NEWSLETTER 9/2024

Novita’ normative

Il D.Lgs. 12 luglio 2024, n. 103, recante misure di semplificazione dei controlli sulle attività economiche, in materia di ispezioni sul lavoro vieta i doppi controlli contemporanei.

Tra le principali novità in materia di lavoro e legislazione sociale, introdotte dal D.Lgs. 103/2024 in vigore dal 2 agosto, c’è il divieto di effettuare due o più ispezioni contemporaneamente, da parte di diverse amministrazioni (Ispettorato, INPS, INAIL e Guardia di Finanza), nei confronti dello stesso soggetto, a meno che le stesse non si organizzino in via preventiva per lo svolgimento di una ispezione congiunta. Tale divieto risponde all’esigenza di evitare duplicazioni e rendere più efficace l’attività ispettiva, in particolar modo nell’ambito delle verifiche sul lavoro sommerso, rispetto alle quali operano diversi organi di controllo.

L’art. 5 del D.Lgs. contiene, inoltre, alcuni principi in base ai quali i controlli sulle imprese devono essere programmati «con intervalli temporali correlati alla gravità del rischio». Tuttavia, per l’Ispettorato valgono molteplici eccezioni: verifiche richieste dall’autorità giudiziaria; denunce e segnalazioni circostanziate da parte di soggetti pubblici o privati; controlli in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro e, comunque, per situazioni di rischio. Ad eccezione di tali casistiche, l’art. 5 prevede che, all’esito del controllo da parte dell’amministrazione procedente ed accertata la conformità agli obblighi e agli adempimenti imposti dalla disciplina di riferimento, le imprese controllate siano esonerate per un periodo di dieci mesi dall’ultima verifica da parte della stessa amministrazione o altre amministrazioni che esercitano le funzioni di controllo. Tale disposizione, tuttavia, si sovrappone con il meccanismo della lista di conformità, introdotta dal D.L. 19/2024, norma speciale e dunque prevalente, che prevede uno stop di 12 mesi ai controlli per le aziende regolari, che si iscrivono nella lista su base volontaria.

Novita’ GIURISPRUDENZIALI

Corte di Cassazione, ordinanza 22 agosto 2024, n. 23029.

No al licenziamento per giusta causa del lavoratore che insulta pesantemente la collega dopo averle fatto i complimenti per essersi fidanzata.

La Cassazione ha riconosciuto l’illegittimità del licenziamento in tronco di un dipendente di un’importante casa automobilistica che, dopo aver rivolto ad una collega gli auguri e i complimenti per essersi fidanzata ha successivamente cambiato tono, prima insultandola e poi minacciandola di fare una brutta fine.

Secondo la Corte il licenziamento del lavoratore per giusta causa deciso dall’azienda non era legittimo in quanto il lavoratore non era passato a vie di fatto. Infatti, nonostante il comportamento del dipendente manifestatosi in un’aggressione verbale nei confronti di una donna sia socialmente riprovevole e pertanto abbia certamente rilievo disciplinare, lo stesso non lede il rapporto di fiducia con il datore di lavoro. Pur se oltraggioso e volgare e rimproverabile a titolo di dolo, le ingiurie del lavoratore nei confronti della collega non rappresentano un reato, essendo stato il reato di ingiuria depenalizzato.

La Cassazione ha così accolto il ricorso del lavoratore, che aveva impugnato la sentenza d’appello che gli negava il reintegro sul posto di lavoro, in quanto il suo comportamento rientrava in un diverbio senza passaggio alle vie di fatto e per il quale pertanto il CCNL di riferimento prevede una sanzione conservativa.

Corte di Cassazione, ordinanza 12 agosto 2024, n. 22712.

Escluso il licenziamento per l’attività sportiva svolta durante il periodo di malattia se non ritarda la guarigione anzi la favorisce.

La Corte d’Appello di Milano, in riforma della sentenza di primo grado del Tribunale della medesima sede, ha accolto la domanda di nullità del licenziamento intimato da Rete Ferroviaria Italia S.p.A. ad un proprio dipendente, avendo ritenuto insussistente una giusta causa di recesso in relazione agli allenamenti sportivi praticati dal lavoratore a seguito di un intervento.

La Corte ha ritenuto decisiva la manifesta insussistenza (in quanto priva dei profili di illiceità) dell’addebito disciplinare contestato, in quanto l’infrazione addebitata atteneva all’adozione di una condotta che aveva protratto il periodo di inidoneità alla mansione assegnata non già ad un comportamento che avesse impedito l’effettiva guarigione.

