NEWSLETTER PRIVACY 8/2025

AGOSTO 2025

Il Garante Privacy blocca la diffusione delle immagini dell’autopsia di Chiara Poggi Lesione gravissima della dignità della vittima e dei suoi familiari.

Il Garante Privacy ha disposto, d’ufficio e in via d’urgenza, con provvedimento dell’11.07.2025 il blocco nei confronti di un soggetto che sta rendendo disponibile online, a pagamento, un video contenente le immagini dell’autopsia di Chiara Poggi.

Con lo stesso provvedimento, l’Autorità avverte i media e i siti web che l’eventuale diffusione delle immagini risulterebbe illecita in quanto in contrasto con le Regole deontologiche dei giornalisti e la normativa privacy.

Il Garante invita dunque chiunque entri nella disponibilità di tali immagini, compresi i mezzi di informazione, ad astenersi dalla loro diffusione che anche in considerazione della violenza esercitata nei confronti della vittima lederebbe in modo gravissimo la sua dignità e quella dei suoi familiari.

L’Autorità si è riservata l’adozione di ulteriori provvedimenti anche di carattere sanzionatorio.

Sanzione di 420mila euro del Garante Privacy ad Autostrade per l’Italia S.p.A. per aver trattato in modo illecito i dati personali di una dipendente, poi utilizzati per giustificarne il licenziamento.

L’intervento dell’Autorità è seguito al reclamo della lavoratrice che aveva segnalato l’utilizzo, da parte della società, di contenuti estratti dal proprio profilo Facebook e da chat private su Messenger e WhatsApp per motivare i procedimenti disciplinari a proprio carico. Tra i contenuti utilizzati figuravano anche stralci virgolettati di commenti e descrizioni di foto.

Dagli accertamenti del Garante è emerso che i contenuti erano stati utilizzati dal datore di lavoro senza una base giuridica valida, attraverso screenshot forniti da alcuni colleghi e da un soggetto terzo, presenti tra gli “amici” della dipendente su Facebook e attivi nelle sue conversazioni private su Messenger e WhatsApp.

Le comunicazioni, inoltre, riguardavano opinioni e scambi avvenuti in contesti estranei al rapporto di lavoro, non rilevanti ai fini della valutazione dell’idoneità professionale. Nel motivare la sanzione, il Garante ha sottolineato che una volta accertato il carattere privato delle conversazioni e dei commenti pubblicati, tra l’altro, in ambienti digitali ad accesso limitato la società avrebbe dovuto astenersi dal farne uso.

L’impiego di tali informazioni, infatti, ha violato i principi di liceità, finalità e minimizzazione previsti dalla normativa privacy. L’Autorità ha inoltre ribadito che i dati personali presenti sui social network, o comunque accessibili online, non possono essere utilizzati liberamente e per qualunque scopo, solo perché visibili a una platea più o meno ampia di persone. Anche nell’ambito dell’attività disciplinare il datore di lavoro è tenuto a bilanciare correttamente tale potere con i diritti e le libertà fondamentali riconosciuti agli interessati.

Il principio di finalità, ha ricordato l’Autorità, impone che i dati siano raccolti per scopi specifici, espliciti e legittimi, e trattati in modo coerente con tali scopi. Pertanto, l’utilizzo nel procedimento disciplinare di messaggi scambiati su canali privati di comunicazione è avvenuto in violazione della segretezza e riservatezza della

Garante Privacy: lavoro, no alle impronte digitali per la rilevazione presenze il Garante sanziona un istituto scolastico.

Il Garante per la protezione dei dati personali, con provvedimento del 4.06.2025, ha affermato che l’uso dei dati biometrici sul posto di lavoro è consentito solo se previsto da una norma specifica che tuteli i diritti dei lavoratori.

Tale trattamento deve rispondere a un interesse pubblico e rispettare criteri di necessità e proporzionalità rispetto all’obiettivo perseguito.

Su tale presupposto, il Garante Privacy, a seguito di un reclamo, ha sanzionato un Istituto di Istruzione superiore di Tropea per 4mila euro per aver impiegato un sistema di riconoscimento biometrico che, allo scopo di rilevarne la presenza e di prevenire danneggiamenti e atti vandalici, richiedeva l’uso delle impronte digitali del personale amministrativo.

I lavoratori coinvolti erano quelli che avevano rilasciato il proprio consenso e che non intendevano ricorrere a modalità tradizionali di attestazione della propria presenza in servizio.

Nel rilevare la violazione della normativa privacy, italiana ed europea, il Garante ha ricordato quanto già espresso in un precedente parere del 2019: non può ritenersi proporzionato l’uso sistematico, generalizzato e indifferenziato per tutte le pubbliche amministrazioni di sistemi di rilevazione biometrica delle presenze, a causa dell’invasività tali forme di verifica e delle implicazioni derivanti dalla particolare natura del dato.

La mancanza di un’idonea base giuridica, in merito al trattamento dei dati biometrici, non può essere colmata neppure dal consenso dei dipendenti che non costituisce, di regola, un valido presupposto per il trattamento dei dati personali in ambito lavorativo, sia pubblico che privato, a causa dell’asimmetria tra le rispettive parti del rapporto di lavoro.

Nel definire la sanzione il Garante ha tuttavia tenuto conto sia della buona collaborazione offerta dall’Istituto nell’ambito dell’istruttoria che dell’assenza di precedenti violazioni analoghe.

Marketing: il Garante sanziona per 45 mila euro una società di rivendita auto online e – mail senza consenso e mancato controllo sulla filiera dei partner.

Il Garante Privacy con provvedimento 27.03.2025 ha accertato che una società non aveva disciplinato correttamente i rapporti con i partner pubblicitari che potevano così trattare i dati dei clienti senza alcun controllo e in violazione della normativa privacy.

Il rivenditore di auto avrebbe infatti dovuto adottare misure tecniche e organizzative adeguate a garantire, ed essere in grado di dimostrare, che i trattamenti effettuati da terzi, fossero conformi al regolamento e che l’interessato avesse prestato il proprio consenso alla ricezione di messaggi pubblicitari. a un rivenditore di auto online per trattamento illecito di dati personali ai fini di marketing.

Il procedimento trae origine dal reclamo di un cliente che lamentava la ricezione di numerose e-mail indesiderate e il mancato riscontro alle richieste di esercizio dei diritti sanciti dal Regolamento.

Nel reclamo, l’interessato precisava di aver ricevuto i messaggi da indirizzi Email sempre diversi, facenti capo a partner promozionali della società di cui ignorava l’esistenza.

Numerosi gli illeciti riscontrati.

In particolare, il Garante ha accertato che la società non aveva disciplinato correttamente i rapporti con i partner pubblicitari che potevano così trattare i dati dei clienti senza alcun controllo e in violazione della normativa privacy.

Il rivenditore di auto avrebbe infatti dovuto adottare misure tecniche e organizzative adeguate a garantire, ed essere in grado di dimostrare, che i trattamenti effettuati da terzi, fossero conformi al regolamento e che l’interessato avesse prestato il proprio consenso alla ricezione di messaggi pubblicitari.

Al riguardo, il Garante ribadisce che tra le misure minime che i titolari del trattamento devono adottare vi è l’acquisizione dei consensi in modalità double optin, un processo che richiede agli utenti di confermare due volte la propria intenzione di iscriversi a contenuti promozionali, garantendo così maggiori tutele sia per gli interessati che per i titolari.

Per quanto riguarda il mancato riscontro alle richieste di esercizio dei diritti, il Garante ha accertato che l’errata qualificazione dei ruoli ha vanificato l’opposizione manifestata dal cliente: l’inserimento in black list effettuato dalla società non aveva infatti prodotto alcun risultato sui partner che avevano continuato a inviare le comunicazioni promozionali.

Tenuto conto che la società ha rescisso i contratti con i partner e ha interrotto l’attività pubblicitaria tramite Email, il Garante non ha ingiunto misure correttive.

G7 Privacy: azioni comuni per un ambiente digitale più sicuro Concluso a Ottawa, il vertice delle Autorità di protezione dei dati dei 7 Grandi.

Promuovere la fiducia nell’economia digitale e sostenere l’innovazione nel rispetto della privacy e della protezione dei dati personali.

È questo l’impegno condiviso dalle Autorità di protezione dei dati personali con la dichiarazione approvata a conclusione del G7 Privacy che si è svolto in Canada il 17, 18, 19 e 20 giugno.

Secondo i Garanti le azioni comuni intraprese contribuiranno a creare un ambiente digitale più sicuro per il futuro.

Il trattamento dei dati dovrebbe essere progettato per servire l’umanità, per questo le Autorità incoraggiano sviluppatori e innovatori a riflettere sui contenuti della dichiarazione approvata a Ottawa.

Inoltre, dando seguito al piano d’azione adottato al G7 di Roma nel 2024, le Autorità invitano a promuovere un’innovazione responsabile e a proteggere i minori, dando priorità alla privacy.

“I bambini vogliono e hanno il diritto di essere cittadini digitali attivi sostiene la dichiarazione e meritano una protezione forte e adeguata, che tenga conto dei loro interessi e permetta loro di partecipare pienamente al mondo digitale”.

Nel corso del vertice, inoltre, è stato dato conto delle attività dei tre gruppi di lavoro del G7 privacy: libera e responsabile circolazione dei dati, Tecnologie emergenti e intelligenza artificiale e Cooperazione per l’attuazione di regole comuni.

L’obiettivo è l’adozione a dicembre, nel corso di una riunione programmata, dei restanti documenti sui temi affrontati, che riguardano tra gli altri: le procedure per rendere operativa la DFFT in un contesto globale; l’uso responsabile dei dati nei dispositivi smart home; la definizione di un modello condiviso di applicazione della normativa sulla protezione dei dati. Il Collegio del Garante Italiano, rappresentato dal presidente Pasquale Stanzione, dalla vicepresidente Ginevra Cerrina Feroni e dai componenti Agostino Ghiglia e Guido Scorza, ha partecipato attivamente a tutti i tavoli di lavori, alle discussioni collegiali, con interventi e dichiarazioni, oltre agli eventi collaterali del G7, in tema di tecnologie per il rafforzamento e il miglioramento della privacy e al Privacy Symposium finale sulle prospettive della protezione dei dati personali nell’era digitale. In particolare, la prof.ssa Cerrina Feroni, nell’ambito dell’evento svoltosi il 16 e il 17 giugno organizzato dall’OCSE, dal Governo Canadese e dall’Agenzia per l’innovazione digitale Giapponese, ha tenuto una relazione sul ruolo delle Autorità di protezione dati personali nella promozione delle PETs, alla quale si sono aggiunte le riflessioni nel dibattito presentate dal dott. Ghiglia.

Al presidente Stanzione è stato poi chiesto un intervento di apertura ai lavori del G7 volto ad evidenziare il “passaggio di testimone” rispetto all’edizione romana del 2024.

La vicepresidente ha, quindi, illustrato il volume preparato dal Garante italiano contenente i documenti e gli interventi del G7 2024, che è stato consegnato a tutti i partecipanti.

Quanto ai contenuti più specifici, tra i vari temi affrontati dal Collegio del Garante nelle varie sessioni, il dott. Ghiglia è intervenuto sulla libera e responsabile circolazione dei dati sostenendo la crucialità della cooperazione tra le giurisdizioni, in particolar modo al di fuori dello spazio economico europeo, per supportare e facilitare flussi di dati transfrontalieri sicuri, affidabili e conformi alla normativa sulla protezione dei dati personali.

L’Avv. Scorza ha affrontato la questione delle nuove tecnologie con riguardo alle possibilità che esse possono aprire anche per la protezione dei dati personali, la prof.ssa Cerrina Feroni ha esaminato il ruolo dell’enforcement al fine di individuare strategie comuni alla luce delle analogie e delle differenze dei vari ordinamenti giuridici.

Il Presidente ha concluso con un intervento sulle prospettive future del G7 sia sotto il profilo delle procedure che degli ambiti di azione futura.

L’Avv. Scorza ha partecipato a Ottawa al Privacy Symposium del 20 giugno, intervenendo nell’ambito della tavola rotonda fra le varie autorità presenti al G7 per sottolineare come non si possa continuare a sacrificare il best interest del minore sull’altare del mercato e degli interessi commerciali, mentre il presidente Stanzione, la vicepresidente Cerrina Feroni, il componente Ghiglia a Montreal, invitati dalla McGill University, sono stati protagonisti di un dibattito pubblico sul ruolo del Garante Italiano in ambito di intelligenza artificiale e dati sanitari e sui temi affrontati nel G7.

Privacy e AI: Meta addestra i suoi sistemi con i dati degli utenti che non si sono opposti.

A decorrere dalla fine del mese di maggio 2025, Meta ha dato avvio all’impiego dei dati personali degli utenti maggiorenni di Facebook e Instagram al fine di addestrare i propri modelli di intelligenza artificiale, a prescindere dalla legittima acquisizione del consenso.

