento che la società datrice non ha mai sostenuto che dal file Word allegato alla PEC non emergesse con chiarezza la volontà di impugnare il licenziamento o che il suo contenuto sia stato modificato; (iii) anche la mancata sottoscrizione del documento deve considerarsi priva di rilevanza, avendo la giurisprudenza di legittimità in più occasioni ribadito il principio per cui la produzione in giudizio di una scrittura, priva di firma da parte di chi avrebbe dovuto sottoscriverla, equivale a sottoscrizione, a condizione che tale produzione avvenga ad opera della parte stessa.

Corte di Cassazione, ordinanza 2 luglio 2024, n. 18094.

Sul licenziamento del disabile assunto obbligatoriamente causato dalla variazione organizzativa del lavoro.

Nella vicenda in esame, la Corte d’appello aveva ritenuto legittimo il licenziamento di un dipendente disabile, il quale era stato in precedenza assunto obbligatoriamente, a causa dell’esternalizzazione del servizio cui era addetto e dell’impossibilità di adibirlo ad altre mansioni, tenuto anche conto delle limitazioni conseguenti alla sua condizione di disabilità. La Cassazione accoglie il ricorso del dipendente e ricorda che il licenziamento per significative variazioni dell’organizzazione del lavoro (come anche per l’aggravarsi delle condizioni di salute) di un disabile assunto obbligatoriamente deve necessariamente seguire, a pena di invalidità (e nel caso esaminato ciò non è avvenuto), la procedura prescritta dal comma 3 dell’art. 10 L. n. 68/1999, che prevede l’accertamento da parte di una speciale Commissione integrata dell’eventuale impossibilità definitiva di reinserire il soggetto all’interno dell’azienda, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro.

Corte di Cassazione, sentenza 27 giugno 2024, n. 17715.

Un caso di licenziamento per abuso del whistleblowing.

La vicenda riguarda l’impugnazione del licenziamento di una dirigente pubblica, intimatole per avere trasmesso una sua segnalazione whistleblowing con gravi accuse a carico di un superiore, poi rivelatesi infondate e per avere successivamente pubblicato su una nota piattaforma social gli frammenti di una conversazione con un collega registrata di nascosto. La Cassazione, nel confermare la legittimità del recesso, si sofferma sui limiti delle tutele (invocate dalla dirigente) che l’ordinamento offre al whistleblower contro possibili ritorsioni, osservando che: (i) sebbene una registrazione di conversazioni tra un dipendente e i suoi colleghi presenti, all’insaputa dei conversanti, non sia in assoluto abusiva, essa appare legittima solo se svolta per finalità difensive in giudizio; (ii) il sistema di tutela del whistleblower opera solo nei confronti di chi segnala notizie di un’attività illecita, senza che sia ipotizzabile una tacita autorizzazione a improprie e illecite azioni di indagine per acquisire tali notizie; (iii) più in generale, deve escludersi l’applicabilità della disciplina di tutela del whistleblowing ogni qualvolta il segnalante agisca per scopi essenzialmente di carattere personale o per contestazioni o rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro nei confronti di superiori; (iv) nel caso di specie, essendo stato accertato che la dirigente, allorché aveva diffuso il contenuto della propria segnalazione e gli stralci della conversazione registrata di nascosto, aveva agito con il solo intento di gettare discredito sui colleghi, non vi è spazio per invocare le tutele previste dalla legge.

Corte di Cassazione, ordinanza 20 giugno 2024, n. 17036.

Repêchage senza obbligo di formazione da parte del datore di lavoro.

L’ordinanza conferma il rigetto delle domande di due dipendenti autisti, dirette all’annullamento del loro licenziamento per soppressione del posto di lavoro in ragione del mancato adempimento del datore di lavoro all’onere di repêchage in mansioni inferiori disponibili di addetto mensa. In proposito, la Corte, essendo stato accertato in giudizio che i ricorrenti, per occupare la mansione disponibile di addetto mensa avrebbero dovuto seguire un periodo annuale di formazione, ribadisce che l’obbligo di repêchage in mansioni equivalenti o inferiori è limitato, nell’art. 2103 c.c., alle attitudini e alla formazione di cui il dipendente sia dotato al momento del divisato licenziamento e non comporta per il datore di lavoro un obbligo di formazione nelle nuove mansioni, ma gli impone unicamente di provare che il lavoratore non abbia la capacità professionale richiesta per ricoprirle.

Corte di Cassazione, ordinanza 14 giugno 2024, n. 16630.

Sulla scadenza del termine stabilito per la revoca del licenziamento.