Per la cassazione di tale sentenza la società proponeva ricorso sulla base di quattro motivi.

Con il secondo di questi la società ha denunciato la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.) ritenendo che la Corte territoriale avesse effettuato una valutazione erronea della condotta tenuta dal lavoratore, considerata dalla datrice di lavoro come di innegabile gravità oltre che incompatibile con la propria condizione di non idoneità alla mansione specifica di addetto al controllo dei varchi di accesso.

La Cassazione specifica che la parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata è tenuta a denunciare che la combinazione e il peso dei dati fattuali (gravità dei fatti addebitati, portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, circostanze in cui sono state commessi, intensità dell’elemento intenzionale, ecc.), così come definito dal giudice del merito, non consente comunque la riconduzione alla nozione legale di giusta causa di licenziamento. Aggiunge inoltre che nel caso di specie, la Corte territoriale ha tenuto conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnando rilievo alla ripresa delle ordinarie mansioni alla scadenza dei 60 giorni di inidoneità stabiliti dal medico competente nonché a tutta la documentazione medica acquisita (dalla quale emergeva una buona evoluzione della convalescenza e la necessità di uno svolgimento di attività fisica ai fini del recupero di un adeguato tono muscolare), concludendo per la insussistenza di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme dell’etica aziendale o del comune vivere civile.

Corte di Cassazione, ordinanza 8 agosto 2024, n. 22455.

Illegittimo il licenziamento del dipendente indotto in errore dal datore di lavoro sul calcolo per il superamento del periodo di comporto.

Se la contrattazione collettiva non contiene una specifica previsione il datore non ha l’obbligo di preavvertire il lavoratore nell’imminenza del superamento del comporto. Ma l’obbligo c’è quando, come nel caso esaminato, il lavoratore viene fuorviato da quanto scritto in busta paga.

La vicenda ha riguardato un dipendente di una società per azioni a cui veniva notificato il licenziamento per superamento del comporto ed il quale, di conseguenza, impugnava giudizialmente l’atto espulsivo. Il Tribunale adito, in veste di giudice del lavoro, respingeva la domanda del lavoratore di dichiarare l’illegittimità del licenziamento, con conseguenti annullamento del provvedimento, reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanna della società al risarcimento dei danni. Avverso tale decisione del Tribunale veniva proposto, dal

dipendente, appello. La Corte territoriale riformando l’impugnata sentenza, dichiarava illegittimo

il licenziamento e lo annullava. Ordinava altresì alla società suddetta di procedere alla immediata

reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro, con adibizione alle stesse mansioni svolte all’atto del licenziamento o ad altre equivalenti, oltre al risarcimento dei danni. La società datrice di lavoro, avverso la sentenza di appello, proponeva ricorso innanzi alla Cassazione, la quale tuttavia lo ha dichiarato inammissibile.

I giudici di legittimità hanno, quindi, precisato che è illegittimo il licenziamento per superamento del comporto irrogato al dipendente indotto in errore dai prospetti presenze, allegati alle buste paga, riportanti un numero di assenze per malattia di molto inferiori rispetto a quelli reali. Infatti pur se il lavoratore può verificare autonomamente il numero effettivo di assenze per malattia (anche accedendo al portale Web dell’INPS), il comportamento del datore di lavoro non può essere considerato conforme a buona fede e correttezza.

Corte di Cassazione, ordinanza 25 luglio 2024, n. 20698.

Sanzione conservativa alla dipendente che fotografa il posto di lavoro e stampa in eccesso.

Con tale ordinanza la Cassazione ha deciso il caso relativo ad una dipendente licenziata per avere effettuato fotografie del posto di lavoro senza tuttavia l’autorizzazione datoriale e per aver stampato un considerevole numero di pagine in spregio al buon utilizzo delle risorse aziendali oltre a non avere fornito successivamente al datore di lavoro alcuna spiegazione in merito. Secondo il datore di lavoro tale condotta integrava un’ipotesi di violazione degli obblighi di cui all’art. 220, 1° e 2° comma, del CCNL Commercio, in quanto con tale comportamento la lavoratrice non aveva adempiuto all’obbligo di osservare nel modo più scrupoloso i doveri di ufficio e di conservare diligentemente i materiali aziendali. Secondo il giudice di secondo grado la condotta tenuta dalla lavoratrice non era, invece, di gravità tale da giustificarne il licenziamento, risultando pertanto una sanzione sproporzionata. Quanto alla tutela applicabile non viene tuttavia riconosciuta la reintegrazione, posto che i fatti contestati non risultano ricompresi nelle fattispecie per le quali la contrattazione collettiva prevede sanzioni conservative.