Meta società capogruppo delle piattaforme Facebook, Instagram e WhatsApp ha comunicato di avere avviato, a partire dalla fine di maggio 2025, l’utilizzo dei dati personali degli utenti maggiorenni che non hanno esercitato il diritto di opposizione, allo scopo di alimentare e perfezionare i propri sistemi di intelligenza artificiale generativa, tra cui Meta AI e LLaMA (Large Language Model Meta AI).

L’iniziativa, formalmente giustificata dalla finalità di “miglioramento tecnologico”, ha comportato l’elaborazione di contenuti resi pubblici dagli utenti, quali testi, immagini e interazioni condivise sulle piattaforme, ad eccezione secondo le dichiarazioni ufficiali delle conversazioni private e i messaggi riservati.

L’assenza di una manifestazione espressa di dissenso da parte dell’utente è stata interpretata da Meta quale forma implicita di adesione al trattamento, fondando tale presunzione sulla base giuridica del legittimo interesse del titolare, ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, lettera f), del Regolamento (UE) 2016/679.

Tale impostazione, tuttavia, si confronta con un orientamento consolidato, sia nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sia nelle linee guida adottate dal Comitato Europeo per la Protezione dei Dati tra cui si segnalano il parere WP217 e le Linee guida 06/2020 secondo cui ogni passaggio a una finalità ulteriore rispetto a quella originaria, in particolare quando comporta forme di trattamento potenzialmente invasive, impone una verifica stringente in ordine alla compatibilità, alla proporzionalità, alla trasparenza e all’intelligibilità dell’informativa resa all’interessato, conformemente ai principi sanciti dall’articolo 5 del GDPR.

NEWSLETTER 8/2025

Novita’ normative

Residenza estera a rischio se il datore di lavoro concede lo smart working. Il lavoro agile può incidere sull’individuazione dello Stato con più stretto collegamento.

Nell’attuale contesto lavorativo è frequente il caso in cui le persone siano assunte da datori di lavoro esteri, i quali concedono di svolgere, per alcuni periodi, l’attività lavorativa da remoto in modalità agile nel proprio Stato di origine, dove risiedono anche i familiari o le persone con cui si hanno legami significativi. Questa situazione comporta alcuni profili di rischio legati all’individuazione della residenza fiscale.

Si pensi, ad esempio, a una lavoratrice che abbia stipulato un contratto con una società estera in cui siano previsti 10-12 giorni al mese di smart working, durante i quali la persona presta attività in Italia, presso l’abitazione di proprietà del compagno, non coniugato. La stessa ha a disposizione un immobile nello Stato estero mediante contratto di locazione mentre non possiede immobili o conti correnti in Italia.

In un caso come quello prospettato, sotto il profilo della normativa, l’art. 2 del TUIR, in vigore dal 2024, pone una prima criticità rispetto al criterio del domicilio fiscale che reca la specifica accezione di “luogo in cui si sviluppano, in via principale, le relazioni personali e familiari della persona”, privilegiando dunque le relazioni personali e familiari rispetto a quelle prettamente economiche.

Nella nozione di “relazioni personali e familiari”, secondo l’Agenzia delle Entrate, rientrano sia i rapporti tipici , sia le relazioni personali connotate da un carattere di stabilità che esprimono un radicamento con il territorio dello Stato.

Allo stesso modo, precisa l’Agenzia, può assumere rilievo la dimensione stabile dei rapporti sociali. Secondo Assonime le relazioni personali e sociali devono essere segnalate da elementi fattuali, come la presenza significativa sul territorio dell’individuo o del suo nucleo familiare, nonché attraverso l’utilizzo dei servizi e delle infrastrutture disponibili nel territorio dello Stato. Fatte queste premesse, il caso prospettato, in cui la persona presenta un legame affettivo rilevante sul territorio italiano (il compagno), potrebbe essere suscettibile di contestazioni da parte dell’Amministrazione finanziaria, la quale potrebbe ritenere configurato il domicilio fiscale in Italia.

Allo stesso modo, andrebbe attentamente monitorato il parametro della presenza fisica, laddove, unitamente al periodo di smart working, la persona, come logico, trascorresse in Italia i periodi di pausa dal lavoro; se, cumulativamente, gli stessi rappresentassero la maggior parte del periodo di imposta, sarebbe integrato un elemento ulteriore per considerare la persona residente in Italia.

Una volta verificata la residenza fiscale in Italia in base ai criteri domestici, occorre poi valutare se, in base ai criteri convenzionali, la stessa potrebbe invece essere qualificata come non residente.

Sempre facendo riferimento al caso ipotizzato, la persona disporrebbe di un’abitazione permanente in entrambi gli Stati e bisognerebbe quindi indagare il luogo in cui è stabilito il centro di interessi vitali, il quale considera sia le relazioni personali, sia le relazioni economiche.

Tale valutazione richiede di contemperare gli elementi con valenza diversa; ad esempio, avere un conto in banca, carte di credito, una patente in un determinato Stato non dovrebbe rilevare in modo incisivo per la determinazione del centro di interessi vitali, posto che si tratta di elementi che possono essere ottenuti velocemente e facilmente, mentre la casa famigliare, la presenza di figli, di un partner e di un lavoro in un certo Stato denotano un maggiore collegamento con tale territorio. In tale ottica, rileva anche l’evoluzione dei rapporti personali sul territorio, per cui un eventuale matrimonio con il partner, residente in Italia, esprimerebbe la volontà di un collegamento durevole con l’Italia e ciò anche se la persona ha spostato le proprie relazioni economiche all’estero. In questo contesto, nell’interpretazione della norma internazionale, un possibile elemento da valorizzare sarebbe legato alla riconoscibilità esterna dell’attività economica prestata; ove, infatti, vi siano interessi economici fortemente radicati sul territorio estero e riconoscibili a terzi, si potrebbe sostenere che il centro di interessi vitali è stabilito nello Stato estero, superando in questo modo la nozione di domicilio fiscale. La questione non sarebbe invece di facile risoluzione avendo riguardo a un consulente con clienti all’estero, in quanto l’attività di consulenza è soggetta a forte mobilità e quindi non in grado di determinare un forte collegamento con lo Stato estero. Ove non sia possibile stabilire il luogo del centro di interessi vitali, in virtù della sussistenza di rapporti economici e sociali all’estero, si passerebbe alla terza regola, relativa al luogo di soggiorno abituale, da stabilire in termini di frequenza, durata e regolarità.

Salvo l’elenco delle attività discontinue per il lavoro intermittente.

L’INL, in accordo con il Ministero del Lavoro, conferma il rinvio al RD 2657/23, nonostante la sua abrogazione.L’abrogazione del RD 2657/23, contenente la tabella delle occupazioni che richiedono un lavoro discontinuo o di semplice attesa o custodia, da parte della L. 56/2025, come era già stato anticipato non comporta conseguenze sul lavoro intermittente. Lo ha chiarito l’Ispettorato nazionale del Lavoro (INL) che, con la nota n. 1180/2025, ha definitivamente risolto i dubbi sollevati da una parte degli addetti ai lavori circa l’esistenza di un potenziale vuoto normativo, che poteva incidere sulla concreta possibilità di fare ricorso al lavoro a chiamata. Come chiarito con la circolare INL n. 1/2021, ai fini della stipula di un contratto di lavoro intermittente, ai sensi dell’art. 13 del D.Lgs. 81/2015, devono sussistere alternativamente le cosiddette condizioni oggettive o quelle soggettive. Queste ultime si riferiscono al requisito anagrafico del lavoratore, previsto dal comma 2 dell’art. 13, secondo il quale il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con soggetti con meno di 24 anni di età, purché le prestazioni lavorative siano svolte entro il venticinquesimo anno, e con più di 55 anni. Le condizioni oggettive, invece, sono disciplinate dal comma 1 del medesimo art. 13, in forza del quale è possibile fare ricorso al contratto di lavoro intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi, anche con riferimento alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno. In mancanza di contratto collettivo, i casi di utilizzo del lavoro intermittente sono individuati con decreto del Ministro del Lavoro e delle politiche sociali.

Il Senato della Repubblica, con la seduta dell’8 luglio 2025, ha approvato in via definitiva il disegno di legge recante le disposizioni in materia di conservazione del posto di lavoro e permessi retribuiti per esami e cure mediche a favore dei lavoratori affetti da malattie oncologiche.

Il DdL era già stato approvato dalla Camera dei Deputati a marzo e interviene su più punti:

  • congedo biennale: periodo di congedo non retribuito fino a 24 mesi con conservazione del posto di lavoro;
  • smart working: diritto prioritario al lavoro da remoto dopo il congedo, se la mansione lo permette;
  • permessi per visite, esami e cure: ulteriori 10 ore annue di permessi indennizzati, esteso ai genitori di minori malati;
  • lavoratori autonomi: sospensione dell’attività che passa da 150 a 300 giorni per anno solare.

Il 2 luglio 2025 Min. Lavoro: firmato il Protocollo quadro per le emergenze climatiche.

Il Ministro del Lavoro e delle politiche sociali ha sottoscritto il protocollo quadro per l’adozione delle misure di contenimento dei rischi lavorativi legate alle emergenze climatiche negli ambienti di lavoro.

Nei prossimi giorni si proseguirà con la raccolta delle firme di tutte le parti sociali che intendono aderire.

INPS, messaggio n. 2130 del 3 luglio 2025.

Trattamenti di integrazione salariale per caldo eccessivo.

Tenendo conto dell’incidenza che le condizioni climatiche attuali, caratterizzate da elevate temperature notevolmente superiori alla media stagionale, hanno sullo svolgimento delle attività lavorative e sull’eventuale sospensione o riduzione delle stesse, l’INPS, con il messaggio del 3.07.2025, sintetizza le indicazioni in merito alle modalità con cui richiedere le prestazioni di integrazione salariale e ai criteri per la corretta valutazione delle istanze

Per le dimissioni di fatto serve una disposizione ad hoc nel CCNL.

Il Ministero del Lavoro ribadisce che in difetto di espressa previsione contrattuale vale il termine legale di 15 giorni di assenza ingiustificata.

Le disposizioni del CCNL sulle assenze ingiustificate, previste per il licenziamento, non possono dar luogo a dimissioni di fatto.

Lo ha chiarito il Ministero del Lavoro con una specifica FAQ con la quale è ritornato sul valore e sull’impatto reale delle attuali disposizioni del contratto collettivo in relazione alla nuova procedura di risoluzione per fatti concludenti del rapporto di lavoro, contenuta nel c.d. Collegato Lavoro, vigente dal 12 gennaio 2025.

Un intervento quanto mai necessario alla luce di una serie di interpretazioni nate dalla recente sentenza n. 87/2025 del Tribunale di Trento che, secondo alcuni commentatori, sembrava aver messo in discussione alcuni principi stabiliti dallo stesso Ministero con la circ. n. 6/2025.

L’elemento oggetto di discussione attiene alle clausole del contratto collettivo, già esistenti alla data di entrata in vigore della nuova procedura, che sanzionano con il licenziamento l’assenza ingiustificata, individuando la relativa durata.

Una parte della dottrina ha ritenuto, all’indomani della vigenza delle nuove disposizioni sulle dimissioni per assenza ingiustificata del lavoratore, di poter mutuare i termini previsti dai contratti collettivi per l’ipotesi di licenziamento, derogando così al più lungo termine legale di almeno 15 giorni, previsto, in mancanza di previsione contrattuale, dal nuovo comma 7 bis dell’art. 26 del D.Lgs. 151/2015.

Sul punto, come ribadito ulteriormente dal Ministero nella FAQ in commento, la circolare ministeriale n. 6/2025 è stata netta, chiarendo che le eventuali previsioni della contrattazione collettiva devono essere espressamente riferite a questa nuova fattispecie ed, inoltre, che il termine eventualmente individuato per legittimare la risoluzione del rapporto per comportamento concludente non deve essere inferiore a quello individuato dalla legge, ossia almeno 15 giorni.

La ragione di ciò, spiega il Ministero, è data dalla circostanza per cui l’elemento essenziale della risoluzione per fatti concludenti è il silenzio del lavoratore, che non deve aver fornito alcun motivo dell’assenza.

Ciò determina la necessità di un termine più ampio rispetto ai pochi giorni già previsti dai contratti collettivi per il licenziamento, “perché in quel caso la procedura di garanzia prevista dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori consente lo scrutinio delle opposte ragioni ed il controllo di legittimità delle decisioni”.

La fattispecie delle dimissioni di fatto ha, invece, un presupposto del tutto differente. Già in passato, prima che l’istituto delle dimissioni fosse disciplinato dal citato art. 26, che ha introdotto la specifica forma telematica, la Cassazione ha più volte ribadito che, per le dimissioni per fatti concludenti, quindi, non espresse formalmente, il comportamento del lavoratore deve essere inequivocabile, ovvero tale da non lasciare spazio ad altre interpretazioni se non quella della volontà di dimettersi.