Una lavoratrice licenziata per giustificato motivo oggettivo, avendo ricevuto un telegramma di revoca del licenziamento il 16° giorno successivo dall’impugnazione dello stesso, aveva dichiarato inefficace la revoca a norma del comma 10 dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori e si era rifiutata di riprendere servizio (esponendosi ad un secondo subordinato licenziamento per giusta causa). Nel giudizio promosso dalla lavoratrice, il problema da risolvere era se i quindici giorni dalla ricezione dell’impugnazione del licenziamento prescritti per l’efficacia della revoca dello stesso dalla norma di legge citata abbiano come scadenza il giorno della ricezione della revoca oppure della semplice spedizione, che nel caso in esame era stata effettuata il giorno precedente.

In proposito, la Corte rileva che il comma 10 dell’art. 18 dello Statuto, stabilisce che la revoca va effettuata nei quindici giorni dalla comunicazione dell’impugnazione del licenziamento medesimo: di conseguenza, poiché il dato testuale non fa alcun riferimento alla comunicazione della revoca all’interessato, induce a ritenere sufficiente il mero invio della stessa al lavoratore nel termine prescritto e non anche la ricezione da parte del medesimo.

Corte di Cassazione, sentenza 12 luglio 2024, n. 19185.

Nullo il licenziamento durante il Covid-19 se il rifiuto del dipendente di passare al nuovo appaltatore è giustificato.

Durante il periodo pandemico dovuto al Covid-19, il legislatore aveva vietato o sospeso temporaneamente i licenziamenti collettivi e quelli per giustificato motivo oggettivo, “salvo le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore…”. In un giudizio in cui la Corte d’appello aveva dichiarato la nullità, con conseguente reintegrazione forte, del licenziamento, in periodo di blocco, di un dipendente che si era rifiutato di trasferirsi presso il nuovo appaltatore, la Cassazione rigetta il ricorso della società e osserva che: (i) ai sensi del primo comma dell’art. 46, D.L. n. 18/2020, per come riformulato dalla Legge di conversione n. 27/2020, la condizione per la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (in vigenza del divieto per Covid-19) è rappresentata dalla nuova assunzione del lavoratore da parte dell’appaltatore subentrante; (ii) tuttavia, se la nuova assunzione non si verifica a causa della mancata accettazione della proposta da parte del lavoratore, il licenziamento potrà considerarsi legittimo se il rifiuto si ponga in contrasto con i principi di correttezza e buona fede; (iii) tale condizione nel caso di specie non è presente, viste le modifiche peggiorative cui sarebbe andato incontro il lavoratore con il passaggio alle dipendenze del nuovo datore di lavoro. Di conseguenza, il licenziamento deve considerarsi illegittimo; (iv) il divieto di licenziamento posto dal citato art. 46, in quanto precetto con un contenuto specifico, preciso e individuato, nonché rispondente a interessi pubblici fondamentali, è da ricondurre alla categoria delle norme imperative, la cui violazione determina la nullità dell’atto di recesso ai sensi dell’art. 1418, co. 1, c.c., con conseguente reintegrazione forte del dipendente.

Corte di Cassazione, ordinanza 3 luglio 2024, n. 18263.

No alla sospensione del dipendente che si è dimesso con preavviso.

Un dirigente, dopo aver reso le proprie dimissioni con preavviso, era stato immediatamente privato da parte dell’azienda del telefono aziendale e del computer oltre ad essere stato invitato a non presentarsi in azienda, fermo restando il pagamento della retribuzione. Non ottenendo chiarimenti, al quinto giorno successivo il dirigente si era dimesso per giusta causa. Nel corso del

giudizio, la Corte d’Appello aveva disatteso la sua domanda di indennità sostitutiva del preavviso, in considerazione della brevità del periodo di cinque giorni di sospensione dal servizio. Questa previsione è stata cassata dalla Corte di Cassazione, la quale rileva che, a parte la considerazione che la sospensione era stata assunta senza determinazione di durata, quest’ultima costituisce solo uno dei possibili indici della gravità del fatto riconducibile alla nozione di giusta causa di dimissioni. Con essa occorre infatti valutare anche le modalità (nel caso in esame, repentine e umilianti) con le quali era stata attuata la sospensione, da ritenere del tutto illegittima in quanto unilaterale e non correlata a colpe del dipendente, a fronte dell’esercizio, da parte di quest’ultimo, del diritto soggettivo di recedere con preavviso.

Tribunale di Milano, sentenza 24 giugno 2024, n. 2195.

Dimissioni per giusta causa: l’INPS non può limitare la concessione della NASpI ad alcune soltanto delle ipotesi legittimanti le dimissioni.

Il Tribunale di Milano ha riconosciuto il diritto a percepire il trattamento di disoccupazione ad un lavoratore che, dopo avere rivolto richieste e diffide al proprio datore di lavoro, si era dimesso per giusta causa motivata dal mancato riconoscimento del corretto inquadramento contrattuale rispetto alle nuove mansioni svolte.