Secondo la Cassazione, invece, la lavoratrice ha diritto anche alla reintegrazione sul posto che il quadro dei provvedimenti disciplinari stabilito dal CCNL sopracitato fa rientrare il caso del lavoratore che “esegua con negligenza il lavoro affidatogli” tra i comportamenti per cui è prevista solo una sanzione conservativa (multa).

Corte di Cassazione, ordinanza 10 luglio 2024, n. 18904.

Per il rispetto dell’obbligo di repêchage vanno offerte anche posizioni inferiori.

Con la citata ordinanza, la Cassazione afferma il seguente principio di diritto: “Non risulta assolto l’obbligo di repêchage ove all’atto di licenziamento per gmo risultino esistenti nell’organico aziendale mansioni inferiori, anche a termine, ed il datore non abbia effettuato alcuna offerta di demansionamento al lavoratore né comunque allegato e provato in giudizio che il lavoratore non rivesta le competenze professionali richieste per l’espletamento delle stesse mansioni”.

La Cassazione – nel ribaltare la precedente pronuncia di merito – rileva, preliminarmente, che l’onere della prova in materia di repêchage è a carico del datore di lavoro.

Nella sentenza si legge che tale onere è esteso anche alle mansioni inferiori, con la conseguenza che parte datoriale è tenuta a provare che al momento del licenziamento non esista, in assoluto, alcuna altra posizione lavorativa in cui possa essere ricollocato il lavoratore da licenziare.

Invero, secondo i giudici di legittimità, prima di intimare il licenziamento, il datore deve offrire la mansione alternativa anche inferiore al lavoratore, prospettandone il demansionamento. Solo nel caso in cui tale soluzione alternativa non venga accettata dal dipendente, è possibile recedere dal rapporto.

Tanto premesso, la Suprema Corte accoglie il ricorso proposto dalla società e conferma l’illegittimità dell’impugnata sanzione espulsiva.

Tribunale di Varese, sentenza 11 giugno 2024, n. 207.

Sussiste la giusta causa di licenziamento in caso di utilizzo dei social network, da parte del dipendente, durante l’orario di lavoro.

Il caso in esame ha ad oggetto l’impugnazione di un licenziamento per giusta causa intimato al dipendente, il quale trascorreva numerose ore al giorno, durante l’orario di lavoro, a navigare su Internet, a gestire il proprio profilo Facebook, ovvero a conversare tramite Whatsapp per questioni esclusivamente personali. Nel corso del giudizio è stata dimostrata da parte del datore di lavoro sia documentalmente, sia tramite prova testimoniale, la sussistenza dei fatti contestati. Più precisamente, è stato dimostrato che il dipendente, in pochi giorni lavorativi, aveva visionato molteplici pagine social, oltre a chattare con amici ed a navigare su Internet per procedere ad acquisti personali o a curare interessi propri. Il Giudice del Lavoro, in accoglimento delle argomentazioni sollevate nell’interesse della società, ha confermato la giurisprudenza ormai consolidata sia di merito, sia di legittimità che ritiene che l’utilizzo del personal computer aziendale per uso personale mediante sistematiche connessioni a Internet giustifica il recesso da parte del datore di lavoro.

Nel caso di specie è stato confermato che la condotta consistente nell’utilizzo reiterato e volontario di social e chat da parte del dipendente con il pc aziendale durante l’orario lavorativo, per un periodo di tempo decisamente significativo, integra un utilizzo indebito dello strumento di lavoro fornito dall’azienda. Tale comportamento è sufficiente a dimostrare la gravità del fatto ed il venir meno dell’elemento fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro subordinato intercorso fra le parti.

Corte di Cassazione, ordinanza 21 agosto 2024, n. 22985.

La NASpI va restituita in caso di conversione del contratto a termine? Questione alle Sezioni Unite.

Nel caso esaminato, la Cassazione era stata chiamata a pronunciarsi rispetto a una controversia concernente la restituzione dell’indennità di disoccupazione (NASpI) da parte di un lavoratore.

Il dipendente, dopo aver ottenuto la conversione retroattiva di un contratto a termine in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, si era visto richiedere dall’INPS la restituzione delle somme percepite a titolo di indennità di disoccupazione.

Nello specifico, il lavoratore aveva percepito la NASpI alla scadenza di un contratto a termine, per un periodo in cui risultava pertanto non formalmente occupato.

