NEWSLETTER PRIVACY MAGGIO 2025

1 maggio 2025
 
Privacy e rettifica dati sull’identità di genere: no alla prova dell’operazione chirurgica
La Corte Ue di Giustizia Ue ha innanzitutto ricordato l’importanza del “principio di esattezza” previsto dall’art. 5, par. 1, lett. d) del GDPR, secondo cui l’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento, senza ingiustificato ritardo, la rettifica dei dati personali che lo riguardano se questi sono inesatti. In questo modo il Regolamento Privacy concretizza il diritto fondamentale, sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, secondo il quale ogni persona ha il diritto di accedere ai dati raccolti che la riguardano e di ottenerne la rettifica. A tal riguardo, la Corte Ue ricorda che secondo la giurisprudenza il carattere esatto e completo dei dati personali deve essere valutato alla luce della finalità per la quale essi sono stati raccolti.  Riguardo al caso di specie, la Corte ribadisce che l’informazione relativa all’identità di genere può essere qualificata come «dato personale», in quanto si riferisce a una persona fisica identificata o identificabile e oggetto di un «trattamento», perché è stato raccolto e registrato dall’autorità competente. Di conseguenza, il trattamento, che verte su dati contenuti o destinati a figurare in un archivio, rientra nell’ambito di applicazione ratione materiae del GDPR. Pertanto, la Corte Ue ribadisce che spetta al giudice ungherese verificare l’esattezza del dato alla luce della finalità per la quale esso è stato raccolto. Se la raccolta di tale dato aveva lo scopo di identificare la persona interessata, sembrerebbe riguardare l’identità di genere vissuta da tale persona, e non quella che le sarebbe stata assegnata alla nascita.    La rettifica dei dati relativi all’identità di genere non può essere subordinata alla prova di un trattamento chirurgico di riassegnazione del sesso. Lo ha sancito la Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza del 13 marzo 2025 (C-247/23): tale pronuncia rappresenta un importante precedente sulla tematica della transidentità, in quanto i giudici di Lussemburgo riconoscono il diritto alla rettifica dei dati personali, affermando che uno Stato membro non possa invocare l’assenza, nel proprio diritto nazionale, di una procedura di riconoscimento giuridico della transidentità per ostacolare l’esercizio di tale diritto.   In definitiva, quindi, e più precisamente, per la rettifica dei dati personali relativi all’identità di genere di una persona fisica, contenuti in un registro pubblico, se da un lato uno Stato membro può imporre alla persona di fornire gli elementi di prova pertinenti e sufficienti che si possono ragionevolmente richiedere per dimostrare l’inesattezza di questi dati, dall’altro lato però, esso non può in alcun caso subordinare, mediante una prassi amministrativa, l’esercizio del “diritto alla rettifica” alla produzione di prove di un trattamento chirurgico di riassegnazione sessuale.
          La Corte di Giustizia precisa che uno Stato membro non può invocare l’assenza, nel proprio diritto nazionale, di una procedura di riconoscimento giuridico della transidentità per ostacolare l’esercizio del diritto di rettifica. In particolare, la Corte Ue ricorda che sebbene il diritto dell’Unione non pregiudichi la competenza degli Stati membri in materia di stato civile delle persone e di riconoscimento giuridico della loro identità di genere, tuttavia devono rispettare il diritto dell’Unione compreso il GDPR, letto alla luce della Carta. Di conseguenza, la Corte europea conclude che il GDPR deve essere interpretato nel senso che esso impone a un’autorità nazionale incaricata della tenuta di un registro pubblico di rettificare i dati personali relativi all’identità di genere di una persona fisica qualora tali dati non siano esatti, ai sensi di tale regolamento. Diritto di rettifica dei dati ai fini della “riassegnazione del sesso” La Corte Ue constata che, ai fini dell’esercizio del suo diritto di rettifica, tale persona può essere tenuta a fornire gli elementi di prova pertinenti e sufficienti che possono ragionevolmente essere richiesti per dimostrare l’inesattezza di detti dati Tuttavia, l’art. 16 del GDPR non precisa quali siano gli elementi di prova che possono essere richiesti. Tali obblighi possono essere limitati dal diritto dell’Unione o degli Stati membri purché sia rispettata l’essenza dei diritti e delle libertà fondamentali e costituisca una misura necessaria e proporzionata in una società democratica per garantire taluni obiettivi di interesse pubblico generale, in particolare l’affidabilità e la coerenza dei registri pubblici. Nel caso di specie, risulta che l’Ungheria ha adottato una prassi amministrativa che subordina l’esercizio del diritto di rettifica alla presentazione di prove di un trattamento chirurgico di riassegnazione sessuale. Una tale prassi comporta, secondo la Corte Ue, una limitazione del diritto di rettifica e lede l’essenza del diritto all’integrità della persona e del diritto al rispetto della vita privata, tutelati dalla Carta. Inoltre, un siffatto requisito non è, in ogni caso, necessario né proporzionato al fine di garantire l’affidabilità e la coerenza di un registro pubblico, quale il registro dell’asilo, in quanto un certificato medico può costituire un elemento di prova pertinente e sufficiente.        
         AI: le ultime decisioni delle corti comparate sulla produzione di immagini
 Nel Regno Unito la Chancery Division della England and Wales High Court ha deciso una controversia di rilevanza internazionale in materia di intelligenza artificiale generativa relativa all’utilizzo senza consenso di 12 milioni di immagini, video e illustrazioni di proprietà di Getty Images da parte di Stability AI. L’utilizzo di tali immagini serviva per addestrare “Stable Diffusion”, cioè un modello GenAI “text-toimage”. La Getty Images lamenta la violazione del copyright sia per ciò che concerne l’utilizzo illecito in via generale sia per la riproduzione di parti sostanziali delle opere originali. Stability AI ha ammesso parzialmente l’utilizzo di tali immagini, ma senza specificare quali. La decisione del 14 gennaio 2025 ha natura procedimentale, ma fissa alcuni principi che potrebbero diventare rilevanti in particolare nell’ambito dell’udienza di Case Management (svoltasi in novembre) ove è stata rigettata l’istanza di altri titolari di copyright di venire rappresentati nella causa come se fosse una azione di classe. Siffatta istanza non è stata ritenuta ammissibile perché non erano stati assicurati i requisiti richiesti dalla legge. La Corte ha quindi invitato le parti non ammesse a ripresentare l’azione con prove più solide o una classe più circoscritta. Si osserva che analoga causa intercorrente tra le medesime         biometrico erano ancora concetti appartenenti alla fantascienza. In vent’anni il panorama tecnologico si è grandemente sviluppato, mentre i servizi di archiviazione fotografica non sono più attrattivi per il mercato né remunerativi per gli investitori. Pertanto, Photobucket si trova ad avere un archivio oltre 13 miliardi di immagini, che si propone di vendere ad aziende che sviluppano IA, senza però che gli utenti abbiano espresso esplicitamente il loro consenso. Ciò ha portato alla presentazione di una class action federale i cui primi aderenti sono una madre il cui figlio all’epoca minorenne, appariva nelle foto e un fotografo professionista. La causa intende rappresentare la quota più ampia possibile dei 100 milioni di iscritti che hanno affidato a Photobucket le proprie immagini e che negli ultimi anni hanno trascurato i loro account. Il cuore dell’azione giudiziaria concerne il tentativo di monetizzare l’archivio di foto a terzi per lo sviluppo di GenAI biometrica. In questo contesto verrebbe pure discussa la policy aziendale di inviare email in cui gli utenti venivano invitati a cancellare ovvero mantenere l’account attraverso l’indirizzamento ad una pagina che li obbligava ad accetare nuovi termini d’uso, comprensivo quello biometrico delle immagini. Inoltre, l’azienda avrebbe considerato automaticamente consenzienti gli utenti rimasti silenti nei 45 giorni concessi da Photobucket per effettuare siffatta scelta.      parti e avente il medesimo oggetto è pendente di fronte alla United States District Court of Delaware. Negli Stati Uniti, la United States District Court, Central District of California ha parzialmente accolto le richieste di Tesla e Warner Bros. Discovery, in una controversia avente ad oggetto l’uso abusivo di marchi e la violazione del copyright in merito all’uso non autorizzato di immagini del film Blade Runner 2049 per promuovere il cybercab autonomo di Tesla. Sotto il primo profilo, la Corte federale ha rigettato la domanda respingendo le accuse mosse dalla Alcon Entertainment affermando che considerati i differenti ambiti delle rispettive attività (intrattenimento cinematografico e automotive innovativo) non vi potesse essere confusione, mentre ha accolto l’istanza sulla violazione del copyright in relazione all’uso non autorizzato per la generazione con AI di immagini per la promozione del nuovo prodotto Tesla. Il giudice ha poi ordinato il rinvio della causa a una fase di mediazione. Sempre negli Stati Uniti, di fronte alla United States District Court, District of Colorado è pendente di una causa in relazione all’utilizzo dell’archivio fotografico di Photobucket, creato nel 2003 come servizio online per utenti di MySpace, in un’epoca in cui il trattamento massivo dei dati a scopo di machine learning e il riconoscimento facciale  Questa rassegna mensile di diritto della tecnologia è focalizzata sulle controversie concluse ovvero in corso inerenti gli strumenti di AI Generativa applicati alla creazione di immagini, sia per quel che concerne la violazione del diritto d’autore sia per ciò che riguarda del consenso all’uso dei dati inerenti l’immagine stessa.                              
    PRIVACY: L’OBBLIGO DI FORNIRE RISPOSTA A FRONTE DI UN’ISTANZA DI ACCESSO AGLI ATTI  
In materia di trattamento dei dati personali, il soggetto onerato dell’obbligo di fornire risposta in ordine al possesso (o meno) dei dati sensibili è il destinatario dell’istanza di accesso e non l’istante, dovendo il primo sempre riscontrare l’istanza dell’interessato, anche in termini negativi, dichiarando espressamente di essere, o meno, in possesso dei dati di cui si richiede l’ostensione. In questo modo si espresso il Tribunale di Spoleto con la sentenza n. 112 del 5 marzo 2025.        