L’Istituto lo aveva negato ritenendo che la giusta causa di dimissioni legittimasse l’accesso alla NASpI solo in casi ritenuti più gravi quali il mancato pagamento della retribuzione, la dequalificazione professionale, le molestie sessuali. Il Tribunale, accertata la sussistenza dei fatti contestati dal lavoratore al datore di lavoro, censura la tesi riduttiva dell’Istituto. Il Giudice nega altresì rilevanza ostativa al fatto che lavoratore e azienda avessero raggiunto un accordo conciliativo, ritenuto anzi conferma della rilevanza della controversia.

Corte d’Appello di Brescia, sentenza 14 giugno 2024, n. 372.

In caso di pluralità di contratti di somministrazione che si susseguono senza soluzione di continuità il termine di impugnazione inizia a decorrere dalla data di cessazione effettiva dell’attività presso l’utilizzatore.

Così ha statuito la Corte d’Appello di Brescia in relazione alla decadenza dall’azione volta ad ottenere la costituzione del rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore, prevista ai sensi del comma 2 dell’art. 39 del D.Lgs. n. 81/2015. Il lavoratore, quindi, ha l’onere di impugnare i contratti di lavoro ritenuti illegittimi entro il termine di 60 giorni che decorre dalla data in cui è effettivamente e definitivamente cessato il rapporto con l’utilizzatore, non avendo alcun rilievo che tale rapporto sia il risultato di un susseguirsi, senza soluzione di continuità, di contratti di lavoro somministrato a termine.

Corte di Cassazione, sentenza 7 giugno 2024, n. 15957.

L’ambiente di lavoro stressogeno legittima il risarcimento del danno.

La Corte d’Appello aveva rigettato la domanda di una dipendente del Ministero dell’Istruzione diretta ad ottenere il risarcimento del danno per le vessazioni subite da colleghi e superiori, evidenziando che dalle risultanze testimoniali risultava che le difficoltà relazionali erano imputabili anche alla stessa lavoratrice. La sentenza tuttavia è stata cassata dai giudici di legittimità, i quali osservano che, in materia di tutela della salute nell’ambiente di lavoro, è stato ripetutamente affermato come un “ambiente lavorativo stressogeno” sia configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2087 c.c.

NEWSLETTER 7/2024

Novita’ normative

Il 5 giugno 2024 è stata firmata l’intesa, con vigenza dal 1° giugno 2024 al 31 dicembre 2027, che ha rinnovato il CCNL Pubblici esercizi, Ristorazione collettiva e commerciale e Turismo.

Tra le numerose novità:

  • aumento contrattuale a regime di 200 euro al 4°livello, da riparametrare per gli altri. La prima tranche di aumento salariale di 50 Euro sarà corrisposta con la retribuzione del mese di giugno 2024; seguiranno altre 4 tranche di 40, 40, 30 e 40 Euro;
  • aumento di 3 Euro del contributo per l’assistenza sanitaria integrativa Fondo EST a carico delle aziende a partire dal 1° gennaio 2027;
  • rafforzamento dell’assistenza sanitaria integrativa e una durata di tre anni e mezzo, con scadenza il 31 dicembre del 2027;
  • rivisitato l’impianto esistente della classificazione del personale, aggiornando le figure professionali rispetto all’evoluzione dei vari comparti.

Significativi gli interventi sulle politiche di genere:

•    inserite misure di contrasto alle molestie e violenze nei luoghi di lavoro;

•    previsti ulteriori 90 giorni di congedo retribuito al 100% per le donne vittime di violenza di genere, in aggiunta ai novanta previsti dalla Legge;

•    definita la possibilità di essere trasferiti in altre sedi di lavoro e di essere escluse da turni disagiati;

•    rinnovata la disciplina dei congedi di maternità e paternità obbligatori e facoltativi;

•    i periodi di congedo di maternità e paternità (alternativo ed obbligatorio), nonché i periodi di congedo parentale, saranno computati ai fini dell’integrale maturazione e corresponsione della tredicesima mensilità. Lo stesso criterio sarà applicato per la quattordicesima mensilità, salvo che i periodi di congedo parentale saranno computati solo a partire dal 1° dicembre 2027;

•    per le lavoratrici e i lavoratori part time è stato confermato un esame congiunto volto al consolidamento del lavoro supplementare svolto in maniera continuativa.

Con risposta ad interpello n. 130 del 6 giugno 2024 l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che l’indennità corrisposta al lavoratore – in seguito a sentenza che ha accertato l’illegittimità del contratto di somministrazione per superamento del limite consentito ex art. 31, comma 2, D.Lgs. n. 81/2015 (e del CCNL applicato) – ha natura risarcitoria e, pertanto, deve essere tassata separatamente.

La predetta indennità, per effetto del citato art. 39, ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore – comprese le conseguenze retributive e contributive – relativo al periodo compreso tra la data in cui il lavoratore ha cessato la propria attività presso l’utilizzatore e la pronuncia del giudice costitutiva del rapporto di lavoro.