La scelta ministeriale di non creare commistione tra assenza ingiustificata con profili disciplinari, da un lato, e assenza ingiustificata con valenza dimissionaria, dall’altro, appare, quindi, quanto mai condivisibile e in linea con i citati orientamenti giurisprudenziali, che non vengono intaccati, come già

sostenuto da chi scrive, dalla tanto discussa decisione del giudice trentino.

Secondo il Ministero, infatti, la lettura fornita nella circolare n. 6/2025 non appare superata dalla sentenza n. 87/2025 del Tribunale di Trento che attenendosi al petitum della controversia ha peraltro adottato un provvedimento di reintegrazione, dichiarando l’illegittimità del licenziamento e negando completamente la configurabilità delle dimissioni di fatto nel caso concreto.

Peraltro, nel caso specifico, lo stesso Tribunale, proprio in relazione al perfezionamento del termine utile alla fattispecie dimissionaria, pur richiamando la disposizione contenuta nel CCNL a fini disciplinari, sottolinea come nessun argomento contrario è stato svolto dalla società convenuta nella propria memoria di costituzione, atteso che tale profilo, per nulla indagato dal giudice, non era oggetto di discussione tra le parti. Inoltre, il Ministero, a ulteriore conferma della propria linea interpretativa, evidenzia come la norma stessa abbia previsto un generico richiamo alle previsioni del contratto collettivo, senza fare riferimento, come avrebbe potuto, al termine contrattuale connesso al licenziamento.

Pertanto, nel silenzio del legislatore, il termine cui la norma fa riferimento non può che essere quello che la contrattazione collettiva dovrà prevedere per lo specifico caso di risoluzione di rapporto per fatti concludenti del lavoratore e, in mancanza, l’unico termine possibile è quello legale di 15 giorni.

Pubblicato il 25 Giugno 2025 Garante Privacy: Lavoro no alle impronte digitali per la rilevazione presenze.

Il Garante per la protezione dei dati personali ha affermato che l’uso dei dati biometrici sul posto di lavoro è consentito solo se previsto da una norma specifica che tuteli i diritti dei lavoratori.

Tale trattamento deve rispondere a un interesse pubblico e rispettare criteri di necessità e proporzionalità rispetto all’obiettivo perseguito.

Su tale presupposto, il Garante Privacy, a seguito di un reclamo, ha sanzionato un Istituto di Istruzione superiore di Tropea per 4mila euro per aver impiegato un sistema di riconoscimento biometrico che, allo scopo di rilevarne la presenza e di prevenire danneggiamenti e atti vandalici, richiedeva l’uso delle impronte digitali del personale amministrativo.

I lavoratori coinvolti erano quelli che avevano rilasciato il proprio consenso e che non intendevano ricorrere a modalità tradizionali di attestazione della propria presenza in servizio.

Nel rilevare la violazione della normativa privacy, italiana ed europea, il Garante ha ricordato quanto già espresso in un precedente parere del 2019: non può ritenersi proporzionato l’uso sistematico, generalizzato e indifferenziato per tutte le pubbliche amministrazioni di sistemi di rilevazione biometrica delle presenze, a causa dell’invasività di tali forme di verifica e delle implicazioni derivanti dalla particolare natura del dato.

La mancanza di un’idonea base giuridica, in merito al trattamento dei dati biometrici, non può essere colmata neppure dal consenso dei dipendenti che non costituisce, di regola, un valido presupposto per il trattamento dei dati personali in ambito lavorativo, sia pubblico che privato, a causa dell’asimmetria tra le rispettive parti del rapporto di lavoro.

Nel definire la sanzione il Garante ha tuttavia tenuto conto sia della buona collaborazione offerta dall’Istituto nell’ambito dell’istruttoria che dell’assenza di precedenti violazioni analoghe.

Decreto legge 17 giugno 2025, n. 84 disposizioni urgenti in materia fiscale.

Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 138 del 17 giugno 2025, il decreto legge n. 84/2025 reca, fra le varie disposizioni, novità relative alla gestione delle trasferte dei lavoratori: rispetto a quanto previsto dalla legge di Bilancio 2025 sulla tracciabilità delle spese sostenute in trasferta, si prevede ora che l’obbligo, imposto al lavoratore, di utilizzare strumenti di pagamento tracciabili ai fini dell’esenzione fiscale e previdenziale delle somme allo stesso rimborsate, valga solamente per le trasferte effettuate

sul territorio dello Stato e non, invece, per quelle all’estero.

Si evidenzia inoltre la modifica alla disciplina della c.d. maxi deduzione prevista dal D.Lgs. n. 216/2023, in quanto con riferimento alla maggiorazione del costo ammesso in deduzione per le nuove assunzioni a tempo indeterminato viene eliminato il riferimento alle società collegate.

Decreto legge 11 aprile 2025 n. 48, convertito con legge 9 giugno 2025 n. 80: sgravi contributivi e apprendistato per i detenuti che lavorano all’esterno.

Il decreto legge n. 48/2025, convertito nella legge n. 80/2025 pubblicata in G.U. il 9 giugno 2025, introduce rilevanti misure per favorire il reinserimento socio lavorativo dei detenuti.

In particolare, estende ai detenuti che lavorano all’esterno degli istituti penitenziari, compresi coloro che usufruiscono di misure alternative alla detenzione, i benefici contributivi già previsti per il lavoro intramurario.

I datori di lavoro che li assumono possono accedere agli sgravi contributivi disciplinati dalla L. n. 193/2000, incentivando così l’inserimento lavorativo dei soggetti in esecuzione penale.

Il decreto prevede inoltre che tali detenuti possano essere assunti con contratto di apprendistato professionalizzante, al pari di quanto già stabilito per i lavoratori liberi, offrendo così percorsi formativi strutturati.

Le disposizioni hanno l’obiettivo di ridurre la recidiva, promuovere la responsabilità individuale e rafforzare le opportunità di integrazione post detentiva attraverso il lavoro.

Novita’ giurisprudenziali

Corte Costituzionale, sentenza n. 118 del 21.07.2025, la

Incostituzionale il tetto di 6 mensilità per i licenziamenti nelle piccole imprese.

La Corte Costituzionale afferma che è incostituzionale il limite di 6 mensilità a titolo di indennità risarcitoria previsto dall’art. 9, comma 1, del D.Lgs. 23/2015 in caso di licenziamento illegittimo irrogato da una azienda che occupa meno di 15 dipendenti.

Nel caso di specie, la lavoratrice, assunta dopo il marzo 2015 da una azienda con meno di 15 dipendenti, impugnava giudizialmente il licenziamento irrogatole.

Il Tribunale di Livorno, investito del caso, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del D.Lgs. 23/2015, ritenendo che lo stesso non fosse idoneo né a svolgere il ruolo di deterrente, né a garantire adeguatezza e congruità.

Secondo il Giudice rimettente, infatti, detta norma, da un lato, determina una ingiustificata disparità di trattamento tra dipendenti delle piccole e grandi aziende e, dall’altro lato, prevendendo una tutela standardizzata, impedisce una necessaria personalizzazione del risarcimento a seconda dei vizi, più o meno gravi, del recesso.

La Corte rileva che la norma censurata è incostituzionale, stante l’imposizione del limite massimo di 6 mensilità di indennità risarcitoria che è fisso ed insuperabile, a prescindere dalla gravità del vizio del licenziamento.

Secondo i Giudici, detto dato va letto unitamente alla previsione secondo cui, in favore dei dipendenti di piccole imprese, vi è il riconoscimento di importi dimezzati rispetto a quelli indicati in favore dei lavoratori occupati in aziende più grandi, seppur destinatari di licenziamenti parimenti illegittimi.

Alla luce di ciò, per la Consulta, l’ammontare dell’indennità in questione risulta “circoscritto entro una forbice così esigua da non consentire al giudice di rispettare i criteri di personalizzazione, adeguatezza e congruità del risarcimento del danno sofferto dal lavoratore illegittimamente licenziato” né da “assicurare la funzione deterrente della stessa indennità nei confronti del datore di lavoro”.

Su tali presupposti, la Corte “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 … limitatamente alle parole «e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”.

Corte di Cassazione ordinanza n. 13048 del 16 maggio 2025

Limiti all’oggetto del patto di non concorrenza. Il compenso pattuito non deve essere iniquo in relazione al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione della sua capacità di guadagno.

Il patto con il quale viene limitato lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del lavoratore e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.

La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata.

In materia si è recentemente pronunciata la Suprema Corte, con ordinanza n. 13048 del 16 maggio 2025.

Nel dettaglio, la Cassazione è stata chiamata a decidere in merito alla legittimità di un patto di non concorrenza con cui veniva imposto a una lavoratrice il divieto di prestare attività a favore di imprese operanti in tutti i settori di cui si occupava la precedente datrice di lavoro, per lo svolgimento di qualsiasi mansione.

Confermando le pronunce dei giudici di prime e di seconde cure, la cassazione ha chiarito come, nel caso di specie, dovesse ritenersi non congruo il compenso pattuito poco più di 3.000 Euro lordi, rispetto alle limitazioni subite (considerato anche l’arco temporale di estensione dell’accordo 15 mesi nel quale la lavoratrice avrebbe dovuto astenersi dal realizzare attività lavorative).

Nell’assumere tale decisione, La Corte ha fatto proprio un orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, in forza del quale, per valutare la validità di un patto di non concorrenza, in riferimento al corrispettivo dovuto, si richiede innanzitutto che, in quanto elemento distinto dalla retribuzione, lo stesso possieda i requisiti previsti in generale per l’oggetto della prestazione dall’art. 1346 c.c.; va poi verificato, ex art. 2125 c.c., che il compenso pattuito non sia meramente simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, in relazione al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione della sua capacità di guadagno.

A ben vedere, tale pronuncia limita la valutazione circa la legittimità dell’accordo in relazione all’ammontare del compenso, vagliando, in altre parole, la proporzionalità di quest’ultimo rispetto al sacrificio assunto dal lavoratore.

Ma, indipendentemente dall’ammontare del corrispettivo, ci si può chiedere fino a che punto possa essere vincolata l’attività futura del prestatore di lavoro.

Ebbene, una risposta a tale domanda viene fornita dalla recente pronuncia n. 13051/2025, con cui la Cassazione, riprendendo il principio di diritto sopracitato, aggiunge: “che il patto non sia di ampiezza tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in termini che ne compromettano ogni potenzialità reddituale”.

Viene valorizzata, quindi, la professionalità del lavoratore che, dopo aver cessato la precedente attività lavorativa, deve essere posto in condizioni tali da assicurarsi un guadagno idoneo alle sue esigenze di vita.

Tanto assunto, è fondamentale aggiungere come l’attitudine di un patto di non concorrenza a influire sulle capacità di rioccupazione del lavoratore comporti una valutazione congiunta dell’oggetto e dell’estensione territoriale dell’accordo: tanto più ampio è l’oggetto, tanto meno potrà esserlo il territorio, e viceversa.

È bene, quindi, ricordare come anche il riferimento territoriale debba essere individuato specificamente, nonché come la giurisprudenza ritenga validi patti di non concorrenza estesi a tutto il territorio nazionale ed, in determinate circostanze, anche al territorio europeo; ciò, ad esempio, nel caso in cui l’impresa stipulante abbia carattere multinazionale e l’accordo stesso presenti un oggetto molto circoscritto di attività inibite.

Infine, la valutazione di questi l’elementi non può prescindere da una considerazione rispetto ad un altro aspetto fondamentale del patto, ossia la sua durata temporale. In merito a ciò, tuttavia, già l’art. 2125 c.c. Summenzionato individua dei limiti: 3 anni per la generalità dei lavoratori, 5 anni per i dirigenti.

Per le dimissioni di fatto valide solo le giornate successive al 12 gennaio 2025.

Lo ha stabilito il Tribunale di Trento con la prima rilevante sentenza in merito alle dimissioni di fatto.

Le giornate di assenza ingiustificata, che determinano l’effetto estintivo del rapporto di lavoro per dimissioni “di fatto” sono solo quelle successive all’entrata in vigore della nuova procedura di risoluzione, contenuta nel c.d. Collegato lavoro (l. 203/2024), vigente dal 12 gennaio 2025.

Lo ha stabilito il Tribunale di Trento con la sentenza n. 87/2025, la prima pronuncia di merito che offre numerosi spunti di riflessione.

Nel caso di specie una lavoratrice, a seguito di interruzione della possibilità di lavorare mediante smart working, non si era presentata a lavoro, maturando, a decorrere dal 7 gennaio 2025, una serie di giorni di assenza.