NEWSLETTER 5/2025

Novita’ normative

Con la nota del 10 aprile 2025, il Ministero del Lavoro interviene sulla nuova procedura di dimissioni per fatti concludenti come prevista dal Collegato lavoro e già oggetto di interpretazione con la circolare n. 6/2025.

Un termine eccessivamente breve, sostiene il Ministero, potrebbe compromettere le garanzie minime di difesa del lavoratore, ritrovandosi nell’impossibilità di comunicare in modo tempestivo le ragioni dell’assenza. Una lettura che lo stesso Ministero definisce prudenziale, con lo scopo di assicurare un bilanciamento tra esigenze aziendali e diritti del lavoratore.

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, rispondendo ad una richiesta di chiarimenti da parte del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, datata 2 aprile 2024, fornisce alcune precisazioni in merito alle indicazioni contenute nella circolare ministeriale n. 6/2025 e relative alla procedura di dimissioni per fatti concludenti.

In particolare, per il Ministero del Lavoro:

•        il limite legale dei quindici giorni di assenza ingiustificata, decorso il quale scatta la risoluzione di fatto del rapporto di lavoro, “opera in via residuale, in assenza di previsione contrattuale. Tuttavia, l’espressione utilizzata dal legislatore (art. 19, L. n. 203/2024) per la quale il termine deve ritenersi in mancanza di previsione contrattuale, superiore a quindici giorni, ha fatto propendere per la considerazione, di prudenza, della non agibilità della previsione di termini inferiori da parte della contrattazione collettiva”. Nonostante l’art. 19 non preveda espressamente l’inderogabilità del termine dei quindici giorni, la norma non consente “interpretazioni peggiorative della posizione del lavoratore”;

•        se, “superato il termine per l’assenza ingiustificata e comunicata la circostanza all’Ispettorato territorialmente competente, quest’ultimo verifichi l’insussistenza dei presupposti richiesti dal nuovo comma 7-bis dell’art. 26 D.Lgs. n. 151/2015, il rapporto di lavoro dovrà pur sempre essere ricostituito per iniziativa del datore di lavoro”. Se però quest’ultimo non ritiene valide le ragioni del lavoratore, il rapporto di lavoro non potrà ricostituirsi in automatico;

•        se il lavoratore, dopo l’avvio della procedura di cui al nuovo comma 7-bis, “ma prima che la stessa abbia prodotto il suo effetto dismissivo, comunichi le proprie dimissioni, queste ultime produrranno gli effetti previsti dalla legge dal momento del loro perfezionamento”;

  • se il lavoratore, dopo l’avvio della procedura di cui al nuovo comma 7-bis, “ma prima che la stessa abbia prodotto il suo effetto dismissivo, qualifichi le proprie dimissioni come dovute a giusta causa, queste ultime produrranno gli effetti previsti dalla legge dal momento del loro perfezionamento”, ma la verifica della sussistenza delle ragioni che hanno portato al recesso per presunta giusta causa del lavoratore potrà essere oggetto in un successivo contraddittorio tra le parti, anche in sede giudiziale.

I premi di risultato ad personam vanno tassati ordinariamente.

Agenzia delle Entrate, risposta ad interpello n. 77 del 20 marzo 2025

Con risposta ad interpello n. 77/2025 l’Agenzia delle Entrate ha fornito chiarimenti in materia di welfare aziendale e di tassazione applicabile ai premi di risultato. La Società interpellante chiede se la quota di retribuzione variabile (c.d. MBO) correlata e quantificata in base al raggiungimento di obiettivi aziendali e/o collettivi, convertita dal dipendente in prestazioni di welfare, possa essere esclusa da imposizione.

Si precisa, innanzitutto, che i benefit, corrisposti ai dipendenti come parte di un sistema incentivante legato al raggiungimento di determinate performance, non danno diritto alle agevolazioni fiscali ex articolo 51 del TUIR, in quanto non sono destinati a una “generalità” o a “categorie” di dipendenti. In secondo luogo le disposizioni derogatorie del principio di onnicomprensività, avendo carattere agevolativo, non sono estensibili a fattispecie diverse da quelle previste normativamente, tra le quali non è compresa l’ipotesi di applicazione in sostituzione di retribuzioni, altrimenti imponibili, in base ad una scelta dei soggetti interessati. Di conseguenza, in quanto non sono soddisfatti i requisiti per l’esclusione da imposizione, nel caso esaminato va applicata la tassazione ordinaria e la quota di retribuzione variabile (c.d. MBO) concorre a formare il reddito di lavoro dipendente.

Assunzione donne (“Bonus donne”) – Esonero contributivo.

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha emanato il Decreto Interministeriale, con i criteri e le modalità attuative dell’esonero introdotte dell’art. 23 del D.L. 7 maggio 2024, n. 60, convertito, con modificazioni, dalla Legge 4 luglio 2024, n. 95 (Bonus Donne).

Ai datori di lavoro privati che assumono donne, con i requisiti previsti dalla legge e con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, è riconosciuto un esonero contributivo, nel limite massimo mensile di 650 euro per ciascuna lavoratrice.

La data di decorrenza delle assunzioni agevolate e la loro durata è differenziata a seconda dei seguenti parametri:

•        dal 31 gennaio 2025 e fino al 31 dicembre 2025 per le assunzioni di donne prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi, residenti nelle regioni dell’area ZES (Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Sicilia, Puglia, Calabria e Sardegna) > esonero contributivo pari al 100% dei complessivi contributi previdenziali a carico del datore di lavoro, per 24 mesi, nel limite massimo di importo pari a 650 euro su base mensile per ciascuna lavoratrice e comunque nei limiti della spesa;

•        dal 1° settembre 2024 e fino al 31 dicembre 2025 per le assunzioni di donne prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 24 mesi, ovunque residenti > esonero contributivo pari al 100% dei complessivi contributi previdenziali a carico del datore di lavoro, per 24 mesi, nel limite massimo di importo pari a 650 euro su base mensile per ciascuna lavoratrice e comunque nei limiti della spesa;

  • dal 1° settembre 2024 e fino al 31 dicembre 2025 per le assunzioni di donne occupate nelle professioni o settori di cui all’art. 2, punto 4), lettera f), del Regolamento (UE) 2014/651, annualmente individuate con decreto del Ministro del lavoro > esonero contributivo pari al 100% dei complessivi contributi previdenziali a carico del datore di lavoro, per 12 mesi, nel limite massimo di importo pari a 650 euro su base mensile per ciascuna lavoratrice e comunque nei limiti della spesa.

L’Accordo Stato – Regioni siglato il 17 aprile 2025 ha introdotto percorsi formativi obbligatori sulla sicurezza sul lavoro destinati a datori, dirigenti, RSPP e ASPP, con un’attenzione particolare per le molestie e le violenze nei luoghi di lavoro.

La formazione include la Convenzione 190 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, adottata nel 2019 e recepita in Italia nel 2021.

INAIL, circolare n. 26 del 7 aprile 2025.

Termine di prescrizione dei premi INAIL a seguito di accertamento ispettivo.

Nella circolare n. 26/2025 l’Inail riassume a disciplina in materia di prescrizione dei crediti per premi e accessori, secondo gli orientamenti giurisprudenziali consolidati, chiarendo che l’azione per riscuotere i premi di assicurazione, e in genere le somme dovute dai datori di lavoro all’Istituto assicuratore, si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui se ne doveva eseguire il pagamento.

Sono inoltre richiamate le vigenti istruzioni operative sull’attività di vigilanza, anche alla luce delle novità del decreto-legge n. 19/2024, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 56/2024, per garantire uniformità di comportamento nello svolgimento degli accertamenti ispettivi.

Provvedimento INAIL, 21 marzo 2025.

Sindrome da stress per incidente stradale: è infortunio sul lavoro.

Vale la pena segnalare un caso di tutela di diritti ottenuta non in giudizio, ma per effetto di una

buona interlocuzione tra Patronato e Inail. L’Inca Cgil di Milano ha assistito un autista di una compagnia di bus che era stato coinvolto in un grave incidente stradale: mentre rientrava al deposito dopo una corsa, il motore del bus prendeva fuoco e l’autista rischiava di rimanere intrappolato nel mezzo, riuscendo a salvarsi solo grazie all’intervento di alcuni soccorritori.

Il lavoratore, pur fisicamente illeso, dopo alcuni giorni avvertiva un forte senso di ansia e inquietudine che sfociava poi in attacchi di panico e sintomi tali da richiedere cure sanitare e un significativo periodo di malattia. Assistito dal Patronato, il fatto veniva segnalato come infortunio sul lavoro, chiedendo la conversione del periodo da malattia in infortunio.

L’Istituto a seguito di analisi della documentazione medica ha riconosciuto l’infortunio, concedendo l’indennità per inabilità temporanea e rinviando a un momento successivo la valutazione della menomazione dell’integrità psico-fisica. Il caso è significativo perché il disturbo da stress post-traumatico, in genere associato al coinvolgimento in catastrofi naturali o conflitti, viene qui associato e riconosciuto per un episodio lavorativo.

Novita’ GIURISPRUDENZIALI

Corte di Cassazione sentenza n. 9526/2025.

È una forma legittima di autotutela collettiva la decisione dei dipendenti di svolgere la prestazione in accordo con l’orario previsto dal Ccnl e disattendo i turni a scorrimento del datore che non intende corrispondere l’indennità economica.

Per i giudici, nel concetto di libertà sindacale, ribadito tanto dalla Costituzione quanto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, rientrano le iniziative dei lavoratori senza l’intermediazione di un sindacato: meritano tutela, al pari del diritto di sciopero, le proteste svolte in forma collettiva, senza sospendere la prestazione.

Corte di Cassazione ordinanza n. 10648/2025.

La reperibilità sul luogo di lavoro rientra a pieno titolo nell’orario di lavoro e determina una compressione della libertà personale.