Tale indennità, ad avviso dell’Agenzia, è qualificabile quale risarcimento del danno consistente nella perdita di redditi di lavoro dipendente e come tale ha una valenza sostitutiva del reddito non conseguito – ai sensi dell’art. 6 TUIR – e, dunque, deve essere tassata.

Tali somme – precisa l’Agenzia – rientrano nella portata applicativa dell’art. 17, comma 1, lett. b), che prevede la tassazione separata sugli emolumenti arretrati per prestazioni di lavoro dipendente riferibili ad anni precedenti, percepiti per effetto di leggi, di contratti collettivi, di sentenze o di atti amministrativi sopravvenuti o per altre cause non dipendenti dalla volontà delle parti.

Dunque, l’indennità risarcitoria – di cui all’art. 39, comma 2, del D.lgs. 81/2015 – deve essere assoggettata a tassazione separata.

Garante Privacy, provvedimento 6 giugno 2024, n. 364.

Posta elettronica nel contesto lavorativo. Indicazioni del Garante Privacy.

Il Garante per la protezione dei dati personali, con il provvedimento del 6 giugno 2024, fornisce il proprio indirizzo circa i programmi e servizi informatici di gestione della posta elettronica nel contesto lavorativo e trattamento dei metadati.

In particolare il Garante Privacy ha ribadito che:

  • il contenuto dei messaggi di posta elettronica – come pure i dati esteriori delle comunicazioni e i file allegati – riguardano forme di corrispondenza assistite da garanzie di segretezza tutelate anche costituzionalmente (artt. 2 e 15 Cost.), che proteggono il nucleo essenziale della dignità della persona e il pieno sviluppo della sua personalità nelle formazioni sociali. Ciò comporta che, anche nel contesto lavorativo pubblico e privato, sussista una legittima aspettativa di riservatezza in relazione ai messaggi oggetto di corrispondenza;
  • dovrà essere sempre verificata la sussistenza dei presupposti di liceità stabiliti dall’art. 4 della L. 20 maggio 1970, n. 300, nonché il rispetto delle disposizioni che vietano al datore di lavoro di acquisire e comunque trattare informazioni non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore o comunque afferenti alla sua sfera privata (art. 8 della L. 20 maggio 1970, n. 300 e artt. 113 e 114 del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196). La violazione delle norme determina, oltre all’applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie ai sensi dell’art. 83, par. 5, lett. d) del Regolamento, anche il possibile insorgere di responsabilità sul piano penale (cfr. art. 171 del Codice);
  • i tempi di conservazione dei metadati devono in ogni caso essere proporzionati rispetto alle legittime finalità perseguite. In particolare, finalità connesse alla sicurezza informatica e alla tutela del patrimonio informatico giustificano la conservazione dei metadati per un arco temporale congruo rispetto all’obiettivo di rilevare e mitigare eventuali incidenti di sicurezza, adottando tempestivamente le opportune contromisure. Ove i tempi di conservazione non siano definiti in maniera proporzionata alle finalità del trattamento, il titolare del trattamento può incorrere nella violazione del principio di “limitazione della conservazione”, con conseguenti sanzioni.

Ispettorato Nazionale del Lavoro, nota 18 giugno 2024, n. 1091.

Appalto, distacco e somministrazione illeciti. Regime sanzionatorio.

La Direzione Centrale coordinamento giuridico, dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL), con la sopracitata nota ha fornito alcune indicazioni operative relative al regime sanzionatorio in materia di somministrazione, appalto e distacco illeciti, così come previsto dall’articolo 29, del D.L. n. 19/2024.

Segnaliamo in particolare:

  • Importo delle ammende: l’art. 29, comma 4, del D.L. n. 19/2024 ha ripristinato il rilievo penale delle fattispecie sanzionate dall’art. 18 del D.Lgs. n. 276/2003, precedentemente depenalizzate dall’art. 1 del D.Lgs. n. 8/2016, introducendo la pena – alternativa o congiunta – dell’arresto o dell’ammenda. Nella nota dell’INL vengono precisate, l’importo dell’ammenda (che non può, in ogni caso, essere inferiore a euro 5.000 né superiore a euro 50.000) e le relative possibili maggiorazioni.
  • Regime della recidiva: il tema della recidiva riferito alle violazioni di cui al nuovo art. 18 del D.Lgs. n. 276/2003 l’INL evidenzia agli ispettori che, esistendo una parziale sovrapposizione di diverse disposizioni normative (come l’art. 1, comma 445 lett. e), L. n. 145/2018, secondo cui “le maggiorazioni sono raddoppiate ove, nei tre anni precedenti, il datore di lavoro sia stato destinatario di sanzioni amministrative o penali per i medesimi illeciti” e il D.L. n. 19/2024, che ha introdotto all’art. 18 del D.Lgs. n. 276/2003 un nuovo comma 5-quater, secondo il quale “gli importi delle sanzioni previste dal presente articolo sono aumentati del venti per cento ove, nei tre anni precedenti, il datore di lavoro sia stato destinatario di sanzioni penali per i medesimi illeciti”, occorrerà valutare se si tratti di recidiva “semplice” o recidiva “specifica”.
  • Aggravanti per sfruttamento dei minori: ad eccezione dell’ipotesi di esercizio non autorizzato dell’attività di intermediazione con scopo di lucro, anche in presenza dell’aggravante per sfruttamento di minori, andrà applicata la prescrizione ex art. 20, D.Lgs. n. 758/1994 e, in caso di ottemperanza, un’ammenda pari al quarto del sestuplo della sanzione base (aumentata del 20%) o di quella determinata a seguito di recidiva. Inoltre, l’importo da irrogare in concreto dovrà tenere conto dei limiti minimi e massimi sopra indicati.