Il datore di lavoro, rifacendosi all’art. 238 comma 4 del CCNL per i dipendenti da aziende del terziario, della distribuzione e dei servizi, che consente il licenziamento disciplinare in ragione di assenza ingiustificata oltre tre giorni nell’anno solare, ha ritenuto perfezionata la fattispecie di dimissioni per fatti concludenti, prevista dal nuovo comma 7 bis dell’art. 26 del D.Lgs. 151/2015, provvedendo in data 13 gennaio 2025 a inoltrare a mezzo PEC la prevista comunicazione al servizio lavoro della provincia autonoma di Trento.

Il primo aspetto, sul quale si incentra fondamentalmente la motivazione del giudice, attiene al momento a partire dal quale è possibile attribuire all’assenza del lavoratore una specifica valenza giuridica.

Sul punto il Tribunale, muovendo dal principio del tempus regit actum e dell’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello stato di diritto, spiega come il sostantivo actus indichi una condotta o comportamento in generale e, quindi, un qualsiasi fatto umano giuridicamente rilevante, non già soltanto un negozio giuridico ossia una manifestazione di volontà produttiva di effetti giuridici, quali le “dimissioni per fatti concludenti”.

Pertanto, le giornate di assenza antecedenti al 12 gennaio non possono essere considerate una semplice preesistente situazione di fatto che abilita, successivamente a tale data, la possibilità di attivare la procedura di risoluzione del rapporto.

In tal senso solo una condotta successiva può acquisire il valore giuridico richiesto dal comma 7 bis.

Muovendo da tale ragionamento il Tribunale ritiene non perfezionato l’istituto, accogliendo la tesi della ricorrente che ha qualificato la fattispecie come licenziamento orale attuato mediante il rifiuto di ricevere la prestazione della lavoratrice.

Innanzitutto, appare interessante evidenziare come secondo il giudice la totale assenza dei presupposti di cui all’art. 26 riconduca l’interruzione del rapporto a un licenziamento (precisamente orale, con le conseguenze normative previste dall’art. 2 del D.Lgs. 23/2015), mentre il diritto alla ricostituzione del rapporto, paventata tanto dall’INL quanto dal Ministero, per le ipotesi in cui il datore di lavoro abbia già provveduto alla trasmissione del relativo modello Unilav di cessazione, potrebbe discendere unicamente da un accertamento negativo dello stesso ispettorato, investito dalla comunicazione, ovvero da un’azione giudiziaria del lavoratore che, secondo quanto previsto proprio dall’ultimo periodo del comma 7 bis, dimostri l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza.

Altra questione attiene alla circostanza per cui il giudice, ai fini delle dimissioni di fatto, sembra attribuire valore ai giorni di assenza previsti dal CCNL ai fini disciplinari, peraltro inferiori al termine legale di 15 giorni.

Invero il Ministero, con circolare n. 6/2025, ha sostenuto la necessità che il CCNL preveda una norma che individui una durata di assenza ingiustificata con valore dimissionario, non potendo mutuare quanto stabilito al diverso fine disciplinare, sottolineando, inoltre, che il CCNL non può derogare in peius, fissando un termine inferiore ai 15 giorni.

Peraltro, proprio in relazione al perfezionamento del termine utile alla fattispecie dimissionaria, lo stesso giudice, pur richiamando la disposizione contenuta nel CCNL a fini disciplinari, sottolinea come nessun argomento contrario è stato svolto dalla società convenuta nella propria memoria di costituzione. Infine, una menzione merita anche il passaggio della sentenza nella parte in cui afferma che “il concetto di assenza in tanto può avere un senso in quanto vi sia un obbligo, contrario, di presenza: invece, sarebbe contraddittorio e privo di senso parlare di assenza dal lavoro in riferimento a giorni festivi o comunque non lavorativi”.

In tal modo, pertanto, il giudice sembra aderire a un conteggio dei giorni di assenza non di calendario ma di effettivo lavoro.

Corte di Cassazione, ordinanza 23 giugno 2025, n. 16839.

Contitolarità del rapporto di lavoro e responsabilità solidale.

La Corte d’Appello aveva accertato la contitolarità tra due società del rapporto di lavoro di un dirigente, ritenuto fraudolentemente imputato a una sola di esse e, nonostante il licenziamento intimato dalla società apparentemente datrice, aveva dichiarato la prosecuzione del rapporto con l’altra.

La Cassazione, accogliendo il ricorso della società da ultimo indicata, afferma che: la codatorialità, la quale prescinde dalla natura simulata o fraudolenta del fenomeno del collegamento tra imprese, determina la responsabilità solidale tra i diversi codatori che utilizzano contemporaneamente la prestazione dei medesimi dipendenti, ma non dà luogo ad alcuna duplicazione dell’obbligazione lavorativa, né sotto il profilo retributivo né sotto quello della titolarità del rapporto; in presenza di una pluralità di codatori il lavoratore deve impugnare il licenziamento intimato da uno di essi nei confronti di tutti i soggetti che esercitano poteri datoriali: in mancanza, non opera la solidarietà e il rapporto deve intendersi risolto; la Corte territoriale ha errato nel ritenere che il rapporto prosegua con la sola società non autrice del licenziamento, trascurando il fatto che l’impugnazione non era stata estesa a tutti i codatori.

Corte di Cassazione, sentenza 23 giugno 2025, n. 16773.

Ferie non godute nelle società in house.

Il dipendente di una società in house aveva chiesto la condanna della datrice a pagargli l’indennità sostitutiva di ferie non godute nel corso del rapporto di lavoro, ottenendola dal Tribunale, con la motivazione che le restrizioni alla monetizzazione delle ferie stabilite in Italia per i pubblici dipendenti vanno disapplicate perché in contrasto col diritto comunitario; e dalla Corte d’Appello con la motivazione che tali disposizioni non si applicano al rapporto di lavoro con le società in house, che rimane privato.

Respingendo il ricorso della società contro quest’ultima sentenza, la Cassazione chiarisce che: l’ultimo approdo della giurisprudenza in materia di indennità sostitutiva delle ferie non godute, maturata nel dialogo tra le Corti, afferma l’incomprimibilità del diritto alle ferie retribuite, cui è inscindibilmente connesso il diritto all’indennità sostitutiva in caso di mancata fruizione per cause non imputabili al lavoratore, riconoscendone la natura fondamentale e inderogabile; tale giurisprudenza si è sviluppata con riferimento a fattispecie riguardanti datori di lavoro pubblici, per i quali possono operare limiti organizzativi e vincoli di spesa pubblica: nel caso concreto, invece, la natura privatistica della società in house esclude ogni possibilità di limitare il diritto del lavoratore all’indennità; le società in house, infatti, pur sottostando a controlli pubblici e vincoli contabili, restano soggetti formalmente e sostanzialmente privati nei rapporti di lavoro: ad esse non si applicano le norme del pubblico impiego salvo specifiche deroghe previste dalla legge.

Corte di Cassazione, ordinanza 17 giugno 2025, n. 16358.

Licenziamento con più addebiti: l’infondatezza di uno non esclude di per sé la giusta causa.

Una soprano, dipendente di una Fondazione lirico sinfonica, era stata licenziata per giusta causa sulla base di due distinti addebiti disciplinari: l’allontanamento in due occasioni dal domicilio durante le fasce di reperibilità in periodo di malattia e la partecipazione, senza autorizzazione, a una cerimonia religiosa dove

aveva cantato in un coro.

La Corte d’Appello, concentrando il proprio esame esclusivamente sul secondo episodio, ne aveva escluso la rilevanza disciplinare, disponendo la reintegrazione della dipendente.

La Cassazione, cassando con rinvio la sentenza, chiarisce che: in presenza di un licenziamento per giusta causa fondato su una pluralità di condotte, ogni addebito conserva autonoma rilevanza, salvo che la parte che vi ha interesse provi che solo la loro valutazione congiunta può giustificare la cessazione del rapporto; nel caso in esame, la Corte territoriale ha omesso ogni valutazione dell’addebito pacificamente accertato relativo agli allontanamenti durante le fasce di reperibilità.

Il giudice del rinvio dovrà quindi esaminare anche questo profilo per verificare se, da solo, fosse sufficiente a legittimare il licenziamento.

Tribunale di Roma, 17 giugno 2025.

È ritorsiva la revoca delle facilitazioni di viaggio ai dipendenti che facciano valere i propri diritti nei confronti della parte datoriale.

Il Tribunale ha accolto il ricorso dei lavoratori di una compagnia aerea che si erano visti sospendere le facilitazioni di viaggio per aver intentato una causa contro il datore di lavoro.

La compagnia aveva agito in base a un proprio Regolamento che prevedeva espressamente la revoca delle agevolazioni in caso di giudizio azionato dal dipendente nei confronti della Società.

Il Giudice ha annullato la revoca delle agevolazioni di viaggio, riconoscendone la natura manifestamente ritorsiva, sorretta da motivo illecito unico e determinante; la condotta datoriale ha configurato un’ingiusta e arbitraria reazione a un comportamento dei lavoratori non solo legittimo, ma addirittura espressione di un diritto avente rango costituzionale.

È stata invece esclusa la sussistenza di una discriminazione, perché la prassi aziendale ha interessato indistintamente tutti i lavoratori che abbiano proposto un giudizio nei confronti della società, mancando un “termine di confronto”, ossia la dimostrazione che un soggetto abbia subito un trattamento difforme rispetto ad altri che si trovavano nelle medesime condizioni.

Corte di Cassazione, ordinanza 15 giugno 2025, n. 16019.

Non discriminatoria l’indennità di maternità se l’INPS applica un criterio poi superato dalla giurisprudenza.

Immagine che contiene interno, persona, vestiti, Viso umano

Il contenuto generato dall'IA potrebbe non essere corretto.La Corte d’Appello aveva ritenuto discriminatoria per la donna in gravidanza la condotta dell’INPS e del datore di lavoro relativa all’erogazione a un’assistente di volo dell’indennità di maternità in misura ridotta per il mancato computo della metà dell’indennità di volo, superando in tal modo un’eccezione di decadenza riferibile alle sole controversie previdenziali.

La Cassazione accoglie il ricorso dell’INPS e chiarisce che: il trattamento effettuato costituiva il frutto di una interpretazione della relativa legge corrente al momento dell’erogazione e solo successivamente mutato; non può configurarsi una discriminazione diretta ex art. 25, co. 2 bis, D.Lgs. n. 198/2006 in assenza di un trattamento deteriore riconoscibile come tale già al momento della sua applicazione di conseguenza, esclusa la discriminazione, la domanda della lavoratrice va ritenuta diretta alla riliquidazione di una prestazione previdenziale e, come tale, soggiace al regime di decadenza previsto dall’art. 47 D.P.R. n. 639/1970, la cui eventuale ricorrenza va accertata dal giudice di rinvio.

Cassazione, ordinanza 15 giugno 2025, n. 15987.

Comunicazione del licenziamento tra presunzione di conoscenza e prova contraria.

Un dipendente pubblico aveva impugnato tardivamente il licenziamento per inidoneità assoluta e permanente comunicatogli dal Comune datore di lavoro, sostenendo di non aver potuto rispettare il termine per l’impugnazione perché non era venuto a conoscenza della lettera di recesso, ricevuta presso la propria abitazione dalla madre convivente che, per tutelarlo psicologicamente, non gliel’aveva comunicata. Tribunale e Corte d’Appello avevano dichiarato inammissibile il ricorso per intervenuta decadenza, ritenendo perfezionata la presunzione di conoscenza legale ex art. 1335 c.c. al momento della ricezione dell’atto da parte del familiare.

La Cassazione conferma la decisione di merito ribadendo che: la presunzione di conoscenza dell’atto recettizio si fonda sull’equivalenza giuridica tra conoscenza e conoscibilità dell’atto, purché regolarmente ricevuto al domicilio del destinatario; tale presunzione può essere superata solo con prova contraria oggettiva, relativa a circostanze estranee alla volontà del destinatario che abbiano impedito l’effettiva possibilità di venire a conoscenza dell’atto; nel caso di specie, il lavoratore non ha offerto elementi istruttori sufficienti a dimostrare l’esistenza di impedimenti oggettivi alla conoscibilità della lettera di licenziamento.

Tribunale Napoli Nord, Sez. lav., sentenza 16 aprile 2025, n. 1758.

Legittimo il licenziamento con trasmissione del Modello Unilav via WhatsApp?

Il Tribunale di Napoli Nord, con la sentenza n. 1758 del 16 aprile 2025, ha affrontato la questione della validità del licenziamento comunicato tramite WhatsApp, con allegato il modello Unilav. Il giudice ha stabilito che la comunicazione del licenziamento, anche se effettuata attraverso strumenti informatici come WhatsApp, soddisfa il requisito della forma scritta previsto dall’art. 2 della L. n. 604/1966, purché la comunicazione contenga le generalità delle parti, gli estremi del rapporto di lavoro, la data e la

motivazione del recesso, e sia effettivamente portata a conoscenza del lavoratore.

La sentenza sottolinea che la ricezione e la conoscenza da parte del lavoratore sono elementi essenziali per la validità della comunicazione, e che la trasmissione del modello Unilav tramite WhatsApp, se non contestata e seguita da una reazione del lavoratore, integra pienamente i requisiti di legge.