Il tempo trascorso nella sede lavorativa per la reperibilità notturna impone la corresponsione di una compensazione economico proporzionata per aver garantito la propria presenza e disponibilità per eventuali esigenze improcrastinabili, anche se non si concretizzano in interventi realmente effettuati.

Tribunale di Milano, 3 aprile 2025,

Discriminatoria l’”indennità di presenza” prevista dal CCNL Agenzie di Sicurezza sottoscritto da UGL.

Il Tribunale accoglie il ricorso proposto dall’organizzazione sindacale e condanna per condotta discriminatoria la società, attiva nel settore della guardiania e vigilanza, che applicava il contratto collettivo UGL-AISS. In particolare, il Giudice ha accertato e dichiarato il carattere discriminatorio della mancata maturazione e corresponsione dell’indennità di presenza (prevista dall’art. 73 del CCNL) nei casi di assenza per permessi previsti dalla Legge n. 104/1992, per congedi parentali e per i lavoratori inquadrati al livello 6I per i primi 12 mesi di assunzione. La sentenza sottolinea come la mancata erogazione dell’indennità in tali circostanze crei una disparità di trattamento non giustificata e una discriminazione multifattoriale (per età, genere e disabilità) e, pertanto, dichiara nulla la clausola del CCNL, ordinando alla società di riconoscere l’indennità anche nei casi sopra citati e di adottare un piano per rimuovere gli effetti delle condotte discriminatorie.

Corte di Cassazione, ordinanza 8 aprile 2025, n. 9258.

Nullità del patto di non concorrenza per vizi del corrispettivo.

Una banca aveva chiesto la condanna di un ex dipendente al pagamento della penale per violazione del patto di non concorrenza, lamentando lo sviamento di clienti verso un’altra società concorrente. I giudici di merito avevano ritenuto nullo il patto per indeterminatezza del corrispettivo, in quanto collegato alla durata del rapporto di lavoro e senza un importo minimo garantito. La Cassazione cassa con rinvio, chiarendo che: (i) il patto è valido se il corrispettivo è a norma dell’art. 1346 c.c., determinato o determinabile secondo parametri oggettivi, anche se variabile in relazione alla durata del rapporto; (ii) la sola variabilità non implica indeterminatezza, specie se — come nel caso di specie — il datore contesta che la cessazione anticipata incida sull’importo dovuto; (iii) la nullità per incongruità o sproporzione del compenso opera, ex art. 2125 c. c., su un piano distinto da quella per indeterminatezza: i due vizi non possono essere confusi o sovrapposti. La Corte rileva che i giudici d’appello hanno erroneamente sovrapposto i due profili, generando un vizio motivazionale che impedisce il controllo sulla correttezza logico-giuridica della decisione.

Tribunale di Parma, 26 febbraio 2025.

Prendere sul serio il patto di non concorrenza: un caso di conferma delle violazioni da parte di un promotore finanziario.

Il Tribunale rigetta la domanda proposta da un “private banker” volta ad accertare la nullità del patto di non concorrenza sottoscritto con il precedente datore di lavoro e lo condanna a cessare le attività in concorrenza e al pagamento della penale pattuita. In motivazione vengono esaminati alcuni dei tanti profili di possibile illegittimità di un p.n.c., tra cui quello del compenso ritenuto determinabile anche se erogato mensilmente nel corso del rapporto, laddove sia previsto un minimo garantito. Secondo il giudice, inoltre, la clausola che attribuisce alla banca il potere di recesso unilaterale può essere considerata legittima laddove questo potere possa essere esercitato solo in costanza di rapporto e con un congruo preavviso.

Corte di cassazione, ordinanza 3 aprile 2025 n. 8849.

Mai retroattivo il patto di prova.

La Corte d’appello aveva respinto le domande di impugnazione di un licenziamento, accertando che il rapporto di lavoro si era risolto, per dimissioni o per recesso datoriale, ma comunque in pendenza di un patto di prova e pertanto in regime di libera recedibilità reciproca. La cassazione censura al riguardo la decisione dei giudici di merito per non avere dato rilievo al fatto, dedotto in giudizio dal lavoratore, che il patto di prova prodotto in giudizio dalla società era privo della sottoscrizione di quest’ultima e quindi nullo ab origine. E seppure il fatto di averlo la società prodotto in giudizio sottoscritto dal dipendente possa ritenersi equipollente della sottoscrizione mancata, il relativo perfezionamento si produce solo da quel momento e non retroagisce all’inizio del rapporto. La conseguenza è che il recesso, dimissioni o licenziamento che sia, è da ritenersi avvenuto in regime vincolato.

Corte di Cassazione, ordinanza 8 aprile 2025, n. 9286.

Conciliazione sindacale solo nella sede sindacale.

Si consolida l’orientamento inaugurato da Cass. n. 10065/2024 (in questa N.L. n. 10/2024), secondo cui è impugnabile ex art. 2113 c. c. la conciliazione su diritti indisponibili del dipendente, da questi stipulata con l’assistenza di un sindacalista, ma nella sede aziendale e non in quella sindacale. Analoga vicenda riguarda il presente giudizio, nel quale è altresì conseguentemente impugnato il licenziamento oggetto della conciliazione. In proposito, la Corte ribadisce che la inoppugnabilità delle conciliazioni in questione fonda non solo sull’assistenza del lavoratore da parte di un rappresentante sindacale ma anche sul luogo in cui essa avviene, essendo ambedue tali circostanze necessarie al fine di garantire la libera determinazione del lavoratore e l’assenza di condizionamenti.

Corte di Cassazione, ordinanza 27 marzo 2025, n. 8152.

A carico del datore la pulizia delle divise degli addetti alla nettezza urbana.

Il ricorso avverso la sentenza della Corte d’appello che, ritenendo generici i dati forniti per accertare l’ammontare del danno, aveva negato ad alcuni dipendenti operai addetti al servizio di nettezza urbana ed extraurbana il risarcimento dei danni subiti per aver dovuto provvedere personalmente e a proprie spese alla pulizia costante della divisa di lavoro, costituisce per la Corte l’occasione per ricordare la propria giurisprudenza consolidata in materia di sicurezza e igiene dei luoghi di lavoro. In proposito, la Corte ha riaffermato che la nozione di dispositivi di sicurezza individuale (oggetto di un obbligo del datore di lavoro di continua fornitura e manutenzione) ricomprende anche gli “indumenti di lavoro specifici”, ossia le divise o gli abiti aventi la funzione di tutelare l’integrità fisica del lavoratore, nonché quegli altri indumenti, essenziali in relazione a specifiche e peculiari funzioni, volti ad eliminare o quanto meno a ridurre i rischi ad esse connessi, o anche solo a migliorare le condizioni igieniche in cui viene a trovarsi il lavoratore nello svolgimento delle sue incombenze. Ne consegue che ove la pulizia di tali indumenti sia stata lasciata alla cura dei dipendenti, ad essi devono essere rimborsare le spese relative (provabili anche per testimoni) e deve essere risarcito il danno (non irrazionalmente stabilito in un’ora di retribuzione a settimana).

Corte di Cassazione, ordinanza 24 marzo 2025, n. 7826.

Inadempimento del dipendente e tolleranza del datore.

Nel giudizio di impugnazione del licenziamento comunicato a un dipendente per avere fumato in una zona dell’azienda in cui era vietato, la Corte d’appello aveva accolto le domande, ritenendo che la precedente tolleranza della società all’abitudine dei dipendenti di fumare in quel luogo togliesse il carattere di illiceità al fatto. La decisione è cassata con rinvio dai giudici di legittimità, i quali, accogliendo il ricorso del datore di lavoro, osservano che: (i) nel caso in cui siano accertati gli elementi oggettivi e soggettivi dell’inadempimento del dipendente (nel caso in esame: l’avere fumato in luogo di divieto, consapevole di questo), la mera tolleranza della società datrice in ordine a fatti simili nel passato non è di per sé idonea a escludere l’antigiuridicità della condotta; (ii) occorrono, infatti, elementi ulteriori estranei alla condotta del trasgressore, capaci di ingenerare in lui l’incolpevole convinzione della liceità della condotta. Può anche trattarsi, per escludere la colpa, del comportamento reiterato del soggetto addetto al controllo dell’osservanza del divieto, ma sempre che si accerti che l’affidamento che esso ingenera escluda ogni incertezza sulla legittimità della condotta, accertamento che nel caso in esame è mancato.

Tribunale di Milano, 12 dicembre 2024

Sospetti di furto generici e su tutti i dipendenti: illecito il controllo a distanza e il licenziamento disciplinare, lavoratore reintegrato.

Il Tribunale accoglie il ricorso presentato da un lavoratore e lo reintegra sul posto di lavoro dopo aver dichiarato illegittimo il licenziamento disciplinare basato su filmati di furti di beni aziendali nel punto vendita. Secondo il Giudice, i controlli tramite impianti di videosorveglianza che hanno condotto al licenziamento non possono essere ritenuti controlli difensivi, in quanto basati su generici sospetti su tutti i lavoratori addetti al punto vendita interessato dai furti. Pertanto, l’installazione di impianti di videoregistrazione da parte di un investigatore privato assoldato dalla società contrasta con l’art. 4, l. 300/1970 e tale attività di controllo non può fondare il licenziamento.

NEWSLETTER PRIVACY

APRILE 2025

Via libera al Senato al disegno di legge su AI.

È stato approvato in Senato il Ddl. 1146, recante “Disposizioni e delega al Governo in materia di intelligenza artificiale” che, insieme al Regolamento Ue 2024/1689, compone il quadro normativo in tema di AI applicabile in Italia. Il testo passa ora all’esame della Camera.

Il Ddl., in particolare, è destinato a disciplinare gli spazi normativi rimessi dal Regolamento all’autonomia degli Stati membri, con l’obiettivo di promuovere un utilizzo “corretto, trasparente e responsabile, in una dimensione antropocentrica” dell’AI e garantire la vigilanza sui rischi economici e sociali e sull’impatto sui diritti fondamentali dell’intelligenza artificiale (art. 1 comma 1).