Successivamente, una sentenza del 2014 aveva riconosciuto la natura illegittima del termine apposto al contratto e aveva disposto la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato con efficacia retroattiva, condannando il datore di lavoro al risarcimento.

Pertanto, la questione centrale da chiarire era se il lavoratore dovesse restituire o meno la NASpI ricevuta, considerato che la conversione retroattiva del rapporto di lavoro con il riconoscimento di un risarcimento forfettario, ai sensi della L. 183/2010, avrebbe comportato l’annullamento dello stato di disoccupazione all’origine del diritto all’indennità.

Secondo l’attuale indirizzo giurisprudenziale dominante quando un lavoratore ottiene la conversione del contratto a termine con effetto retroattivo e un risarcimento forfettario, viene meno lo stato di disoccupazione giustificativo della NASpI. Da ciò consegue che l’indennità percepita è considerata un indebito previdenziale e deve essere restituita.

La Sezione Lavoro della Cassazione, riconosciuta, sul punto, l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale latente e considerati i cambiamenti normativi recenti, ha ritenuto che il tema meritasse una revisione generale.

In particolare, ha sollecitato una riflessione sul fatto che lo stato di disoccupazione involontaria, che giustifica l’erogazione della NASpI, potrebbe non venire meno automaticamente con la retroattiva conversione del contratto.

La Sezione Lavoro, in altri termini, ha chiesto che le Sezioni Unite esaminino l’opportunità di stabilire un nuovo indirizzo giurisprudenziale che impedisca la richiesta di restituzione della NASpI nei casi in cui i lavoratori, sebbene abbiano ottenuto la conversione del contratto, abbiano effettivamente vissuto un periodo di disoccupazione involontaria.

La Corte di Cassazione, in definitiva, ha deciso di rimettere la questione alle Sezioni Unite, non solo per risolvere il contrasto giurisprudenziale, ma anche per valutare la possibilità di stabilire un nuovo orientamento che tenga conto delle implicazioni socio-economiche legate alla disoccupazione involontaria e alla tutela previdenziale dei lavoratori.

Corte di Cassazione, ordinanza 31 luglio 2024, n. 21440.

Questa recente ordinanza la Corte Suprema stabilisce che il tempo dedicato al pasto non rientra nell’orario di lavoro, ma conferma il diritto ai buoni pasto per turni oltre le sei ore.

La Cassazione afferma che la consumazione del pasto è collegata alla pausa di lavoro ed avviene nel corso della stessa e, laddove la contrattazione collettiva lo preveda, il diritto alla mensa (o, in alternativa, ai buoni pasto) sorge ogniqualvolta la prestazione ecceda le sei ore.

La Cassazione – nel confermare la pronuncia di merito – rileva che il diritto alla fruizione del buono pasto non ha natura retributiva, ma costituisce una erogazione di carattere assistenziale, collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale, avente il fine di conciliare le esigenze di servizio con le esigenze quotidiane del lavoratore.

Ciò premesso, per la Cassazione, non può essere accolta la tesi difensiva della società datrice, secondo cui il diritto alla mensa sorgerebbe solo in caso di attività lavorativa prestata nelle fasce orarie normalmente destinate alla consumazione del pasto.

Invero, secondo i Giudici di legittimità, la fruizione del pasto — ed il connesso diritto alla mensa o al buono pasto— è prevista nell’ambito di un intervallo non lavorato.

Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso proposto dalla società e conferma la debenza dei richiesti buoni pasto.

Corte di Cassazione, ordinanza 26 luglio 2024, n. 20938.

Il valore dell’auto aziendale va calcolato ai fini del TFR.

Il valore dell’auto aziendale concessa al dipendente deve effettivamente rientrare nella base di calcolo del TFR e dell’indennità di preavviso, tuttavia deve trattarsi di beneficio riconosciuto contrattualmente dal datore al prestatore di lavoro come beneficio in natura e pattiziamente inserito nella struttura sinallagmatica del contratto di lavoro.

Il valore dell’uso e della disponibilità, anche a fini personali, di un’autovettura concessa contrattualmente dal datore di lavoro al lavoratore come beneficio in natura rappresenta il contenuto di un’obbligazione che, anche ove non ricollegabile ad una specifica prestazione, è suscettibile di essere considerata di natura retributiva, con tutte le relative conseguenze, se pattiziamente inserita all’interno del contratto di lavoro cui essa accede, e, pertanto, il controvalore in denaro deve essere computato nella base di calcolo dell’indennità di fine rapporto.