La decisione si inserisce in un orientamento giurisprudenziale che riconosce la validità delle comunicazioni di licenziamento effettuate con mezzi informatici, purché garantiscano certezza e trasparenza nella manifestazione della volontà datoriale.

Corte d’Appello di Torino, sentenza n. 150 del 17.03.2025.

Costituisce giusta causa di licenziamento la condotta del dipendente che bacia sulla bocca una collega contro la sua volontà, anche se la stessa non si attiva immediatamente per segnalare il comportamento del molestatore.

Il dipendente impugna giudizialmente il licenziamento irrogatogli per aver abbandonato il posto di lavoro a causa dello stato di ebrezza conseguente alla partecipazione alla festa di pensionamento di un collega e per avere, nella stessa occasione, molestato fisicamente un’altra collega.

Il Tribunale accoglie la predetta domanda, non ritenendo provata la giusta causa di recesso a fronte dell’inattendibilità dei testi escussi. La Corte d’Appello di Torino, censurando l’impugnata pronuncia di merito, rileva che il comportamento tenuto da una vittima di molestie a sfondo sessuale successivamente all’evento non può in alcun modo inficiare la veridicità dello stesso. In particolare, secondo i Giudici, a nulla rileva che la vittima, come nel caso di specie, non abbia subito chiesto aiuto al personale di sorveglianza ed abbia avvisato la società qualche giorno dopo l’accaduto invece che nell’immediato.

Per la sentenza, infatti, una persona molestata può avere mille ragioni per non attivarsi (subito) contro il molestatore e per non denunciarlo penalmente, per esempio per evitare ulteriori noie o per non sopportare il rischio di non essere creduta, senza che ciò escluda la gravità dell’evento.

Su tali presupposti, la Corte d’Appello di Torio accoglie il ricorso della società, affermando la legittimità del licenziamento dalla stessa irrogato.

NEWSLETTER PRIVACY 7/2025

Diffamazione on line: internet non è una zona franca.

In caso di diffamazione commessa con il mezzo telematico, al fine di individuare l’autore del messaggio, vanno disposte ricerche sulle informazioni personali eventualmente presenti nei profili social, nonché acquisire i dati di traffico telematico.

Sempre in materia di diffamazione, il termine “nazista” non può essere considerato una forma di manifestazione di un pensiero critico che, per quanto discutibile sarebbe comunque legittimo in un dibattito democratico. Tale espressione costituisce invece uno sfregio alla verità oggettiva e rappresenta la più infamante delle offese per la reputazione di chi ha speso la propria vita per testimoniare gli orrori del regime e per coltivare la memoria dell’Olocausto. Così ha deciso il Tribunale di Milano, Ufficio indagini preliminari, con ordinanza del 28 aprile 2025.

La vicenda oggetto del provvedimento ha avuto una larga eco mediatica: con numerosi messaggi pubblicati su varie piattaforme web sono stati rivolti numerosi messaggi gravemente offensivi nei confronti di una Senatrice a vita della Repubblica Italiana.

Il procedimento trae origine da 27 querele, successivamente riunite, con cui sono stati portati all’attenzione dell’Autorità Giudiziaria 246 messaggi diffamatori, pubblicati su vari social media. Il pubblico ministero, tuttavia, ha presentato la richiesta di archiviazione fondata su alcune osservazioni che possono essere riassunte nei

seguenti termini:

  1. per un gruppo di messaggi è stato possibile identificare l’autore e gli scritti sono stati ritenuti offensivi, ma non diffamatori;
  2. per alcuni post non è stato possibile individuare l’autore, in quanto l’Internet Service Provider che regola il social media, in cui è stato pubblicato il messaggio, non ha comunicato, benché richiesto, all’Autorità Giudiziaria, l’IP da cui sono stati inviati i messaggi.

Il giudice per le indagini preliminari, con il provvedimento in esame, ha fornito le coordinate entro cui iscrivere i diversi messaggi, adottando i conseguenti provvedimenti, che spaziano dall’archiviazione per quei messaggi diffamatori i cui autori sono rimasti ignoti, alla disposizione di ulteriori indagini al fine di identificare gli autori dei post diffamatori, all’ordine di formulare l’imputazione, laddove sia possibile attribuire il messaggio diffamatorio ad un autore. Va registrato il rilievo fondamentale su cui poggia l’intero provvedimento: il web non può rappresentare «un terreno franco dove ogni insulto e dove la reputazione egli individui può essere calpestata impunemente». Alla luce di tale osservazione, quindi, il giudice ha ordinato al pubblico ministero di completare le indagini, individuando l’autore dei messaggi che si risolvono in gratuiti attacchi personali alla persona offesa, anche attraverso l’epiteto “nazista”. Se tale espressione – ha osservato il giudice – può essere considerata una forma di manifestazione di un pensiero critico che, per quanto discutibile, sarebbe comunque legittimo nel dibattito democratico, costituisce invece «uno sfregio alla verità oggettiva e rappresenta la più infamante delle offese per la reputazione» della persona offesa che ha speso la propria vita per testimoniare gli orrori del regime e per coltivare la memoria dell’Olocausto.

La seconda parte del provvedimento che merita attenzione da parte dell’interprete riguarda i messaggi diffamatori che provengono dalle piattaforme quali Facebook, Instagram, Google, Twitter e Telegram, per i quali non è stato possibile individuare l’autore, in quanto gli Internet Service Provider non hanno risposto all’Autorità Giudiziaria. Come infatti osservato nelle motivazioni del provvedimento in esame, questi Internet Service Provider, avendo la sede legale Oltreoceano, non ritengono di essere assoggettati alla disciplina continentale di discovery e di data retention dei file di log.

Il giudice non ha ritenuto percorribile neppure la strada della cooperazione giudiziaria tramite il sistema delle rogatorie, rilevando che il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti d’America (DOJ) non presta la richiesta di collaborazione per l’identificazione degli autori del reato di diffamazione, ma solo per fatti configurabili come grave espressione di minaccia reale o come istigazione o propositi di un’azione illegale imminente. Ed infatti, qualora i messaggi pubblicati nel web abbiano contenuto diffamatorio, il DOJ, di regola, ritiene prevalente la libertà di manifestazione di pensiero e la libertà di stampa garantiti dal Primo Emendamento della Costituzione

americana, con la conseguente rigetto della richiesta di assistenza giudiziaria.

Il giudice, quindi, ha ordinato lo svolgimento di indagini finalizzate ad acquisire informazioni personali per quelle piattaforme, come Facebook, Twitter e Instagram, dove l’utente registra il proprio profilo come reale, inserendo altresì numerose informazioni personali, escludendo invece Telegram, dove tali informazioni non sono reperibili.

Ecosistema Dati Sanitari (EDS): innovazione digitale nel rispetto della privacy .

L’Ecosistema Dati Sanitari (EDS) rappresenta un sostegno del processo di digitalizzazione del sistema sanitario nazionale e si configura come un sistema integrato che raccoglie, elabora e rende disponibili dati sanitari provenienti da diverse fonti in modo strutturato e sicuro. L’EDS è parte del più ampio sistema del Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE) e ne completa le funzionalità, consentendo l’utilizzo dei dati sanitari per diverse finalità predeterminate.

L’EDS è stato istituito con il Decreto del Ministero della Salute del 31 dicembre 2024, in attuazione dell’articolo 12, comma15 quater del D.L. 179/2012 (convertito con la L. 221/2012).

E prevede la realizzazione di un ecosistema di dati finalizzato a garantire il coordinamento informatico e assicurare servizi omogenei sul territorio nazionale.

Il Ministero della Salute, d’intesa con la struttura della Presidenza del Consiglio competente per l’innovazione tecnologica, cura la realizzazione dell’EDS, mentre la gestione operativa è affidata all’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (Agenas).

Gli obiettivi principali dell’EDS sono:

  • garantire un coordinamento informatico dei dati sanitari a livello nazionale, assicurando servizi omogenei su tutto il territorio;
  • consentire l’elaborazione dei dati per diverse finalità (cura, prevenzione, profilassi internazionale, governo, ricerca scientifica);
  • supportare il processo decisionale clinico e amministrativo, migliorando contestualmente la qualità delle cure e l’efficienza del sistema sanitario.

Nel contesto descritto è importante comprendere la differenza che sussiste tra il Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE) e l’Ecosistema Dati Sanitari (EDS).

Mentre il FSE raccoglie e conserva i documenti sanitari agli assistiti (quali possono essere referti, lettere di dimissione e prescrizioni), l’EDS estrae, valida ed elabora i dati contenuti in questi documenti, consentendone un utilizzo più avanzato e granulare.

L’EDS non duplica, quindi, i documenti presenti nel FSE, ma ne estrae le informazioni rilevanti, garantendo la tracciabilità del dato al documento originale.

Le unità di archiviazione per dati in chiaro contengono dati identificabili degli assistiti.

È previsto che tali unità siano create una per ciascuna regione e provincia autonoma e una per i Servizi di Assistenza Sanitaria al personale Navigante (SASN).

L’unità di archiviazione per dati pseudonimizzati conserva dati codificati, privi di elementi identificativi diretti, sostituiti da codici. L’unità di archiviazione per dati anonimi registra dati completamente anonimizzati utilizzabili per ricerca e analisi statistica.

Il flusso di informazioni che alimenta l’EDS prevede che le strutture sanitarie e sociosanitarie del SSN trasmettano i dati attraverso le soluzioni tecnologiche fornite da Agenas, che garantiscono la validazione e standardizzazione dei medesimi.

L’impianto dell’EDS è strutturato, infatti, in maniera che i dati condivisi con l’ecosistema mantengano sempre la riconducibilità al documento originale presente nel FSE, garantendo il pieno allineamento con quest’ultimo.

Ogni operazione compiuta sul FSE (quale oscuramento, rettifica o cancellazione di un documento) si riflette anche nei dati da questo estratti e condivisi mediante EDS.

I dati conservati sull’EDS sono cancellati trascorsi trent’anni dal decesso dell’assistito ad opera del Ministero della salute che provvede, a tale operazione, con periodicità annuale.

Il sistema EDS è stato progettato per supportare diverse finalità, ciascuna caratterizzata da specifiche modalità di accesso e tipologie di dati disponibili, garantendo, in tal modo, la tutela dei dati personali degli interessati.

Nel contesto della cura del paziente, l’EDS si rivela uno strumento di supporto all’attività di cura per i professionisti. Medici convenzionati, strutture sanitarie e sociosanitarie del SSN, nonché tutti gli esercenti le professioni sanitarie possono accedere ai dati in chiaro, previa acquisizione del consenso dell’assistito. Tale accesso, subordinato alla dichiarazione che il processo di cura è in corso, permette di consultare dati di sintesi, il dossier farmaceutico e visualizzare l’andamento dei parametri clinici.

Un valore aggiunto è rappresentato dal supporto alla compilazione del Profilo Sanitario Sintetico, strumento essenziale per la continuità assistenziale.

La prevenzione costituisce un altro ambito di applicazione fondamentale dell’EDS.

Gli attori coinvolti dai soggetti del Servizio Sanitario Nazionale agli uffici regionali competenti in materia di prevenzione sanitaria possono, sempre previo consenso dell’interessato, estrarre e analizzare dati per pianificare attività preventive, identificare andamenti anomali e valutare casi sospetti di patologie infettive, contribuendo così a una gestione proattiva della salute pubblica.

Sul fronte della profilassi internazionale, il Ministero della Salute, attraverso la Direzione generale competente, può accedere ai dati in chiaro per monitorare l’emergere di nuovi patogeni, sintomatologie sconosciute, fattori di rischio e fenomeni di farmacoresistenza.

Anche in questo caso, il consenso dell’assistito rappresenta la base giuridica per l’accesso ai dati.

Infine, nel campo della ricerca scientifica, l’EDS offre la possibilità di accedere al patrimonio informativo dei dati sanitari in forma anonima.

Tale facoltà è prevista per il Ministero della Salute, l’Agenas, le regioni e gli enti di ricerca, sia pubblici che privati. A quest’ultimi, la possibilità di accesso è subordinata all’autorizzazione dell’Agenas, a cui deve essere presentata una richiesta di estrazione di dati anonimizzati, corredata da un relativo progetto di ricerca redatto conformemente alle regole metodologiche, etiche e deontologiche per trattamenti compiuti per fini statistici e di ricerca scientifica.

La normativa rinvia, poi, a successivo decreto del Ministero della salute l’adozione di specifiche disposizioni per l’attivazione di appositi servizi dell’EDS che consentono trattamenti dei dati personali per le finalità di studio e ricerca scientifica in campo medico, biomedico ed epidemiologico, nel rispetto delle garanzie di cui all’art. 89 del regolamento.