INPS, circolare 20 maggio 2024, n. 67.

Accesso alla prestazione di disoccupazione NASpI e DIS-COLL in favore dei lavoratori sportivi.

Con la circolare n. 67/2024 l’INPS ha fornito le istruzioni operative per la fruizione delle indennità di disoccupazione (Naspi e Dis-Coll) nel lavoro sportivo. Le indicazioni completano il quadro della nuova disciplina introdotta dalla riforma con il D.Lgs n. 36/2021, nel quale l’INPS conferma l’estensione della disciplina Naspi per i lavoratori sportivi subordinati iscritti al nuovo Fondo pensione dei lavoratori sportivi dal 1° luglio 2023, non rilevando il settore professionistico o dilettantistico in cui costoro svolgono l’attività.

Novita’ GIURISPRUDENZIALI

Corte di Cassazione, sentenza 17 giugno 2024, n. 16674.

Il tempo preparatorio della prestazione è in orario di lavoro se si svolge sotto la direzione datoriale.

La Suprema Corte, con la citata sentenza ha chiarito che deve considerarsi invalida, in quanto contraria a norma imperativa, la clausola di un accordo sindacale aziendale che preveda una franchigia temporale, entro la quale sia posto a carico dei lavoratori il tempo necessario per il trasferimento dal luogo di ricovero del mezzo aziendale a quello del primo intervento nonché, al termine della giornata di lavoro, per il tragitto inverso.

Nel caso sottoposto al giudizio della Corte, in forza di un accordo sindacale aziendale, veniva statuito come il tempo della prestazione lavorativa iniziasse al momento di arrivo dei tecnici presso il primo cliente e terminasse alla fine dell’intervento presso l’ultimo; pertanto, il tempo di viaggio necessario per recarsi al domicilio del cliente e quello per tornare alla sede aziendale non veniva più retribuito. Sulla scorta del dettato dell’art. 1 comma 2 del D.Lgs. 66/2003, in virtù del quale rientra nel tempo di lavoro e di conseguenza deve essere retribuito ogni momento in cui il lavoratore sia a disposizione del datore di lavoro nello svolgimento delle sue mansioni, compresi i tempi per gli spostamenti necessari, la Corte è giunta ad affermare la nullità dell’accordo summenzionato, in quanto contrario a norma imperativa.

In particolare, il tempo preparatorio della prestazione lavorativa rientra nell’orario di lavoro laddove le relative operazioni si svolgano sotto la direzione e il controllo del datore di lavoro, con conseguente nullità degli accordi collettivi che prevedano una franchigia temporale, entro la quale i tempi necessari per gli spostamenti siano posti a carico dei lavoratori.

Corte di Cassazione, sentenza 6 giugno 2024, n. 15845.

Licenziamento per superamento del periodo di comporto: escluse dal calcolo le giornate in cui il lavoratore accede al Pronto Soccorso.

La Cassazione afferma che la clausola del CCNL, nello specifico l’art. 70 del CCNL Carta Industria, che esclude dal computo del comporto le giornate di “ricovero ospedaliero e day hospital” va interpretata nel senso di non conteggiare, a tal fine, tutto il tempo in cui il lavoratore è ricoverato presso una struttura sanitaria, anche se solo per una giornata o per una parte di essa, per essere sottoposto a indagini, cure e assistenza non eseguibili a domicilio.

Corte di Cassazione, ordinanza 3 giugno 2024, n. 15391.

Illegittimo il licenziamento, se le contestazioni sono tratte dal Telepass in uso al dipendente.

Nel caso specifico, un dipendente è stato licenziato per inadempimenti legati al suo orario e luogo di lavoro, dati acquisiti attraverso il Telepass. Il Tribunale di Fermo ha inizialmente convalidato il licenziamento, ma la Corte d’Appello di Ancona ha ribaltato questa decisione, considerando i dati del Telepass inutilizzabili per mancanza di una specifica informativa sull’uso a fini di controllo.