Il disegno di legge è composto da 6 Capi, dedicati a norme di principio (artt. da 1 a 6), a disposizioni relative a settori strategici (sanità, lavoro, giustizia, professioni intellettuali, disabilità, Pubblica Amministrazione; artt. da 7 a 16), a governance, autorità nazionali e azioni di promozione (artt. da 17 a 22), a disposizioni a tutela degli utenti e in materia di diritto d’autore (artt. 23 e 24), a sanzioni penali (art. 25) e disposizioni finanziarie (art. 26).

Tra gli aspetti che interesseranno i professionisti va segnalato l’art. 12 che, nel testo approvato, stabilisce che l’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale nelle professioni intellettuali “è finalizzato al solo esercizio delle attività strumentali e di supporto all’attività professionale e con prevalenza del lavoro intellettuale oggetto della prestazione d’opera”.

La Relazione al Ddl spiega che la disposizione è finalizzata ad assicurare che, nelle professioni intellettuali, il pensiero critico dell’uomo sia prevalente rispetto all’AI, di modo che il ricorso a quest’ultima non snaturi la funzione della professione intellettuale (mettere a disposizione le proprie competenze specifiche) e non mini la relazione tra cliente e professionista.

Per assicurare il rapporto fiduciario tra le parti, il comma 2 della disposizione stabilisce, inoltre, che “le informazioni relative ai sistemi di intelligenza artificiale utilizzati dal professionista sono comunicate al soggetto destinatario della prestazione intellettuale con linguaggio chiaro, semplice ed esaustivo”. Per dimostrare l’avvenuta comunicazione, potrebbe essere necessario, quindi, predisporre un’informativa da far firmare al cliente.

L’uso consapevole di sistemi AI da parte dei professionisti dovrebbe essere favorito anche da percorsi di alfabetizzazione e formazione al loro utilizzo. In questa prospettiva, l’art. 22 del testo delega il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per l’adeguamento della normativa nazionale al Regolamento Ue 2024/1689, che attribuiranno agli ordini professionali il compito di organizzare percorsi di alfabetizzazione e formazione per i professionisti all’uso dei sistemi di intelligenza artificiale. La medesima disposizione prevede la possibilità di una modulazione dell’equo compenso sulla base dei rischi e delle responsabilità connessi all’uso dell’intelligenza artificiale da parte del professionista.

L’art. 14, poi, definisce i limiti per l’impiego dei sistemi di intelligenza artificiale in un ambito qualificato dal Regolamento Ue come “ad alto rischio”, quello dell’attività giudiziaria. La norma dispone che, in caso di utilizzo dell’AI, debbano in ogni caso essere riservate al magistrato le decisioni sull’interpretazione e l’applicazione della legge, sulla valutazione dei fatti e delle prove e sull’adozione dei provvedimenti.

È, invece, consentito l’utilizzo dell’intelligenza artificiale per l’organizzazione dei servizi relativi alla giustizia, per la semplificazione del lavoro giudiziario e per le attività amministrative accessorie, la cui disciplina è demandata al Ministro della giustizia.

Intervento anche sulla disciplina sugli “impatriati” L’art. 20 è volto a integrare la disciplina fiscale di favore per i lavoratori rimpatriati, prevedendo che il requisito dell’elevata qualificazione possa ritenersi soddisfatto anche quando il lavoratore ha svolto “un’attività di ricerca anche applicata nell’ambito delle tecnologie di intelligenza artificiale”. Come precisa la Relazione tecnica al Ddl, l’intervento non comporta oneri aggiuntivi per la finanza pubblica, in quanto volto a specificare la possibilità di accesso al regime agevolato per soggetti “sicuramente in possesso dei requisiti di elevata qualificazione o specializzazione”; si tratta di una modifica intenzionata ad agevolare la mobilità di tali soggetti avrebbe potuto più utilmente prevedere che gli stessi siano esonerati dal requisito della residenza estera “rafforzata”.

Telemarketing: Garante privacy, stop ai consensi “omnibus”.

Sanzionata per 300mila euro società fornitrice di energia elettrica e gas.

Il consenso alla cessione dei dati personali a terzi per finalità di marketing può considerarsi realmente libero soltanto se all’interessato sono garantiti una scelta effettiva e il controllo sui propri dati. L’utilizzo di formule generiche che non permettano di selezionare la singola categoria merceologica delle offerte commerciali desiderate (p.e. telefonia, forniture energetiche, servizi assicurativi, moda, auto ecc.), non è quindi in linea con la normativa privacy e non può far venir meno gli effetti della opposizione manifestata con l’iscrizione al Registro Pubblico delle Opposizioni. Lo stesso principio vale per form e informative che ostacolino l’esercizio dei diritti riconosciuti all’interessato in ordine alla scelta degli strumenti attraverso cui ricevere le comunicazioni promozionali.

È quanto affermato dal Garante privacy nel sanzionare Energia Pulita S.r.l., società fornitrice di energia elettrica e gas, per aver trattato in modo illecito i dati di un centinaio di persone che si erano rivolte all’Autorità lamentando la ricezione di chiamate indesiderate effettuate in mancanza di un’idonea base giuridica e, in molti casi, utilizzando tecniche commerciali particolarmente insidiose.

Il ricorso a simili form per l’acquisizione del consenso, inoltre, non permette di esprimere una valida, consapevole e inequivocabile manifestazione di volontà, realizzando invece un’incontrollabile diffusione di dati personali a favore di una platea indistinta di operatori.

Nel corso dell’istruttoria dell’Autorità, è stato accertato anche che la società si è avvalsa di soggetti interni ed esterni all’organizzazione aziendale, violando gli obblighi gravanti sul titolare del trattamento riguardo all’individuazione, formazione, direzione e monitoraggio sull’operato dei soggetti designati. Oltre al pagamento della sanzione di 300mila euro, il Garante ha vietato alla società l’ulteriore trattamento dei dati personali dei segnalanti e le ha ingiunto di predisporre adeguati controlli sulla propria rete di vendita e implementazioni dei sistemi, per escludere che possano fare ingresso nel patrimonio aziendale contratti generati da contatti illeciti.

Lavoro: Garante privacy, no al controllo a distanza.

Sanzione di 50mila euro a un’azienda di autotrasporto per Gps installati sui veicoli.

Il Garante Privacy ha sanzionato un’azienda di autotrasporto per aver controllato in modo illecito circa 50 dipendenti, durante la loro attività lavorativa, utilizzando un sistema Gps installato sui veicoli aziendali. Diverse le violazioni riscontrate dall’Autorità, intervenuta a seguito della ricezione di un reclamo da parte di un ex dipendente dell’azienda. 

Dalle ispezioni, effettuate in collaborazione con il Nucleo tutela privacy della Guardia di finanza, è emerso che il sistema Gps tracciava in modo continuativo i dati di localizzazione, velocità, chilometraggio e stato dei veicoli (ad es. quando erano spenti o accesi), senza rispettare la normativa privacy e in modo difforme da quanto previsto dal provvedimento autorizzatorio rilasciato dall’Ispettorato territoriale del lavoro.

In particolare, sono state rilevate gravi carenze nell’informativa fornita ai lavoratori, tra cui la mancata indicazione delle specifiche modalità con cui il trattamento veniva realizzato e la informazione relativa alla diretta identificabilità dei conducenti dei veicoli geolocalizzati.

Tali trattamenti sono risultati contrari anche alle specifiche misure di garanzia indicate dall’Ispettorato del lavoro nel provvedimento di autorizzazione che era stato rilasciato all’azienda, che infatti prevedeva l’anonimizzazione dei dati raccolti e l’adozione di soluzioni tecnologiche in grado di limitare la raccolta di dati personali non necessari o eccedenti rispetto alle finalità di sicurezza e organizzazione aziendale. 

Inoltre, i dati raccolti venivano conservati per oltre 5 mesi, in violazione dei principi di minimizzazione e limitazione della conservazione dei dati stabiliti dal Regolamento UE.

Il Garante, in considerazione delle numerose e gravi violazioni riscontrate, oltre al pagamento di una sanzione di 50mila euro, ha ordinato all’azienda di fornire un’idonea informativa ai dipendenti e di adeguare i trattamenti effettuati attraverso il sistema Gps alle garanzie prescritte nel provvedimento autorizzatorio rilasciato, a suo tempo, dall’Ispettorato territoriale del lavoro all’azienda.

Garante: ok al nuovo sistema di fatturazione elettronica per gli operatori sanitari

La risposta dell’Autorità alle richieste di chiarimenti ricevute

Il nuovo sistema di fatturazione elettronica per i professionisti sanitari, che andrà a regime dal 1° gennaio 2026, è in linea con la normativa in materia di protezione dei dati personali. Il chiarimento del Garante privacy risponde ad alcuni quesiti, rivolti all’Autorità, da parte degli operatori che effettuano prestazioni sanitarie nei confronti dei loro pazienti.

Con il parere favorevole del 7 dicembre 2023, il Garante privacy ha infatti ritenuto che il decreto del MEF sulle modalità di utilizzo da parte dell’Agenzia delle entrate dei dati fiscali delle fatture e dei corrispettivi trasmessi al Sistema Tessera sanitaria individuasse misure appropriate a tutela dei dati sanitari degli assistiti.

L’Agenzia delle entrate potrà acquisire i soli dati effettivamente indispensabili ai fini fiscali, mentre saranno esclusi i dati relativi alla salute degli interessati (descrizione della prestazione e codice fiscale dell’assistito). L’attuale quadro normativo, in vigore – salvo proroghe – fino al 31 dicembre 2025, prevede che in nessun caso una fattura elettronica relativa all’erogazione di una prestazione sanitaria nei confronti degli assistiti debba essere emessa attraverso il Sistema di Interscambio.