L’EDS opera nel rispetto della normativa sulla protezione dei dati personali, indicando il consenso quale base giuridica del trattamento per i dati accessibili in chiaro e prevedendo, in ottemperanza di ciò, meccanismi per la gestione dei consensi.

Gli interessati devono, infatti, esprimere un consenso esplicito, libero e informato per autorizzare l’elaborazione dei propri dati mediante l’EDS.

Per assicurare una comunicazione omogenea dell’informativa al trattamento dati per EDS, il Ministero della Salute, in collaborazione con le regioni e le province autonome, ha il compito di integrare il modello di informativa relativo al FSE (già definito dall’articolo 7, comma 4 del decreto ministeriale del 7 settembre 2023) con i trattamenti compiuti attraverso l’ecosistema.

I consensi al trattamento dati possono essere espressi in modo disgiunto dagli assistiti in riferimento alle singole finalità, garantendo così un controllo granulare sui propri dati sanitari.

L’eventuale revoca comporta, quindi, la disabilitazione allo specifico servizio dell’EDS per cui si nega il trattamento.

Gli assistiti possono esprimere i propri consensi per via telematica, accedendo al FSE.

Parallelamente, le regioni e le province autonome sono tenute a garantire e comunicare agli assistiti ulteriori modalità di espressione dei consensi, in base alle proprie strutture organizzative.

L’architettura dell’EDS regola, in ogni caso, meccanismi di tutela degli interessati in contesti di emergenza, ammettendo la possibilità agli operatori del SSN, dei servizi sociosanitari regionali e gli esercenti le professioni sanitarie di accedere ai dati anche in assenza di consenso esplicito per il tempo strettamente necessario alla cura dell’assistito.

L’EDS prevede, inoltre, che i servizi di accesso ai dati sanitari debbano garantire la trasparenza dei medesimi offrendo indicazioni dettagliate su chi e per quale ragione ha avuto accesso ai dati, in ottemperanza ai principi sanciti dal Regolamento UE 679/2016 (GDPR).

Tramite l’EDS gli interessati possono, infatti, visualizzare l’elenco degli accessi compiuti e ricevere notifiche in caso di consultazione dei propri dati.

Gli assistiti possono esercitare i propri diritti in materia di privacy (quali il diritto di rettifica, cancellazione e limitazione ai dati) accedendo al FSE e operando sui documenti ivi conservati.

Le azioni compiute vengono, così, automaticamente riportate sui dati presenti nell’ecosistema.

I servizi dell’Eds saranno attivi entro il 31 marzo 2026 e, comunque, non prima della completa attuazione della disciplina sul FSE 2.0.

Dati sensibili usati per fini personali: scatta il licenziamento per giusta causa.

La Corte d’appello di Milano, con la sentenza n. 302 del 24 aprile 2025, conferma la sentenza del Giudice di prime cure confermando la legittimità del licenziamento per giusta causa comminato ad un dipendente, addetto allo smistamento della posta interna aziendale che, approfittando del proprio ruolo, si era appropriato del numero di telefono indicato nel curriculum vitae di una candidata per contattarla per scopi del tutto estranei all’attività lavorativa.

Nell’ottobre del 2023 un dipendente di una Società, addetto alla ricezione e smistamento della posta interna aziendale, riceveva una lettera di contestazione disciplinare per aver acquisito illecitamente, dal curriculum vitae consegnato da una giovane donna presso una delle sedi aziendali per candidarsi all’assunzione, il numero di telefono cellulare privato della suddetta, poi contattata via whatsapp veniva quindi contestata al lavoratore la violazione delle norme di legge, di contratto, di regolamento in materia di privacy e delle disposizioni aziendali in relazione al comportamento da tenere sul luogo di lavoro, oltre che di aver tenuto condotte lesive dell’immagine e reputazione aziendale. Il lavoratore nella propria lettera di giustificazioni confermava il fatto storico contestato, ma respingeva ogni addebito, ritenendo il proprio comportamento privo di rilievo disciplinare. All’esito del procedimento disciplinare l’azienda procedeva al licenziamento per giusta causa del lavoratore. Il Lavoratore impugnava pertanto il licenziamento, contestando la sproporzione tra la condotta contestata, a sua detta priva di disvalore tale da giustificare il recesso. Il Giudice di prime cure respingeva il ricorso, ritenendo che la condotta tenuta dal lavoratore sottoposte alla sua valutazione fosse “del tutto idonea a concretizzare una grave violazione degli obblighi di diligenza”. Concludeva pertanto il Tribunale di Milano la propria motivazione in questi termini un siffatto uso dei dati personali della candidata, da parte di un soggetto adeguatamente formato in materia di privacy nonché consapevole del trattamento da riservare agli stessi, non può che avere una significativa valenza negativa, traducendosi in lesione irreparabile del vincolo fiduciario.

La Corte d’appello di Milano, all’esito del giudizio di appello, rigetta il ricorso confermando le motivazioni del giudice di prime cure, ritenendo sussistente la giusta causa di licenziamento e la sanzione espulsiva adottata dall’azienda proporzionata rispetto alla gravità dei fatti contestati e non contestati nella loro materialità dal ricorrente. La Corte d’appello fonda in particolare la propria decisione su tre argomentazioni principali, conformi ai più recenti e maggioritari orientamenti giurisprudenziali in tema di licenziamento disciplinare: in particolare infatti in questa sentenza la Corte ritiene necessario valutare con attenzione l’elemento soggettivo della fattispecie, pertanto le peculiarità proprie del lavoratore, le mansioni in concreto svolte, il ruolo rivestito, le sue conoscenze e la sua formazione, le responsabilità a lui affidate dalla Società. Inoltre la Corte, nel valutare se il comportamento del lavoratore potesse essere qualificato, secondo la declaratoria contrattuale, quale giusta causa di recesso, applica il principio, più volte ribadito dalla giurisprudenza della Suprema corte, dell’autonomia del Giudice del merito nel determinare la gravità del comportamento illecito sottoposto al suo apprezzamento, anche al di fuori dell’elencazione delle ipotesi previste dalla contrattazione collettiva quale giusta causa, elencazione che deve ritenersi meramente esemplificativa (contrariamente a quanto invece è previsto per le sanzioni conservative). Infine, ricorda la Corte d’appello che ai fini della valutazione della proporzionalità tra la sanzione adottata e il comportamento contestato al lavoratore il Giudice del merito, anche in assenza di apposita contestazione da parte del datore di lavoro della recidiva di comportamento, abbia comunque facoltà di considerare anche i precedenti procedimenti disciplinari condotti nei confronti del lavoratore da cui il datore di lavoro avrebbe potuto desumere elementi importati in relazione alla futura affidabilità del dipendente. Afferma quindi in primo luogo la Corte meneghina che, ai fini della valutazione della sussistenza dei requisiti della giusta causa di licenziamento, la condotta tenuta dal lavoratore debba essere necessariamente valutata nel suo complesso. Così operando, osserva la Corte che nel caso di specie i motivi di particolare gravità, tali da ritenere fondata l’intimata giusta causa di recesso, possano desumersi da diversi elementi: in primo luogo, dal fatto che in considerazione delle mansioni svolte (e non contestate) il lavoratore aveva libero accesso a molteplici informazioni e dati personali; dalle svariate violazioni della normativa in tema di trattamento dei dati personali e delle precise disposizioni aziendali ricevute sul tema nel 2020; dalla formazione specifica che la Società aveva assegnato al lavoratore in materia di privacy, inviato a partecipare a periodici corsi di aggiornamento; dalla conseguente consapevolezza che il lavoratore doveva necessariamente avere dell’illiceità della condotta tenuta. La Corte d’appello, aderendo integralmente alla decisione assunta dal Tribunale di Milano nell’impugnata sentenza, ritiene inoltre che il lavoratore, utilizzando il numero di telefono personale della candidata a scopi esclusivamente personali, avesse anche palesemente violato le disposizioni aziendali che imponevano che i dati personali da lui acquisiti nell’esercizio delle proprie mansioni venissero utilizzati esclusivamente al fine di compiere i compiti attribuitigli dal datore di lavoro, quali la gestione e smistamento della posta. Il fatto che proprio un lavoratore adeguatamente formato in materia di privacy avesse fatto un uso così improprio di dati personali di una candidata non poteva quindi che rivestire una valenza particolarmente negativa, tradotta in una lesione grave ed irreparabile del vincolo fiduciario. Argomenta quindi la Corte meneghina “la specificità della mansione e la durata ultraventennale del rapporto di lavoro alle dipendenze della società rendono ancor più intollerabile la condotta posta in essere dal dipendente la violazione degli obblighi del lavoratore si è infatti realizzata nel momento in cui ha utilizzato il numero di telefono per finalità diverse da quelle per le quale era stato comunicato dalla candidata e assolutamente estranee alle esigenze aziendali. La datrice di lavoro ha reputato la gravità della condotta sia in considerazione del peculiare elemento soggettivo, rapportato alla funzione ed al grado di fiducia attribuito al dipendente con la nomina a persona autorizzata al trattamento dei dati personali, sia in relazione al danno all’immagine ed alla reputazione della società”. In ragione pertanto delle suddette argomentazioni, conformi a consolidati e più recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di licenziamento disciplinare, la Corte d’appello di Milano conferma la sentenza del Tribunale di Milano e rigetta il ricorso.

L’Intelligenza Artificiale sbaglia, l’avvocato paga

La recente pronuncia resa nel Regno Unito dalla High Court of Justice rappresenta l’occasione per riflettere sui rapporti tra avvocatura e tecnologie, su come l’intelligenza artificiale potrà cambiare la professione forense.

Il provvedimento è stato pronunciato dalla High Court of Justice King’s Bench Division, Administrative Court nella causa promossa dal signor F. A. contro il London Borough of Haringey. L’Alta Corte ha accertato che nel ricorso per “judicial review” proposto dal signor Ayinde erano stati inseriti cinque precedenti giurisprudenziali inesistenti, non verificati da parte dei difensori che li avevano citati. Il giudice inglese ha qualificato tale condotta come impropria, irragionevole e negligente, ipotizzando un uso non controllato di strumenti di intelligenza artificiale e disponendo un “wasted costs order” per l’importo complessivo di 4.000 sterline, oltre alla trasmissione della sentenza agli organi disciplinari competenti (Bar Standards Board e Solicitors Regulation Authority).

Il giudice inglese rileva, quindi, che sebbene non sia stato possibile acquisire la prova circa un effettivo utilizzo di strumenti basati sull’intelligenza artificiale nella redazione dell’atto è stato accertato in fatto che l’autrice dell’atto ha inserito riferimenti a precedenti giurisprudenziali la cui esistenza non è stata verificata con la dovuta diligenza, o che sono stati utilizzati con consapevole indifferenza rispetto alla loro veridicità. Ciò comporta una responsabilità personale piena e diretta, indipendentemente dallo strumento eventualmente impiegato nella redazione. Il punto centrale correttamente evidenziato dalla Corte non consiste nell’utilizzo o meno di uno strumento di intelligenza artificiale, che rappresenta una circostanza in sé neutra, ma nel fatto che sono stati citati dei casi giudiziari (inesistenti) senza averne verificato la fonte con la necessaria diligenza.

Al riguardo, si richiama l’attenzione alla “Carta dei Principi per un uso consapevole di strumenti di intelligenza artificiale in ambito forense”, recentemente adottata da parte dell’Ordine degli Avvocati di Milano, la quale prescrive il rispetto dei principi di legalità, correttezza, trasparenza e responsabilità.

In una prospettiva più ampia, anche la Commissione europea con la recente pubblicazione delle FAQ sull’AI Literacy in attuazione dell’art. 4 dell’AI Act ha chiarito gli obblighi per le società che sviluppano o utilizzano sistemi di intelligenza artificiale di garantire un adeguato livello di competenza in materia di AI a tutto il personale (dipendenti e collaboratori coinvolti nell’uso e nella gestione di tali tecnologie).

NEWSLETTER 7/2025

Novita’ normative

AEC 4 giugno 2025 Agenti e Rappresentanti di Commercio.

È stata sottoscritta l’ipotesi di rinnovo dell’Accordo Economico Collettivo (AEC) per gli Agenti e Rappresentanti di Commercio nel settore del commercio. L’accordo è stato firmato da Confesercenti e dalle principali organizzazioni di categoria, tra cui FNAARC, USARCI, FISASCAT, CISL, UILTUCS, UIL e FILCAMS, CGIL. L’intesa entrerà in vigore dal 1 luglio 2025 fino al 30 giugno 2029.

È stato inoltre chiarito che, per l’Agente di Commercio, il compenso previsto dal patto di non concorrenza come definito dal Codice Civile ha natura complementare rispetto alle indennità previste dalla normativa e dall’AEC, e non può essere da esse assorbito.