L’applicazione di questa norma ha portato la Cassazione a precisare che il Telepass, qualora installato su auto aziendali adibite a specifici servizi, assume la funzione di strumento di lavoro. Tuttavia, le informazioni raccolte tramite il dispositivo sono utilizzabili per fini disciplinari solo se il lavoratore è stato adeguatamente informato su come il dispositivo sarà usato per monitorare le sue attività.

La Cassazione distingue tra i “controlli difensivi” – indirizzati alla tutela dei beni aziendali e alla prevenzione di comportamenti illeciti, che possono essere attivati solo in presenza di un fondato sospetto e devono essere proporzionati e non invasivi – e l’uso normale di strumenti tecnologici come il Telepass, che, seppur potenzialmente utilizzabile per controlli, necessita di specifica informativa.

In conclusione, se il datore di lavoro vuole utilizzare il Telepass per monitorare le attività del dipendente, deve prima informare il dipendente in modo chiaro e dettagliato. In assenza di tale informativa, i dati raccolti non sono ammissibili per giustificare decisioni disciplinari come un licenziamento.

Corte di Cassazione, ordinanza interlocutoria 29 maggio 2024, n. 15030 alla Corte costituzionale l’esclusione dei dirigenti dal “blocco” dei licenziamenti individuali per g.m.o. durante la pandemia da Covid-19.

La Corte d’appello aveva dichiarato la nullità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un dirigente d’azienda, in quanto disposto ad aprile 2020, nella vigenza del “blocco” dei licenziamenti (collettivi e individuali per g.m.o.) durante la pandemia da Covid-19, introdotto dall’art. 46, D.L. 18/20 e successive proroghe e che i giudici di merito avevano ritenuto applicabile anche ai dirigenti.

L’interpretazione dei giudici di merito non è condivisa dalla Cassazione, che osserva: (i) nel definire l’ambito applicativo del divieto dei licenziamenti individuali, il legislatore dell’emergenza ha fatto espresso riferimento al recesso per “giustificato motivo oggettivo disposto ai sensi dell’art 3 della legge 15 luglio 1966 n. 604”, che non menziona i dirigenti, quindi esclusi dal successivo divieto; (ii) al contrario, il blocco dei licenziamenti collettivi riguarda senz’altro anche i dirigenti, perché anche a costoro si applica la L. 223/91, le cui procedure sono state temporaneamente vietate dal legislatore dell’emergenza pandemica; (iii) per i dirigenti, si registra, quindi, un’asimmetria nel regime del blocco dei licenziamenti, che non appare ragionevole, tenuto anche conto che il sacrificio così imposto ai datori di lavoro è stato bilanciato attraverso una serie di misure economiche che presuppongono tutte la portata generalizzata del blocco dei licenziamenti collettivi e individuali per ragioni oggettive, a prescindere dalla categoria legale di inquadramento dei dipendenti altrimenti licenziabili; (iv) l’asimmetria non è tuttavia superabile attraverso l’interpretazione costituzionalmente conforme della norma emergenziale come proposta dalla Corte d’appello, che non è compatibile con il dato letterale assolutamente univoco dell’art. 46, né, d’altro canto, attraverso un’applicazione analogica della norma, il cui carattere eccezionale è evidente; (v) non resta quindi che investire della questione la Corte costituzionale, perché si pronunci sulla compatibilità della norma con l’art. 3 della Costituzione.

Corte di Cassazione, ordinanza 28 maggio 2024, n. 14848.

Va retribuito il tempo necessario a percorrere il tragitto dall’ingresso dell’azienda fino alla postazione di lavoro.

La Corte d’appello aveva riconosciuto il diritto dei dipendenti di un’azienda a vedersi retribuiti, quale tempo effettivo di lavoro, i 5 minuti dagli stessi impiegati per raggiungere la postazione di lavoro, e fare login sul proprio personal computer, dopo avere varcato l’ingresso della sede aziendale (e viceversa al termine della prestazione). Nel confermare la decisione di merito, la Cassazione osserva che: (i) in giurisprudenza è consolidato l’orientamento per cui è da considerarsi orario di lavoro l’arco temporale che il lavoratore trascorre all’interno dell’azienda nell’espletamento di attività prodromiche ed accessorie allo svolgimento delle mansioni affidategli, ove il datore di lavoro non provi che egli sia ivi libero di autodeterminarsi ovvero non assoggettato al potere gerarchico; (ii) a tale principio si è correttamente conformata

la Corte d’appello, la quale ha ritenuto accertato che per i dipendenti fosse necessario e obbligatorio fare il tragitto dall’ingresso fino alla postazione di lavoro e compiere ogni altra attività preliminare cui essi sono tenuti in base all’organizzazione predisposta dal datore di lavoro.

Corte di Cassazione, sentenza 22 maggio 2024, n. 14307.

Discriminatorio il licenziamento del disabile in mancanza di “accorgimenti ragionevoli”.