Propaganda elettorale: Garante, no all’uso dei dati dei pazienti

Sanzionati due medici liguri per 10mila euro ciascuno.

I dati personali raccolti nell’ambito dell’attività di cura della salute da parte dei sanitari non sono utilizzabili per fini di propaganda elettorale senza uno specifico consenso degli interessati.

È quanto ha ribadito il Garante privacy sanzionando due medici per aver utilizzato gli indirizzi dei pazienti per promuovere le proprie candidature in occasione delle elezioni comunali. In entrambi i casi l’Ufficio è venuto a conoscenza della violazione da una segnalazione e da alcune notizie stampa.

In un caso l’illecito è stato considerato particolarmente grave perché un chirurgo oncologo ha dichiarato di aver contattato una cinquantina di donne con le quali si era creato un rapporto “più stretto e personale” inviando loro lettere di propaganda elettorale. Per espressa ammissione del medico le destinatarie erano tutte pazienti oncologiche e il contenuto del messaggio elettorale richiamava espressamente la loro malattia.

Nell’altro caso un medico di medicina generale aveva inviato una mail di promozione elettorale a 500 pazienti, i cui indirizzi erano stati messi contestualmente in chiaro e non in copia conoscenza nascosta, rivelando a tutti la condizione di malati di ciascuno di loro.Il fatto stesso di comunicare l’esigenza di un trattamento sanitario, ha chiarito il Garante, qualifica i dati personali come dati sulla salute e come tali meritevoli di particolari tutele. L’Autorità ha precisato inoltre che, in entrambe le circostanze, il trattamento dei dati dei pazienti poteva essere effettuato per finalità di cura e non anche per propaganda elettorale. Nel definire la sanzione di 10mila euro per ciascun dottore, l’Autorità ha tenuto conto anche del fatto che i due medici non erano stati destinatari di precedenti disposizioni o sanzioni del Garante. I provvedimenti dovranno essere pubblicati sul sito dell’Autorità e inviati all’Ordine dei medici per le valutazioni di competenza.

Trattamento dati personali nel rapporto di lavoro: si rispettano le norme sulla privacy.

Qualsiasi trattamento di dati personali nell’ambito del rapporto di lavoro deve rispettare gli obblighi risultanti dalle disposizioni del GDPR.

In particolare, la Corte di Giustizia Ue ha affermato, nella sentenza del 19 dicembre 2024 (C-65/23), che una disposizione nazionale avente ad oggetto il trattamento di dati personali ai fini dei rapporti di lavoro deve vincolare i suoi destinatari a rispettare non solo i requisiti derivanti dall’art. 88, par. 2, del regolamento Privacy, ma anche quelli che discendono dall’art. 5 e 6. La Corte Ue ha anche precisato che qualora un contratto collettivo rientri nell’ambito di applicazione di tale disposizione, il margine di discrezionalità di cui dispongono le parti del contratto, per determinare il carattere «necessario» di un trattamento di dati personali, non impedisce al giudice nazionale di esercitare un controllo giurisdizionale completo al riguardo. La questione fa riferimento a una controversia pendente dinanzi alla Corte federale del lavoro tedesca e insorta tra il sig. MK (persona fisica) e la società K GmbH (sua datrice di lavoro), in merito al risarcimento del danno morale che MK asserisce di aver subito a causa di un trattamento dei suoi dati personali effettuato dalla società sulla base di un accordo aziendale

Un impiegato della società tedesca K GmbH, presidente del comitato aziendale costituito presso tale società asserisce di aver subito dei danni per un trattamento dei suoi dati personali effettuato sulla base di un accordo aziendale. La società, infatti, ha proceduto al trattamento di alcuni dati personali dei suoi dipendenti nell’ambito dell’utilizzo di un software denominato «SAP», a fini contabili. Sulla base di accordi aziendali conclusi con il suo comitato aziendale, il gruppo di società D, a cui appartiene la società convenuta, ha introdotto in tutto il gruppo il software «Workday», che opera nel cloud, come sistema unico per la gestione delle informazioni sul personale. La K GmbH ha trasferito diversi dati personali dei suoi dipendenti dal software SAP a un server della società madre del gruppo D, situato negli Stati Uniti.

Il 3 luglio 2017 la K GmbH e il suo comitato aziendale hanno concluso un accordo che stabiliva una tolleranza quanto all’introduzione del software Workday il quale vietava che tale software fosse utilizzato a fini di gestione delle risorse umane, come la valutazione di un lavoratore, durante la fase di sperimentazione. In base all’accordo, le sole categorie di dati che potevano essere trasferite per alimentare il software Workday erano il numero di matricola assegnato al lavoratore all’interno del gruppo D, il suo cognome, il suo nome, il suo numero di telefono, la sua data di entrata in servizio nella società interessata, la data della sua entrata in servizio nel gruppo D, il suo luogo di lavoro, il nome della società interessata, nonché i suoi numeri di telefono e di indirizzo di posta elettronica professionali. Gli effetti di tale accordo sono stati prorogati fino all’entrata in vigore di un accordo aziendale definitivo, concluso il 23 gennaio 2019.

In questo contesto, il ricorrente dinanzi al Tribunale del lavoro e successivamente dinanzi al Tribunale superiore del lavoro del Land, ha presentato delle domande dirette ad ottenere l’accesso a talune informazioni, la cancellazione di dati che lo riguardavano e la concessione di un risarcimento, sostenendo che la K GmbH avesse trasferito, verso il server della società controllante, dati personali che lo riguardavano, alcuni dei quali non erano menzionati nell’accordo aziendale.

Non avendo ottenuto una completa soddisfazione, la ricorrente ha presentato un ricorso per cassazione presso la Corte federale del lavoro, giudice del rinvio.

La Corte Ue di Giustizia europea, richiamando una costante giurisprudenza, ha ribadito che qualsiasi trattamento di dati personali deve rispettare i principi che disciplinano il trattamento di tali dati nonché i diritti dell’interessato enunciati, rispettivamente, ai capi II e III del GDPR. In particolare, deve essere conforme ai principi relativi al trattamento di tali dati enunciati all’art. 5 e soddisfare le condizioni di liceità elencate all’art. 6. Il rispetto degli obblighi risultanti da tali disposizioni, ha affermato la Corte Ue, è previsto anche nel caso in cui siano state adottate dagli Stati membri «norme più specifiche».

La Corte Ue pur riconoscendo che le parti di un contratto collettivo sono in genere nella posizione migliore per valutare se un trattamento di dati sia necessario in un contesto professionale concreto, ha affermato che tuttavia, tale processo di valutazione non deve indurre le parti a scendere a compromessi, di natura economica o di convenienza, che potrebbero pregiudicare l’obiettivo del GDPR di garantire un elevato livello di protezione dei diritti e delle libertà fondamentali dei dipendenti in relazione al trattamento dei loro dati personali. Ne consegue, pertanto, la necessità di un controllo giurisdizionale completo su un contratto collettivo da parte dei giudici nazionali al fine di verificare se le giustificazioni addotte dalle parti del contratto stabiliscano il carattere necessario del trattamento dei dati personali che ne deriva: una interpretazione che negasse l’esercizio di un controllo giurisdizionale completo su un contratto collettivo “non sarebbe compatibile con tale regolamento, tenuto conto dell’obiettivo di protezione ricordato nel punto precedente della presente sentenza”.

La Corte di Giustizia Ue conclude sottolineando che, qualora il giudice nazionale adito giungesse alla conclusione, all’esito del suo controllo, che alcune disposizioni del contratto collettivo in questione non rispettano le condizioni e i limiti prescritti dal GDPR, sarebbe tenuto a non applicare tali disposizioni.

AI e gestione dei lavoratori: utile la partecipazione contro i rischi psicosociali. Una nuova ricerca di Eu-Osha sottolinea l’importanza della rappresentanza sindacale per mitigare le criticità derivanti dall’uso di sistemi organizzativi basati sull’intelligenza artificiale

Un recente studio dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (Eu-Osha) analizza l’impatto sui rischi psicosociali dei sistemi di gestione dei lavoratori basati sull’intelligenza artificiale (Aiwm). Se da un lato questi strumenti possono migliorare la sicurezza sul lavoro, dall’altro rischiano di aumentare la sorveglianza e il controllo, con effetti negativi sul benessere del personale. Il coinvolgimento dei rappresentanti sindacali emerge come elemento fondamentale per mitigare tali rischi.

L’Aiwm: benefici e rischi per i lavoratori. L’adozione di tecnologie basate sull’intelligenza artificiale per la gestione dei lavoratori (artificial intelligence based worker management – Aiwm) sta crescendo in molti settori. Questi sistemi raccolgono enormi quantità di dati sul lavoro, dai compiti eseguiti alle modalità di utilizzo degli strumenti digitali, per prendere decisioni automatizzate sulla gestione delle risorse umane. L’Aiwm può così senz’altro migliorare l’efficienza operativa, ma il rovescio della medaglia è concreto e consiste nell’intensificazione della sorveglianza con una conseguente erosione dell’autonomia lavorativa, da cui derivano l’aumento della pressione sulle performance e dello stress. Questi rischi sono particolarmente evidenti nei contesti dove il controllo umano è ridotto e le decisioni si basano su algoritmi poco trasparenti.

La partecipazione dei lavoratori nella gestione dei rischi. Secondo l’Eu-Osha, una delle soluzioni più efficaci per prevenire e mitigare i rischi psicologici derivanti dall’Aiwm è il coinvolgimento attivo dei lavoratori, e in particolare dei loro rappresentanti, nei processi decisionali relativi all’adozione di queste tecnologie. L’osservazione dell’esperienza di una società mineraria svedese ha dimostrato che la partecipazione dei sindacati e dei rappresentanti dei lavoratori nella progettazione e implementazione dei sistemi AI ha contribuito a ridurre i rischi associati all’uso di dati personali per il monitoraggio delle prestazioni. Un altro esempio positivo arriva dal settore manifatturiero danese, dove la collaborazione tra lavoratori e datori di lavoro ha permesso di perfezionare l’uso delle tecnologie senza compromettere il benessere dei dipendenti.