Tra i punti qualificanti dell’intesa, segnaliamo:

  • il rafforzamento della tutela degli agenti in caso di modifiche unilaterali da parte della casa mandante, relativamente a provvigioni, prodotti e clientela;
  • l’azienda mandante è inoltre tenuta a comunicare all’Agente tutte le informazioni utili allo svolgimento del mandato;
  • le modifiche alle disposizioni sul periodo di comporto e sugli anticipi provvisionali;
  • il compenso previsto per l’Agente di Commercio dal patto di non concorrenza ha natura complementare rispetto alle indennità previste dalla normativa e dall’AEC, e non può essere da esse assorbito;
  • il riconoscimento delle provvigioni anche sulle vendite di prodotti o servizi effettuate a consumatori privati attraverso il commercio elettronico;
  • al termine del mandato tutte le somme corrisposte dalla casa mandante in aggiunta alle provvigioni saranno computabili ai fini dei vari istituti contrattuali e legali: variazioni contrattuali, FIRR, indennità suppletiva di clientela, indennità meritocratica, indennità sostitutiva del preavviso e indennità per il patto di non concorrenza post contrattuale;
  • qualora il contratto di agenzia sia stipulato con una società di persone, l’indennità di fine rapporto sarà corrisposta anche nel caso venga meno la pluralità dei soci per scioglimento della società, pensionamento, invalidità o decesso;
  • l’aumento dei massimali per il calcolo del FIRR, migliorando sensibilmente l’importo riconosciuto al termine del mandato; dall’1 gennaio 2026 i limiti provvigionali per il calcolo delle indennità in caso di scioglimento del contratto saranno innalzati fino a 18mila euro per gli agenti senza esclusiva e fino a 36mila euro per quelli con esclusiva;
  • l’aggiornamento della normativa sulla gestione delle controversie, prevedendo l’intervento di apposite commissioni sindacali per la composizione delle vertenze tra agente e mandante. Per le controversie sulle indennità di fine rapporto, la conciliazione in sede sindacale potrà essere effettuata esclusivamente dalle associazioni di categoria firmatarie dell’AEC, anche attraverso le Commissioni Paritetiche Territoriali;
  • il riconoscimento al padre Agente di Commercio della facoltà di astenersi dall’attività fino a un massimo di 20 giorni entro cinque mesi dalla nascita o adozione del figlio, escludendo la possibilità per la casa mandante di procedere alla risoluzione del contratto, che resterà comunque sospeso.

Legge 15 maggio 2025, n. 76.

Partecipazione dei lavoratori agli utili d’impresa.

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Il contenuto generato dall'IA potrebbe non essere corretto.È stata pubblicata, nella Gazzetta Ufficiale n. 120 del 26 maggio 2025 la legge n. 76/2025.Si tratta di un provvedimento volto a disciplinare la partecipazione finanziaria, organizzativa e consultiva dei lavoratori alla gestione, all’organizzazione, ai profitti e ai risultati nonché alla proprietà delle aziende. In particolare, oltre ad individuare le modalità di partecipazione gestionale e di distribuzione degli utili, la legge prevede delle forme di incentivo fiscale per i lavoratori dipendenti privati, elevando a 5.000 euro lordi il limite dell’importo complessivo soggetto all’imposta sostitutiva nel caso di distribuzione di una quota degli utili di impresa non inferiore al 10% degli utili complessivi, effettuata in esecuzione di contratti collettivi aziendali o territoriali.

Il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti ha pubblicato, sulla Gazzetta Ufficiale n.125 del 31 maggio 2025, il Decreto 22 aprile 2025, tempi di guida e di riposo, con l’esenzione dall’obbligo di rispetto dei tempi di guida e di riposo nel settore dei trasporti stradali e dall’obbligo di dotazione ed uso dell’apparecchio di controllo.

Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 125 del 31 maggio 2025, il decreto 22 aprile 2025 del Ministero

delle Infrastrutture e dei Trasporti introduce deroghe ed esenzioni, in alcuni specifici settori lavorativi

che comportano l’intensivo utilizzo di automezzi per il trasporto stradale di beni e prodotti, dall’obbligo

di rispetto di limiti ai tempi di guida e di riposo e dall’obbligo di dotazione ed uso di apparecchi di controllo dei tempi e degli itinerari effettuati, previsto dal regolamento (UE) n. 165/2014.

Nello specifico, l’esenzione dal rispetto dei tempi di guida e di riposo e dell’utilizzo del tachigrafo riguarda:

  • i veicoli adibiti a scuola guida per l’ottenimento della patente di guida;
  • i veicoli speciali adibiti al trasporto di denaro o valori;
  • i veicoli utilizzati per il trasporto di animali vivi dalle fattorie ai mercati locali o viceversa, o dai mercati ai macelli locali, entro un raggio fino a 100 chilometri.

In particolare nel settore del trasporto valori, in cui operano dipendenti degli istituti di vigilanza, il decreto concede ai veicoli blindati adibiti al trasporto di denaro deroghe complete rispetto a due aspetti fondamentali della citata normativa europea (tempi di guida e riposo, cronotachigrafo), con il dichiarato obiettivo di potenziare la sicurezza e la rapidità nel servizio, adattando la regolamentazione alle esigenze operative reali del settore e rendendola coerente con la normativa speciale a cui sono soggette le guardie particolari giurate che espletano il servizio (DM 269/2010, Allegato D), che vieta soste intermedie diverse dalla destinazione di ritiro consegna dei valori.

Legge 7 aprile 2025 n. 56, in Gazzetta Ufficiale n. 95 del 24 aprile 2025

Lavoro intermittente: abrogato il regio decreto con l’elenco dei cd. lavori discontinui

Entrata in vigore lo scorso 9 maggio, la legge n. 56/2025 ha disposto l’abrogazione di oltre 30mila atti normativi prerepubblicani, relativi al periodo dal 1861 al 1946.

Tra i provvedimenti abrogati rientra anche il regio decreto n. 2567 del 6 dicembre 1923, che conteneva in allegato la tabella indicante le occupazioni che richiedono un lavoro discontinuo o di semplice attesa o custodia, alle quali non è applicabile la limitazione dell’orario sancita dall’articolo 1

del decreto legge n. 692/1923.

Come disposto dal decreto del Ministero del Lavoro 23 ottobre 2004, la stipulazione di contratti di lavoro intermittente è ammessa con riferimento alle tipologie di attività indicate nella tabella allegata al citato regio decreto, salvo diversa previsione della contrattazione collettiva e in attesa delle determinazioni ivi contemplate.

Pertanto alla luce dell’abrogazione del regio decreto 2657/1923 non può più ritenersi valida la tabella ad esso allegata e, con essa, le relative attività che consentono la stipula del contratto di lavoro intermittente al di fuori delle ipotesi identificate dalla contrattazione collettiva e dei soggetti di cui al comma 2, articolo 13, del decreto legislativo n. 81/2015, ovvero lavoratori con meno di 24 anni di età, purché le prestazioni lavorative siano svolte entro il venticinquesimo anno, e con più di 55 anni.

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la nota n.616 del 3 aprile 2025 anticipo del TFR.

L’INL Ispettorato Nazionale del Lavoro ha recentemente emanato una nota, con la quale ha fornito alcuni chiarimenti in merito alla legittimità della prassi, riscontrata dal personale ispettivo, di anticipo mensile del TFR in busta paga.

Nello specifico, l’Ispettorato, dopo aver ricordato che l’ultimo comma dell’art. 2120 c.c. rimanda alla contrattazione collettiva o ai patti individuali l’introduzione di condizioni di miglior favore relative all’accoglimento delle richieste di anticipazione dell’accantonamento maturato del TFR, evidenzia che ciò non può avere ad oggetto un mero automatico trasferimento in busta paga del rateo mensile che, a questo punto, costituirebbe una mera integrazione retributiva con conseguenti ricadute anche sul piano contributivo.

Tale operazione, peraltro, sembrerebbe contrastare con la stessa ratio dell’istituto del TFR che è quella di assicurare al lavoratore un supporto economico al termine del rapporto di lavoro.

Laddove si ravvisino le descritte ipotesi di anticipazione, il personale ispettivo dovrà intimare al datore di lavoro di accantonare le quote di TFR illegittimamente anticipate

Novita’ GIURISPRUDENZIALI

Corte di cassazione ordinanza n. 15549/2025.

È legittima la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione del lavoratore che, in un unico episodio, abbia rivolto molestie sessuali verbali nei riguardi di una collega sul posto di lavoro, arrecando a quest’ultima un pesante disagio.

Nel caso in questione, il dipendente aveva rivolto in modo intenzionale delle frasi a sfondo sessuale ad una lavoratrice, confermate da altri lavoratori: come conseguenza, l’azienda aveva irrogato contro di lui la sanzione disciplinare della sospensione da lavoro e retribuzione per otto giorni.

Corte di cassazione, sentenza 10 giugno 2025, n. 15513.

Efficacia del licenziamento per G.M.O. nella legge Fornero.

Un dipendente aveva presentato domanda di congedo straordinario biennale per assistere la madre disabile in data 8 febbraio 2019, lo stesso giorno in cui si era conclusa con esito negativo la procedura di tentativo di conciliazione avviata dal datore di lavoro in vista del suo licenziamento per giustificato motivo oggettivo, comunicato a far data dall’8 febbraio con esonero dal preavviso, al lavoratore a mezzo lettera del 9, ricevuta l’11.

Avendo l’INPS respinto la domanda per inesistenza del rapporto di lavoro, cessato il 7, il lavoratore aveva promosso causa al datore, sostenendo che il rapporto era cessato l’11. La cassazione, procedendo ex professo all’interpretazione della norma di cui al comma 41 dell’art. 1 della legge n.

92/12, rileva come alla stregua della stessa occorra distinguere il momento della rilevanza giuridica del licenziamento, stabilito nel giorno della comunicazione iniziale dell’intenzione di recedere, dal momento dell’effetto estintivo del rapporto, che è influenzato dalle eventuali determinazioni del datore di lavoro, relative, come indicato dalla stessa legge, alla concessione di ferie durante la procedura o alla lavorazione del preavviso.

Nel caso in giudizio, emerge dagli atti che il datore aveva collocato il lavoratore in ferie fino alla data del’8 febbraio, alla quale pertanto il rapporto era ancora in essere e la domanda di congedo straordinario era da considerarsi tempestiva.

Corte di cassazione, ordinanza 9 giugno 2025, n. 15326.

Patto di prova e specificità delle mansioni: è sufficiente il richiamo al profilo del CCNL?

Una lavoratrice aveva impugnato il licenziamento per mancato superamento del periodo di prova, sostenendo l’invalidità del patto per difetto di specifica indicazione delle mansioni nel contratto di lavoro. La cassazione, respingendo il ricorso della dipendente avverso il rigetto delle domande, ribadisce i principi elaborati nella materia, osservando che: il patto di prova è valido solo se contiene la specifica indicazione, anche per relationem, delle mansioni oggetto dell’esperimento; l’indicazione può validamente avvenire anche tramite il rinvio al profilo professionale previsto dal contratto collettivo, purché sufficientemente dettagliato e non limitato alla generica descrizione della categoria; nel caso di specie, la corte d’appello ha ritenuto, in maniera incensurabile in sede di legittimità, che il riferimento al profilo contrattuale fosse specifico, essendo riconducibile a un mansionario preciso e noto alle parti.

Corte di Cassazione, ordinanza 5 giugno 2025 n. 15054.

Il pagamento tardivo della retribuzione non proroga l’obbligo contributivo.

In un giudizio a tre parti, un ex dipendente aveva chiesto al datore il risarcimento danno pensionistico per il mancato versamento dei contributi relativi a un premio di produzione del 2004, da riscuotere nel maggio 2005, ma riconosciutogli solo con sentenza del 2012; mentre il datore aveva chiesto che l’INPS fosse dichiarato obbligato a ricevere i contributi relativi a tale premio, negati dall’ente nel 2013 per pretesa intervenuta prescrizione quinquennale.

La corte, cassando la decisione di merito, che aveva respinto le domande, ribadisce il principio generale secondo cui il sistema di prelievo contributivo fa perno sulla retribuzione dovuta (sistema di competenza) e non su quella corrisposta (sistema di cassa), il che assume rilevanza anche ai fini della prescrizione, nel caso in esame pertanto già maturata al momento dell’offerta di pagamento.

La regola, secondo la Corte, vale anche per i premi di produzione, menzionati, insieme alle gratifiche

annuali, all’art 6 del d. Lgs n.314/1997 come “assoggettati a contribuzione nel mese di corresponsione”, in quanto quest’ultima espressione è stata costantemente interpretata come relativa al mese stabilito dalla legge o dal contratto (quindi sistema di competenza).

Corte di Cassazione, ordinanza 4 giugno 2025, n. 15006.

Senza convalida, provvisoriamente inefficace la risoluzione consensuale del rapporto.

Come è noto, l’art. 4 comma 17 della legge n. 92/2012 (applicabile al tempo dei fatti) subordina l’efficacia delle dimissioni e della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro alla convalida delle stesse secondo le forme stabilite nei commi successivi.