La Corte di Cassazione, con la citata sentenza è tornata ad esaminare la delicata questione legata alla qualificazione dell’illegittimo licenziamento del lavoratore disabile per motivo oggettivo consistente nella sopravvenuta inidoneità fisica o psichica alla mansione e – sposando l’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza nazionale e comunitaria – ha dichiarato discriminatorio (con conseguente applicazione della tutela reintegratoria piena) il provvedimento espulsivo senza previo tentativo del datore di lavoro di ricollocare in azienda il lavoratore e di adottare gli accorgimenti organizzativi ragionevoli di cui all’ all’art. 3, comma 3-bis D.Lgs. n. 216/2003 che non richiedano eccessivi oneri finanziari.

Corte di Cassazione, sentenza 22 maggio 2024, n. 14301.

Nullo il licenziamento a causa di matrimonio della lavoratrice, anche se già di fatto convivente.

Il giudizio promosso da una lavoratrice per ottenere la dichiarazione di nullità del licenziamento intimatole nel 2019 all’interno del periodo di un anno dalle pubblicazioni di matrimonio da modo alla Cassazione, nel confermare la sentenza dei giudici di appello di accoglimento delle domande, di ricordare: (i) che la nullità del licenziamento della donna lavoratrice a causa di matrimonio prescinde dalla considerazione della buona fede del datore di lavoro (che, ad es. come nel caso di specie, sia a conoscenza del fatto che il matrimonio intervenga in una situazione di precedente convivenza di fatto) ed è esclusivamente legato al fatto che esso cada nel periodo di un anno dalle pubblicazioni di matrimonio, se questo poi segua; (ii) che tale presunzione di collegamento del licenziamento col matrimonio può vincersi per legge unicamente in tre casi: colpa grave della lavoratrice, costituente giusta causa di licenziamento, cessazione dell’attività di azienda e scadenza del termine direttamente o indirettamente apposto al contratto di lavoro; (iii) che in questo come negli altri casi di nullità del licenziamento la tutela reintegratoria piena esclude la detrazione dell’”aliunde percepiendum” (che nel caso sarebbe stato rappresentato, secondo la società, da ciò che la lavoratrice avrebbe guadagnato accettando la proposta di revoca del licenziamento proveniente dalla società); (iv) che questa disciplina non discrimina gli uomini lavoratori, perché la diversità di trattamento non è giustificata dal genere, ma dalla realtà sociale che rende necessarie misura di protezione inutili per gli uomini.

Corte di Cassazione, sentenza 21 maggio 2024, n. 14089.

Ancora sulla composizione della retribuzione feriale.

Secondo il diritto comunitario, come interpretato dalla Corte di giustizia, vincolante nella Comunità, la retribuzione del periodo di ferie deve comprendere qualsiasi importo che si ponga in rapporto di collegamento con l’esecuzione delle mansioni lavorative e che sia correlato allo status personale e professionale del lavoratore. Ciò perché la previsione di importi minori potrebbe costituire per il lavoratore un deterrente all’esercizio del suo fondamentale diritto al riposo annuale. Invocando ancora una volta questo principio, la Cassazione ha accolto le domande del macchinista di una società ferroviaria, relative alla inclusione nella retribuzione feriale dell’indennità per assenza dalla residenza e della parte variabile dell’indennità di utilizzazione/condotta, ambedue tipiche delle mansioni, da calcolare nella media dei 12 mesi precedenti la fruizione dei singoli periodi di ferie.

Corte di Cassazione, ordinanza 20 maggio 2024, n. 13934.

Anche fruire dei permessi per assistere un parente disabile costituisce fattore di rischio di discriminazione nel lavoro.

Nel giudizio di impugnazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo di una dipendente fruente dei permessi di cui alla L. n. 104/1992 per assistere il marito disabile grave, la Corte di cassazione annulla con rinvio ad altro collegio di giudici di merito la sentenza della Corte d’appello per non aver tenuto conto, nella valutazione della fattispecie (che aveva condotto all’accoglimento parziale della domanda con applicazione peraltro della sola tutela indennitaria), della disciplina antidiscriminatoria di cui al D. Lgs. n. 216/2003. In proposito, la Corte rileva anzitutto che nel testo di tale decreto (come del resto nella direttiva comunitaria di cui esso costituisce attuazione) la condizione di handicap non è tutelata con esclusivo riferimento al lavoratore handicappato, ma la tutela si estende anche a coloro che per legge lo assistono, costituendo tale situazione un fattore di rischio di discriminazione in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Ciò posto, secondo la Corte, le circostanze di fatto acquisite avrebbero meritato la verifica da parte della Corte d’appello di una possibile correlazione significativa tra il fattore di rischio indicato e il licenziamento e quindi del carattere discriminatorio di quest’ultimo, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria piena.

Corte di Cassazione, ordinanza 15 maggio 2024, n. 13479.

Irriducibili dal giudice le sanzioni disciplinari inflitte dal datore di lavoro.