Nonostante i benefici evidenti della partecipazione sindacale, le difficoltà non mancano. La complessità e l’opacità di queste tecnologie rendono difficile per i sindacati monitorarle e negoziarne efficacemente le modalità di utilizzo. Inoltre, l’equilibrio di potere tra datori di lavoro e lavoratori, che varia notevolmente a seconda dei settori e delle dimensioni aziendali, può ridurre la capacità dei rappresentanti dei lavoratori di influire sulle scelte tecnologiche. È quindi fondamentale che le normative evolvano per favorire un maggiore coinvolgimento dei lavoratori e garantire una gestione trasparente dell’AI.

Lo studio suggerisce che, per mitigare i rischi psicosociali derivanti dai sistemi Aiwm, è necessario un rafforzamento delle strutture di rappresentanza dei lavoratori. I sindacati e i rappresentanti della sicurezza sul lavoro devono essere dotati di strumenti e conoscenze tecniche adeguate a partecipare attivamente ai processi di implementazione e monitoraggio dell’Aiwm. Inoltre, andrebbe garantito ai lavoratori il diritto di essere informati e consultati riguardo l’introduzione di nuove tecnologie, creando un ambiente favorevole al dialogo sociale e alla contrattazione collettiva per regolare l’uso di questi sistemi


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NEWSLETTER 4/2025

Novita’ normative

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha emanato la circolare n. 6 del 27 marzo 2025, con la quale illustra i principali interventi attuati con il cosiddetto “Collegato lavoro” (legge 13 dicembre 2024 n. 203 recante “Disposizioni in materia di lavoro”) e fornisce le prime indicazioni operative.

Segnaliamo in particolare:

  • Somministrazione di lavoro.

•        Computo della durata: per i contratti stipulati tra agenzia e utilizzatore a decorrere dal 12 gennaio 2025, data di entrata in vigore della legge n. 203/2024, il computo dei 24 mesi di lavoro dei lavoratori somministrati, deve tenere conto di tutti i periodi di missione a tempo determinato intercorsi tra le parti successivamente alla data considerata, senza computare le missioni già svolte in vigenza della precedente disciplina. Inoltre, le missioni in corso alla data di entrata in vigore della legge n. 203/2024, svolte in ragione di contratti tra agenzia e utilizzatore stipulati antecedentemente al 12 gennaio 2025, potranno giungere alla naturale scadenza, fino alla data del 30 giugno 2025, senza che l’utilizzatore incorra nella sanzione della trasformazione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro con il lavoratore somministrato. Tuttavia, in quest’ultima ipotesi i periodi di missione maturati successivamente alla data del 12 gennaio dovranno essere scomputati dal limite dei complessivi 24 mesi, previsti dall’articolo 19 del decreto legislativo n. 81/2015.

•        Lavoratori a termine esclusi dal limite quantitativo del 30% rispetto al numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore: tutti quelli assunti in fase di avvio di nuove attività; da start- up innovative; per lo svolgimento di attività stagionali; per lo svolgimento di specifici programmi o spettacoli; per la sostituzione di lavoratori assenti; con lavoratori over 50; lavoratori inviati in missione a tempo determinato, se assunti dal somministratore con contratto di lavoro a tempo indeterminato.

•        Esclusione dall’obbligo di indicare la causale: non trova applicazione l’obbligo di indicazione delle causali stabilite per le assunzioni con contratto a tempo determinato di durata superiore a dodici mesi in caso di assunzioni a tempo determinato effettuate dalle agenzie per il lavoro di: soggetti disoccupati che godono da almeno sei mesi di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali; lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati, identificati ex regolamento (UE) n. 651/2014 ed ex decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali 17 ottobre 2017.

  • Lavoro stagionale. L’art. 11 L. 203/2024, fornisce l’interpretazione autentica dell’articolo 21 del decreto legislativo 81/2015, n. 81 in materia di attività stagionali chiarendo che “rientrano nelle attività stagionali, anche quelle organizzate per fare fronte a intensificazioni dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno, nonché a esigenze tecnico produttive o collegate ai cicli stagionali dei settori produttivi o dei mercati serviti dall’impresa, secondo quanto previsto dai contratti collettivi di lavoro, ivi compresi quelli già sottoscritti alla data di entrata in vigore della presente legge, stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative nella categoria”.

Come norma di interpretazione autentica, inoltre, l’articolo 11:

•        ha natura retroattiva e trova, quindi, applicazione anche per i contratti collettivi firmati prima della sua entrata in vigore.

•        considera stagionali non solo le tradizionali attività legate a cicli stagionali ben definiti, ma anche quelle indispensabili a far fronte ad intensificazioni produttive in determinati periodi dell’anno o a soddisfare esigenze tecnico-produttive collegate a specifici cicli dei settori produttivi o dei mercati serviti dall’impresa.

Spetterà alla contrattazione collettiva chiarire specificamente – non limitandosi ad un richiamo formale e generico della nuova disposizione– in che modo, in concreto, quelle caratteristiche si riscontrino nelle singole attività definite come stagionali, al fine di superare eventuali questioni di conformità rispetto al diritto europeo.

  • Periodo di prova nei contratti a termine: fatte salve le disposizioni più favorevoli della contrattazione collettiva la durata del periodo di prova è stabilita in un giorno di effettiva prestazione per ogni quindici giorni di calendario a partire dalla data di inizio del rapporto di lavoro e, in ogni caso, la durata del periodo di prova non può essere inferiore a due giorni, né superiore a quindici giorni (per i rapporti di lavoro aventi durata non superiore a sei mesi) e a trenta giorni (per quelli aventi durata superiore a sei mesi e inferiore a dodici mesi). La norma trova applicazione per i contratti di lavoro instaurati a far data dall’entrata in vigore della legge in esame, quindi dal 12 gennaio 2025.
  • Comunicazioni in materia di lavoro agile: per la comunicazione dell’avvio e della cessazione delle prestazioni di lavoro in modalità agile e delle eventuali modifiche della durata originariamente prevista viene fissato nel termine di cinque giorni decorrente non dalla data di sottoscrizione del contratto, bensì da quello dell’effettivo inizio della prestazione di lavoro in modalità agile.
  • Dimissioni per fatti concludenti: l’articolo 19 della L. 203/2024, n. 203 ha modificato l’articolo 26 del decreto legislativo 151/2015, n. 151 in materia di “Dimissioni volontarie e risoluzione consensuale”, introducendo il comma 7-bis, il quale stabilisce che: “In caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a quindici giorni, il datore di lavoro ne dà comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che può verificare la veridicità della comunicazione medesima. Il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina prevista dal presente articolo. Le disposizioni del secondo periodo non si applicano se il lavoratore dimostra l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza”.

Tale disposizione ha pertanto affermato che:

•        la possibilità che il rapporto di lavoro si concluda per effetto delle cosiddette dimissioni per fatti concludenti (o dimissioni implicite), consentendo al datore di lavoro di ricondurre un effetto risolutivo al comportamento del lavoratore consistente in una assenza ingiustificata, prolungata per un certo periodo di tempo;

•        tale effetto risolutivo non discende automaticamente dall’assenza ingiustificata, ma si verifica solo nel caso in cui il datore di lavoro decida di prenderne atto, valorizzando la presunta volontà dismissiva del rapporto da parte del lavoratore e facendone derivare la conseguenza prevista dalla norma;

•        per quanto concerne la durata dell’assenza che può determinare la configurazione delle dimissioni per fatti concludenti, in mancanza di specifica previsione nel CCNL applicato al rapporto di lavoro, dovrà essere superiore a quindici giorni che possono intendersi come giorni di calendario, ove non diversamente disposto dal CCNL applicato al rapporto di lavoro;

•        quello individuato dalla legge costituisce il termine legale minimo perché il datore – a partire, quindi, dal sedicesimo giorno di assenza – possa darne specifica comunicazione all’Ispettorato territoriale del lavoro. La suddetta comunicazione opera anche quale dies a quo per il decorso del termine di cinque giorni previsto per effettuare la relativa comunicazione obbligatoria di cessazione del rapporto di lavoro tramite il modello UNILAV;

•        il datore di lavoro – laddove intenda far valere l’assenza ingiustificata del lavoratore, protrattasi oltre i termini sopra indicati, ai fini della risoluzione del rapporto di lavoro per dimissioni per fatti concludenti – deve comunicarla alla sede territoriale dell’Ispettorato, da individuare in base al luogo di svolgimento del rapporto di lavoro. La comunicazione dell’assenza ingiustificata è, quindi, uno specifico onere che l’ordinamento pone in capo al datore che intenda porre fine al rapporto di lavoro rilevando il ricorrere di questo particolare tipo di dimissioni;

•        per permettere all’Ispettorato di effettuare le verifiche circa la veridicità della comunicazione datoriale di assenza ingiustificata, il datore dovrà indicare tutti i contatti e i recapiti forniti dal lavoratore e trasmettere la comunicazione inviata all’Ispettorato territoriale, anche al lavoratore, per consentirgli di esercitare in via effettiva il diritto di difesa;

•        la cessazione del rapporto avrà effetti dalla data riportata nel modulo UNILAV, che non potrà comunque essere antecedente alla data di comunicazione dell’assenza del lavoratore all’Ispettorato territoriale del lavoro, fermo restando che il datore di lavoro non è tenuto, per il periodo di assenza ingiustificata del lavoratore, al versamento della retribuzione e dei relativi contributi;

•        come conseguenze di tale cessazione, il Ministero del Lavoro ritiene che, in base ai principi generali che regolano il rapporto di lavoro, il datore possa trattenere dalle competenze di fine rapporto da corrispondere al lavoratore l’indennità di mancato preavviso contrattualmente stabilita;

•        a norma prevede espressamente che l’effetto risolutivo del rapporto potrà essere evitato laddove il lavoratore dimostri “l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza”. Grava, pertanto, sul lavoratore l’onere di provare l’impossibilità di comunicare i motivi dell’assenza al datore di lavoro o la circostanza di aver comunque provveduto alla comunicazione;

•        qualora il lavoratore dia effettivamente prova di non essere stato in grado di comunicare i motivi dell’assenza, così come nell’ipotesi in cui l’Ispettorato accerti autonomamente la non veridicità della comunicazione del datore di lavoro, non può trovare applicazione l’effetto risolutivo del rapporto di lavoro e la comunicazione di cessazione resterà priva di effetti.

Convertito in Legge il Decreto Milleproroghe 2025. Pubblicata la Legge 21 febbraio 2025, n. 15, di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 27 dicembre 2024, n. 202, recante disposizioni urgenti in materia di termini normativi.

Per quanto riguarda la materia lavoro, viene confermata la proroga al 31 dicembre 2025 dell’utilizzo della causale basata sulle «esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva», che le parti (datore di lavoro e lavoratore) potranno apporre al contratto individuale di lavoro qualora la contrattazione collettiva non abbia individuato proprie causali all’avvio di contratti a tempo determinato.

L’articolo di riferimento è il 14, titolato: “Proroga di termini in materie di competenza del Ministero del turismo“.

Ricordiamo che è obbligatorio indicare una causale all’avvio di un rapporto di lavoro a termine:

  • in caso di stipula del primo contratto a tempo determinato o della somministrazione a termine superiore a 12 mesi;
  • al superamento dei 12 mesi con contratti a tempo determinato e in somministrazione a termine.

Corte Costituzionale, sentenza 7 febbraio 2025, n. 14.

  • Ammissibile il referendum abrogativo in tema di causali del contratto a termine

La Corte Costituzionale dichiara l’ammissibilità del referendum promosso dalla CGIL che mira all’abrogazione di alcune previsioni del d.lgs. n. 81/15 che attualmente consentono la stipulazione di contratti di lavoro a tempo determinato (e anche la loro proroga e/o il rinnovo) fino a un anno senza dover fornire alcuna giustificazione, e, per quelli di durata superiore, sulla base di esigenze individuate dalle parti nel contratto individuale, anche se non previste né dalla legge, né dalla contrattazione collettiva. Secondo i giudici della Consulta, il quesito risulta chiaro, omogeneo e univoco, ponendo l’elettore dinanzi a una alternativa secca: da un lato, la riattivazione dei vincoli al ricorso al lavoro temporaneo, nella forma della generalizzazione dell’obbligo di giustificazione e in riferimento alle sole ipotesi previste dalla legge o dai contratti collettivi; dall’altro, la conservazione della normativa vigente, che, all’opposto, ne agevola l’impiego.

  • Ammissibile il referendum sulla esclusione della responsabilità solidale del committente in taluni casi.

I giudici della Consulta dichiarano ammissibile il referendum promosso dalla CGIL che mira ad abrogare la norma che esclude la responsabilità solidale dell’imprenditore committente per i danni che sono conseguenza di rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici. Per la Corte, il quesito risulta chiaro e univoco, in quanto pone l’elettorale di fronte a una alternativa netta: il mantenimento dell’attuale assetto della responsabilità solidale, contraddistinto da deroghe significative, o l’integrale riespansione di tale responsabilità, senza alcuna eccezione.

  • Ammissibile il referendum per l’abrogazione di un limite massimo dell’indennità per il licenziamento illegittimo nelle piccole imprese

La Corte Costituzionale dichiara ammissibile il referendum promosso dalla CGIL che mira a eliminare il tetto massimo che l’art. 8, l. 604/66, impone per la liquidazione dell’indennità da licenziamento illegittimo, fissato in 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto – che trova oggi applicazione nei confronti dei soli lavoratori assunti alle dipendenze delle c.d. “piccole imprese” prima del 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del d.lgs. 23/15, attuativo della legge sul Jobs act –, osservando che l’eventuale esito positivo della consultazione referendaria comporterebbe, per la menzionata categoria di lavoratori, il mantenimento della soglia minima (pari a 2,5 mensilità) e consentirebbe una liquidazione affidata al prudente apprezzamento del giudice che, nel quantificare un ristoro equo e dotato di un congruo effetto deterrente, non troverebbe più l’ostacolo dell’attuale limite massimo. Così strutturato, il quesito risponde ai requisiti di chiarezza, univocità e omogeneità, in quanto pone l’elettore di fronte a una alternativa secca: mantenere ferma l’attuale disciplina prevista dall’art. 8, l. 604/66, ovvero depurarla del profilo anzidetto, lasciandone per il resto intatte le ulteriori previsioni.

  • Ammissibile il referendum per l’abrogazione del decreto n. 23/2015 in materia di licenziamenti illegittimi

Nel dichiarare l’ammissibilità del referendum promosso dalla CGIL, diretto all’abrogazione totale del d.lgs. 23/15, uno dei decreti attuativi del c.d. Jobs Act, la Corte Costituzionale, dopo avere sinteticamente ripercorso le modifiche normative degli ultimi anni ai regimi di tutela in caso di licenziamento illegittimo, osserva che: (i) l’eventuale esito positivo del referendum non determinerebbe alcuna lacuna nella tutela del fondamentale diritto al lavoro, dal momento che dall’abrogazione deriverebbe l’applicabilità, anche ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, della disciplina dettata dall’art. 18, l. 300/70, e dall’art. 8, l. 604/66; (ii) né, per altro verso, il fatto che, in caso di approvazione del quesito abrogativo, il risultato di un ampliamento delle garanzie per il lavoratore non si verificherebbe in realtà in tutte le ipotesi di invalidità del licenziamento, perché per alcune di queste (e in particolare nel caso del licenziamento intimato al lavoratore assente per malattia o infortunio, oppure intimato per disabilità fisica o psichica a un lavoratore che non versava in realtà in tale condizione) si avrebbe, invece, un arretramento di tutela, non inficia la chiarezza, l’omogeneità e l’univocità della richiesta di referendum: il quesito referendario chiama, infatti, il corpo elettorale a una valutazione complessiva e generale, che può anche prescindere dalle specifiche e differenti disposizioni normative, senza perdere la propria matrice unitaria, che resta quella di esprimersi a favore o contro l’abrogazione del d.lgs. 23/15 nella sua interezza.

Novita’ GIURISPRUDENZIALI

Corte di Cassazione ordinanza n. 7825/2025

La Corte la afferma che il licenziamento di un lavoratore per aver utilizzato il computer aziendale per scopi privati è illegittimo se non sussiste una condotta di particolare gravità.

L’uso improprio dello strumento di lavoro non giustifica il recesso se non c’è un intento lesivo verso l’azienda. La decisione deve basarsi su alcuni criteri come la limitata entità delle violazioni e l’assenza di un danno concreto o di un pregiudizio per il datore.

Corte d’Appello di Torino, 17 marzo 2025.

Licenziato per molestie sessuali sul posto di lavoro: la deposizione della vittima può essere sufficiente per provare l’accadimento del fatto.

La Corte d’Appello di Torino, riformando la sentenza emessa in primo grado, accerta la legittimità del licenziamento per giusta causa subìto da un lavoratore, il quale si era reso colpevole di molestie sessuali ai danni di una collega. Secondo il Collegio va creduta la versione resa dalla vittima di molestie con la propria testimonianza, in quanto in una causa civile, a differenza del processo penale, anche la deposizione di un singolo teste può essere di per sé sufficiente quale prova dell’accadimento storico di un determinato fatto In particolare, chiariscono i giudici che il comportamento tenuto dalla vittima dopo aver subìto le molestie, per esempio non sporgendo denuncia dell’accaduto, non può riverberarsi retrospettivamente sulla veridicità della testimonianza dell’evento, se non a pena, per le persone coinvolte in episodi del genere, di non essere pregiudizialmente credute.

Tribunale di Roma, 4 marzo 2025.

Il datore non può licenziare il dipendente totalmente inabile al lavoro se il giudizio di inabilità è reversibile.

Il Tribunale accoglie il ricorso di un lavoratore il quale, avendo subito un grave infortunio ed essendo stato, per tale motivo, giudicato dalla Commissione Medica di Verifica (CMV) inabile al lavoro, era stato licenziato dalla società datrice per tale motivo. Il giudice capitolino ha dichiarato illegittimo il licenziamento evidenziando, da un lato, che il giudizio della CMV non era affatto definitivo, in quanto soggetto a revisione nei tre anni successivi e, dall’altro, che nelle more non fosse ancora stato superato il periodo di comporto (in ogni caso non fatto valere dal datore di lavoro). A maggior ragione, nel caso di specie, la CTU medico-legale aveva rilevato che il lavoratore aveva recuperato una sufficiente capacità lavorativa in un tempo ragionevole dall’evento-infortunio. Per tali motivi la società è stata condannata alla reintegrazione in servizio e al risarcimento del danno nei confronti del ricorrente.

Tribunale di Ancona, sentenza 1° marzo 2025.

È illegittimo il licenziamento fondato sul rifiuto del lavoratore di recedere dalla modalità di lavoro agile, in presenza di un’espressa esclusione di tale diritto datoriale.

Non configurano inadempimento del lavoratore la reiterata assenza dal lavoro in sede e il rifiuto di attenersi alla disposizione del datore di lavoro di recesso dalla modalità di lavoro agile, nella misura in cui il diritto di recesso sia escluso nel contratto di lavoro in modo chiaro e incondizionato. Eventuali situazioni sopravvenute che rendano meno conveniente per il datore di lavoro la conservazione del lavoro agile sono irrilevanti, a meno che non rendano oggettivamente impossibile fornire e ricevere un’adeguata prestazione, al punto da configurare un giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

Corte di cassazione, sentenza 28 febbraio 2025 n. 5334.

Un video denigratorio su una chat privata non può mai giustificare il licenziamento.