Il Tribunale di Grosseto, giudicando della legittimità della sanzione di cinque giorni di sospensione di una lavoratrice, ritenuti accertati i fatti contestati e valutata peraltro eccessiva la sanzione

conseguente, l’aveva ridotta a due giorni di sospensione. La sentenza era stata riformata in appello, con l’annullamento della sanzione, sempre perché ritenuta sproporzionata. Su ricorso della società, che originariamente, agendo in giudizio, aveva chiesto l’accertamento della legittimità della sanzione di cinque giorni “o quella che sarà ritenuta di giustizia”, la Cassazione, richiamando un proprio precedente del 2019, rigetta il ricorso della società, affermando che l’irrogazione delle sanzioni disciplinari rientra nel potere organizzativo e direttivo dell’imprenditore, al quale il giudice non può sostituirsi rimodulandone la misura, anche solo in senso riduttivo, salvo che: a) la sanzione abbia illegittimamente superato il minimo edittale; b) oppure sia lo stesso imprenditore a chiedere in giudizio la riduzione della sanzione a una misura determinata (e non genericamente, come nel caso di specie).

Corte di Cassazione, ordinanza 7 maggio 2024, n. 12393.

Licenziamento tardivo.

La Corte ha ritenuto difettare del requisito della tempestività il (secondo) licenziamento irrogato ad un dipendente appena reintegrato, a seguito di contestazione elevata successivamente alla reintegra ed avente ad oggetto fatti di cui il datore di lavoro era venuto a conoscenza già nel corso del giudizio relativo al primo licenziamento. Secondo la Corte, il datore avrebbe dovuto procedere senza ritardo alla contestazione degli addebiti anche nelle more del giudizio, in quanto il primo licenziamento (illegittimo) non poteva considerarsi idoneo a risolvere il rapporto che, quindi, doveva considerarsi giuridicamente persistente benché sospeso. Sulla scia di quanto stabilito dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 3098/2017, la Corte ha anche ribadito che la tardività della contestazione costituisce un vizio di natura sostanziale, che determina l’applicazione della tutela indennitaria c.d. “forte” ai sensi dell’art. 18 comma 5 dello Statuto dei Lavoratori, anziché quella c.d. debole, ex art. 18 comma 6, che spetta in caso di violazioni di natura procedurale.

Tribunale di Milano, sentenza 22 maggio 2024, n. 988.

Diritto all’APE sociale equiparato a quello alla Naspi, per la lavoratrice che abbia risolto consensualmente il rapporto per impossibilità di accettare un trasferimento.

Il Tribunale condanna l’Ente previdenziale a riconoscere il diritto a percepire l’anticipo pensionistico a una lavoratrice la quale, a seguito della chiusura dello stabilimento presso cui era adibita, aveva rifiutato il trasferimento presso altra sede aziendale distante quasi 300 km dall’abitazione. Su tali basi la dipendente e il datore avevano deciso di procedere con la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro. Il Tribunale ha ritenuto irragionevole ed illegittima la posizione assunta dall’INPS che, stante l’asserita tassatività delle fattispecie previste per l’accesso all’APE sociale, sosteneva che la risoluzione consensuale del rapporto non fosse tra queste. Per il Giudice

non sussistono motivi per discostarsi da quanto accade nei casi di domanda di NASpI, nei quali lo stesso Ente convenuto riconosce comunque il requisito dell’involontarietà della disoccupazione – e quindi la relativa indennità – quando vi è rifiuto del lavoratore al trasferimento oltre i 50 km dalla propria residenza.

Tribunale di Roma, sentenza 4 marzo 2024, n. 2615.

L’influencer che promuove stabilmente e con continuità i prodotti di un’azienda è inquadrabile come agente di commercio.

Il Tribunale di Roma respinge l’impugnazione di un verbale ispettivo che aveva accertato la natura di contratto di agenzia, con i conseguenti obblighi di versamento contributivo, per alcuni rapporti contrattuali costituiti da un’impresa che vende integratori alimentari mediante tecniche di e-commerce affidate a influencer. Il Tribunale accerta il carattere della stabilità del rapporto di promozione e, pur rammentando che l’assegnazione all’agente di una specifica zona di vendita non è elemento essenziale del contratto, ritiene che per zona possa intendersi non solo quella geografica ma anche una porzione di mercato, che nel caso dell’influencer è costituita dalla comunità dei followers che lo seguono. L’evoluzione tecnologica e delle modalità di vendita sul mercato consente di inserire la figura professionale dell’influencer, in grado di influenzare le scelte di mercato di coloro che lo seguono, nell’ambito dello schema contrattuale dell’agente, quando l’attività di promozione non sia del tutto episodica, ma concordata stabile e continuativa. Dovuto dall’impresa anche il pagamento del FIRR, in forza del degli accordi economici collettivi del 1957 e 1958 estesi erga omnes dai decreti emanati in attuazione della legge Vigorelli del 1959.