La dipendente di un negozio era stata licenziata per aver postato su una chat Whatsapp, cui partecipavano i 14 dipendenti del medesimo negozio, un video che rappresentava una cliente grassa, accentuandone gli aspetti ridicoli. Nel conseguente giudizio di impugnazione del licenziamento, la Cassazione, accogliendo il ricorso della lavoratrice avverso la sentenza d’appello, afferma che, in considerazione delle caratteristiche della destinazione del messaggio a persone determinate e delle cautele di riservatezza del tipo di piattaforma utilizzata, la comunicazione del video in questione gode delle garanzie di libertà e segretezza che l’art. 15 Cost. assicura alla corrispondenza e a ogni altra forma di comunicazione. Essa non può pertanto costituire mai giusta causa di licenziamento e il fatto che l’impresa sia venuta a conoscenza dell’episodio per la denuncia di una partecipante alla chat concreta per quest’ultima la violazione di un segreto e non altera comunque il giudizio di inutilizzabilità del video nell’ ambito del rapporto di lavoro.

Corte di cassazione, sentenza 21 febbraio 2025, n. 4655.

Retroattività del licenziamento disciplinare al momento della contestazione: limiti.

Sottoposta a procedimento penale, una dipendente di banca era stata sospesa cautelarmente e quindi sottoposta a procedimento disciplinare, poi sospeso fino all’esito del giudizio penale, intervenuto il quale, era stata licenziata con effetto retroagente al momento della contestazione, a norma dell’art. 1, comma 41 L. n. 92 del 2012 e le era stata richiesta la restituzione della retribuzione che, secondo il CCNL applicabile, aveva percepito durante la sospensione cautelare. Nel giudizio conseguentemente promosso dalla bancaria il problema posto alla Corte era duplice: 1) se la regola della retroattività si applica anche quando la contestazione disciplinare è, come nel caso in esame, antecedente all’entrata in vigore della legge n. 92; 2) se, a norma del CCNL, in caso di licenziamento disciplinare il lavoratore debba restituire la retribuzione percepita durante il periodo di sospensione cautelare disposta dal datore di lavoro.

La Corte, in diverso avviso rispetto all’appello, risponde negativamente ad ambedue le questioni: la prima per la normale considerazione unitaria del procedimento disciplinare, che inizia con l’apertura dello stesso e inoltre in coerenza con la necessaria tutela del diritto di difesa del lavoratore, che fin dall’inizio deve essere messo in grado di conoscere anche gli effetti possibili della contestazione; la seconda, perché nella disciplina collettiva che dispone il pagamento della retribuzione al dipendente sospeso cautelarmente non è alcuna indicazione circa l’eventuale provvisorietà dello stesso.

Corte di Cassazione, ordinanza 11 febbraio 2025, n. 3488.

Sulla risarcibilità del danno non patrimoniale in caso di condotte datoriali discriminatorie.

Dopo avere ottenuto dai giudici di merito, in un procedimento ex art. 28 D. Lgs. n. 150/2011, il riconoscimento del carattere discriminatorio della sua tardiva assunzione e il conseguente danno patrimoniale, il dipendente di una Fondazione aveva proposto ricorso per cassazione al fine ottenere altresì il risarcimento del danno non patrimoniale, negato dalla Corte d’appello per mancanza di prova. La Cassazione, nell’accogliere il ricorso, osserva che: (i) le Sezioni unite, con la sentenza n. 20819/21, hanno affermato che il rimedio alla discriminazione deve rispondere ai requisiti stabiliti dal diritto UE, quindi deve essere effettivo, proporzionale, dissuasivo; (ii) da ciò deriva che, in tema di discriminazione, il risarcimento del danno non patrimoniale è caratterizzato da una connotazione dissuasiva, tanto che può essere riconosciuto nei casi di discriminazione collettiva, anche in assenza di un soggetto immediatamente identificabile; (iii) tale danno, consistendo nella lesione di diritti costituzionalmente garantiti, è liquidabile in via equitativa e può essere provato ricorrendo al ragionamento presuntivo, valorizzando la maggiore o minore gravità dell’atto discriminatorio e le ragioni che l’hanno determinato.

Corte di Cassazione, ordinanza 10 febbraio 2025, n. 3400

Danno da demansionamento e incidenza del mancato aggiornamento tecnologico del dipendente.

La Cassazione, nel confermare la decisione della Corte d’appello, che aveva riconosciuto l’avvenuto demansionamento di un lavoratore, inquadrato come operatore specialista in customer care ma impiegato con funzioni di mero call center, e condannato la società datrice a risarcire il danno alla professionalità, liquidato equitativamente in 1000 euro per ogni mese del periodo di dequalificazione, osserva che i giudici di merito hanno correttamente tratto elementi presuntivi della sussistenza del danno non solo dalla qualità delle mansioni svolte, dalla durata del demansionamento subito, dalle modalità dell’inadempimento della società (che aveva reiterato la condotta di dequalificazione), ma anche dalla velocità dell’evoluzione tecnologica del settore cui il dipendente era addetto e di cui era stato in sostanza privato.

Corte di Cassazione, ordinanza 5 febbraio 2025, n. 2806.

Licenziamento disciplinare e abusivo accesso ai dati personali di clienti.

Il licenziamento di un bancario per ripetuti accessi abusivi sui conti correnti di alcuni clienti era stato annullato dai giudici di merito, che avevano ritenuto i fatti di tenue entità e dato rilievo alla mancata affissione del codice disciplinare. La Cassazione, accogliendo il ricorso della banca, osserva che (i) l’accesso al sistema informatico aziendale non può mai essere considerato fatto lieve allorché, come in questo caso, si concreti in una violazione degli obblighi di protezione dei dati personali previsti dal d.lgs. 196/2003, soprattutto da parte di coloro che operano all’interno di un istituto bancario; (ii) altrettanto consolidato è l’orientamento secondo cui la pubblicazione del codice disciplinare non è necessaria quando la condotta del lavoratore costituisca, come nel caso di specie, violazione di norme di legge o di principi fondamentali di correttezza e buona fede, immediatamente percepibile dal dipendente come illecito.

Tribunale di Busto Arsizio con sentenza del 3 febbraio 2025.

Costituzione della Consigliera di parità per far valere il carattere (indirettamente) discriminatorio, a danno delle lavoratrici che svolgono compiti di cura familiare, della lunga pausa imposta uniformemente a tutti i dipendenti.

In una situazione in cui gli oneri di cura familiare ricadono in prevalenza sulle lavoratrici donne, il trattamento uguale, in termini di orario della pausa pranzo (di ben 90 minuti) e, di conseguenza, dell’uscita pomeridiana, provoca una discriminazione indiretta, per i diversi effetti che si verificano a seconda delle situazioni soggettive dei lavoratori destinatari della stessa regola. La discriminatorietà della rigidità oraria deriva oggettivamente dallo svantaggio per le lavoratrici che devono ritardare il rientro in famiglia, senza che rilevi l’intento soggettivo della società nell’imporre uniformemente la rigidità di orario.

A maggior ragione nei casi di azione collettiva della Consigliera di parità, l’effetto discriminatorio va valutato in termini potenziali e qualitativi, quale condizione di maggiore difficoltà nella conciliazione tra lavoro ed esigenze di cura familiare, non rilevando conseguenze effettive ed ulteriori rispetto al rientro ritardato.

In mancanza di prova del carattere essenziale all’organizzazione di impresa dell’orario uniforme, la rimozione degli effetti discriminatori va perseguita consentendo alle interessate la limitazione della pausa con conseguente uscita anticipata.

Lo afferma il Tribunale di Busto Arsizio con sentenza del 3 febbraio 2025. Le affermazioni sono qualificate come discriminazione indiretta perché idonee a scoraggiare le lavoratrici dal candidarsi per ruoli dirigenziali.

Corte d’Appello di Roma, 27 gennaio 2025

Accertata la nullità del patto di prova, si applica la tutela reintegratoria prevista per l’ipotesi di licenziamento fondato su un “fatto materiale insussistente”

La Corte d’Appello ribadisce, anzitutto, ai fini dell’efficacia e validità della prova, la necessaria specificità delle mansioni di adibizione, la cui concreta individuazione deve essere ricavata da quanto è stato pattuito per iscritto tra le parti, in una clausola contrattuale chiara ex ante e suscettibile di verifica ex post. In caso di licenziamento per mancato superamento della prova in presenza un patto di prova nullo, il fatto posto alla base del licenziamento è da ritenersi insussistente. Pertanto, quanto alle conseguenze sanzionatorie, nel contesto normativo del d.lgs. n. 23 del 2015, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 128/2024, tale recesso, se privo di giusta causa e/o giustificato motivo, non resta assoggettato alla regola generale della tutela indennitaria, ma è suscettibile di applicazione della tutela reintegratoria. In merito poi alla determinazione dell’indennità risarcitoria, la Corte stabilisce che non si determini detraendo dal “tetto massimo” delle dodici mensilità l’intero importo percepito da un altro datore di lavoro, ma solamente quanto si sovrappone all’intero periodo di estromissione.

Tribunale di Napoli Nord, 10 febbraio 2025

Sulle problematiche della corretta impugnazione del licenziamento attraverso lettera scansionata e inviata telematicamente.

Il Tribunale respinge il ricorso presentato da un lavoratore, il quale aveva impugnato il licenziamento attraverso una lettera firmata e poi scansionata e inviata telematicamente alla Società da parte del difensore. Secondo il Giudice, la copia per immagine su supporto informatico di un documento formato in originale in analogico può avere la stessa efficacia dell’originale, ma solo a patto che sulla copia sia apposta firma digitale o elettronica (del lavoratore o dell’avvocato), che sia accompagnata da attestazione di conformità di un notaio o pubblico ufficiale autorizzato o che sia formata in origine su supporto analogico e la sua conformità all’originale non sia disconosciuta. Non ricorrendo nel caso nessuno di questi tre elementi, la comunicazione dell’impugnazione non impedisce la decadenza di cui all’art. 6, l. 604/1966.