Nel giudizio in cui una giornalista aveva sostenuto l’attualità del proprio rapporto di lavoro con una

società, i giudici di merito avevano respinto la domanda, ritenendo ormai intervenuta la risoluzione consensuale tacita del rapporto, non impedita dalle norme indicate, che, in particolare, al comma 22 non menzionano la risoluzione consensuale.

La cassazione cassa con rinvio la sentenza d’appello, osservando che la risoluzione consensuale del contratto di lavoro può avvenire anche in forma tacita, con comportamenti concludenti, salvo che una norma richieda espressamente la forma scritta ad substantiam; tuttavia, l’art. 4, co. 17-22, L. 92/12 ha introdotto specifiche formalità per l’efficacia sia delle dimissioni che delle risoluzioni consensuali; è vero che il co. 22 citato dalla corte d’appello disciplina la perdita definitiva di efficacia delle sole dimissioni non convalidate, ma ciò non esclude che, secondo i commi precedenti, anche l’efficacia della risoluzione consensuale sia subordinata alle procedure di convalida. Deve pertanto concludersi che in mancanza di convalida, l’accordo di risoluzione pur perfezionato tra le parti non produce effetti immediati, ma si trova in una fase temporanea di quiescenza, in attesa della necessaria formalizzazione della convalida; l’errore dei giudici di merito consiste dunque nell’aver escluso tale effetto sospensivo.

Tribunale di Pisa sentenza n. 192/2025.

Risarcimento del danno anche in assenza di mobbing. Il datore di lavoro deve impedire che si crei un ambiente stressogeno per i dipendenti.

In tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, anche nel caso in cui non sia configurabile una condotta di mobbing per l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo

In tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, anche nel caso in cui non sia configurabile una condotta di mobbing per l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo

a unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, è ravvisabile la violazione dell’art. 2087 c.c. nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno, fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti anche non illegittimi in sé, ma tali da poter generare disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti. il

La controversia traeva origine dalla domanda di una lavoratrice volta ad ottenere l’accertamento della nullità del proprio contratto di apprendistato, per non aver svolto la necessaria attività formativa, nonché finalizzata ad accertare l’illegittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto: l’assenza per malattia, secondo la ricostruzione offerta dalla prestatrice di lavoro, doveva ritenersi imputabile alla responsabilità del datore il quale, con la sua condotta, aveva generato un disturbo dell’ansia nella dipendente. Veniva chiesto, infine, che la condotta datoriale venisse ricondotta alla fattispecie di mobbing, con conseguente condanna al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti.

Ebbene, con riferimento al primo aspetto, il Tribunale di Pisa, dopo aver riepilogato i principi in materia di apprendistato fatti propri dalla più recente giurisprudenza di legittimità e di merito, statuisce come l’onere probatorio inerente all’effettivo svolgimento di un percorso formativo funzionale al conseguimento delle competenze professionali proprie della qualifica finale incomba sul datore di lavoro. Nel caso di specie, una tale prova non veniva fornita, non essendo stata prodotta alcuna documentazione volta ad attestare i contenuti della formazione impartita, con conseguente nullità dell’apprendistato e conversione dello stesso ab origine in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Invece, con riferimento ai comportamenti asseritamente lesivi posti in essere ai danni della

lavoratrice, emergeva dall’istruttoria come il datore avesse manifestato un atteggiamento effettivamente ostile. Ad esempio, dalle chat di WhatsApp spiccavano le seguenti frasi, scritte dal datore e trasmesse alla lavoratrice: “mi stai antipatica da sempre, sei entrata per tua madre e se c’era anche lei per te e basta”, oppure “t’ho detto che ti devo far litigare con tua mamma, ma arrivando a un certo punto, per arrivare a sti livelli che siete”.

E ancora, il datore scriveva: “sei proprio simpatica. Al primo sbaglio sei fuori. Da oggi in poi se fai quattro ore va bene” e anche “io a tempo indeterminato non ti ci passerò mai, a costo che morirò”. Il giudice Pisano, a fronte di queste invettive mosse dal datore, rileva come, ad emergere, sia un

atteggiamento sicuramente astioso nei confronti della lavoratrice, non sufficiente, però, ad integrare la fattispecie di mobbing. In tal senso, chiarisce il Tribunale, non è sufficiente l’accertata esistenza di plurime condotte datoriali illegittime, essendo invece necessario l’accertamento di una reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso il lavoratore e preordinati alla sua mortificazione e isolamento lavorativo.

Secondo il giudice di merito, la lavoratrice, nel caso in esame, non aveva provato che i comportamenti

del datore fossero il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione, non sussistendo, da parte di quest’ultimo, “un’intenzione psicologica di arrecare un danno alla lavoratrice quanto, piuttosto, un’antipatia e un atteggiamento pubblicamente ostile”. Tuttavia, come sopra accennato, pur non ritenendo integrata la fattispecie del mobbing, il giudice di Pisa rileva come, comunque, sia ravvisabile una violazione dell’art. 2087 c.c., avendo, il datore di lavoro, consentito il mantenersi di un ambiente stressogeno, fonte di danno alla salute della lavoratrice. Il datore sarebbe cioè venuto meno all’obbligo di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale della dipendente.

Tribunale di Verona, 22 maggio 2025.

Le Stock Options previste dal contratto di lavoro sono retribuzione a tutti gli effetti.

Il Tribunale ha accolto integralmente il ricorso presentato da un dirigente contro la ex datrice di lavoro, riconoscendo l’inadempimento contrattuale da parte della società in merito all’assegnazione di 395 azioni, previste come parte della retribuzione nell’ambito di un piano di incentivazione a lungo termine. Le azioni, inizialmente accreditate su un conto titoli del dirigente presso una piattaforma statunitense, erano state rimosse senza il suo consenso a seguito di istruzioni impartite dal legale della società. Accertata la natura retributiva dell’incentivo sulla base, tra gli altri, del fatto che il piano fosse inserito nel contratto di lavoro e che i prospetti paga mostravano come il valore delle azioni fosse stato assoggettato a ritenuta fiscale da parte del datore, il Giudice ha ordinato il deposito delle azioni sul conto del ricorrente e l’adempimento dei relativi obblighi fiscali.

Corte di cassazione, ordinanza 22 maggio 2025, n. 13748.

Sui parametri di valutazione della giusta causa in un caso di molestie nel lavoro.

Giudicando del licenziamento per giusta causa di una dipendente, accusata di molestie nei confronti di un collega, ripetutamente apostrofato sul luogo di lavoro e alla presenza di altri dipendenti con frasi a sfondo sessuale e oggetto di attenzioni indesiderate, la Corte d’appello, pur ritenendo provati i fatti, aveva ritenuto non sussistente la giusta causa, per sproporzione, in assenza di precedenti disciplinari e di significativi danni all’azienda.

La Corte cassa con rinvio la sentenza, censurandola per avere, nell’applicazione dei parametri valutativi della giusta causa, omesso la necessaria integrazione della generica indicazione codicistica con elementi conformi a valori anche costituzionali dell’ordinamento, quali la dignità umana, la parità di genere, l’importanza fondamentale del lavoro per la crescita personale e sociale nonché, sul piano soggettivo, la piena consapevolezza, il dolo specifico etc.; valori rispetto ai quali sono certamente recessivi parametri quali la mancanza di precedenti disciplinari o di danni organizzativi.

Tribunale di Roma, 21 maggio 2025.

Trasferimento d’azienda in cambio appalto “labour intensive” e diritto al precedente inquadramento del lavoratore.

Nel contesto di un cambio di appalto si configura un ai sensi dell’art. 2112 c.c. qualora il passaggio dei lavoratori non determini una significativa

discontinuità dell’impresa. In particolare, l’assenza di beni materiali trasferiti non è decisiva per

escludere il trasferimento d’azienda, poiché l’identità dell’impresa è integrata quando viene essenzialmente conservato il complesso dei beni materiali e immateriali comprensivi del personale e delle sue competenze necessari e imprescindibili all’esercizio dell’attività.

Dall’inquadramento del passaggio di appalto come trasferimento d’azienda discende il diritto del lavoratore al mantenimento delle condizioni economiche e normative precedentemente riconosciute dall’impresa uscente, motivo per cui il giudice capitolino ha riconosciuto il diritto del ricorrente al livello di inquadramento precedentemente attribuitogli.

Corte di cassazione, sentenza 21 maggio 2025, n. 13558.

Naspi: ai fini del requisito delle 30 giornate vale anche il lavoro “non svolto” ma retribuito.

Come è noto, ai fini della concessione dell’indennità di disoccupazione Naspi, il D.Lgs. n. 22/2015 richiede, tra l’altro, il requisito di “30 giornate di lavoro effettivo” nei 12 mesi precedenti la disoccupazione dell’interessato.

Sorto in un giudizio il problema dell’interpretazione di tale requisito, la cassazione chiarisce che ai fini indicati, le “30 giornate di lavoro effettivo” sono integrate anche da quelle di ferie o riposi retribuiti e da ogni altra giornata che dia luogo al diritto del dipendente alla retribuzione e al pagamento dei contributi. Diversa è la regola in caso di sospensione legale del rapporto di lavoro comportante l’interruzione delle reciproche obbligazioni principali come in presenza di maternità, malattia, cassa integrazione o contratti di solidarietà a zero ore: in queste circostanze, il lavoro non può considerarsi “effettivo”. Tale sospensione, tuttavia, non penalizza il lavoratore: si applica infatti il principio della neutralizzazione, in forza del quale i periodi di sospensione per cause tutelate dalla legge sono esclusi dal computo dei dodici mesi utili per individuare le 30 giornate di lavoro effettivo.

Corte di cassazione, sentenza 20 maggio 2025, n. 13525.

L’anticipazione del TFR non può essere mensile e priva di causale.

Nel giudizio in cui una società aveva contestato la pretesa dell’Inps di assoggettare a contribuzione l’anticipo del T.F.R. Corrisposto mensilmente ai propri dipendenti, la cassazione afferma che: il meccanismo legale dell’anticipazione del T.F.R., delineato dall’art. 2120 c.c., è fondato su determinati precisi presupposti (una tantum, causale specifica, tetto del 70%, otto anni di anzianità etc.).

Modificabili dall’autonomia privata a vantaggio dei dipendenti in limiti compatibili con la portata eccezionale dell’istituto (es. Prevedendo causali aggiuntive o importi superiori), senza sovvertire la struttura stessa dell’anticipazione; l’erogazione mensile e continuativa del T.F.R., priva di causale, svuota la funzione dell’anticipazione e si pone in contrasto con il principio dell’accantonamento progressivo; per effetto di tale distorsione, le somme così corrisposte non possono considerarsi anticipazioni in senso tecnico, ma retribuzione ordinaria soggetta a contribuzione previdenziale.

Tribunale di Roma, 15 maggio 2025.

La critica anche severa tra sindacati non è diffamazione: rigettato il ricorso presentato dalla Cisal per un volantino in cui si criticava il contratto pirata.

Il Tribunale rigetta il ricorso d’urgenza presentato contro la SLCCGIL Roma e Lazio, con cui la Cisal Comunicazione aveva chiesto di ingiungere la rimozione immediata di un volantino intitolato “Quei bravi ragazzi, ovvero contratto pirata Cisal per i call center” e di inibire future diffusioni di comunicati analoghi, sostenendone la natura gravemente diffamatoria per l’assimilazione dell’associazione a contesti malavitosi e denigratoria dell’accordo da essa sottoscritto. L’ordinanza sottolinea come nel caso la critica sindacale, anche se aspra, non abbia travalicato i limiti della legittima manifestazione del dissenso: il testo del volantino si limitava a esprimere una ferma disapprovazione sul contratto collettivo sottoscritto dalla ricorrente, ritenuto iniquo e pregiudizievole per i lavoratori.

Corte di cassazione, sentenza 14 maggio 2025 n.12973.

Maggiorazione contributiva per invalidità anche in aspettativa sindacale.

La legge n. 388/2000 prevede all’art. 80, una maggiorazione contributiva di 2 mesi per ogni anno di servizio (utile ai soli fini dell’anzianità contributiva pensionistica) per i lavoratori sordomuti e per gli altri invalidi in misura superiore al 74%. Sorta in un giudizio la questione dell’applicabilità della

disposizione anche nel caso in cui l’interessato fruisca dell’aspettativa sindacale di cui all’art. 31 L. 300/1970 (in quanto chiamato a ricoprire cariche sindacali provinciali e nazionali), la Cassazione la risolve in senso positivo.

In proposito, rileva che il legislatore attribuisce la maggiorazione contributiva solo in presenza di un servizio effettivamente svolto, pertanto, per il personale indicato, in condizioni di particolare sacrificio. Ma la medesima ratio ricorre nel caso del dipendente in aspettativa per ricoprire cariche sindacali, il quale continua a svolgere attività nella diversa veste sindacale, equiparata al lavoro effettivo dallo Statuto dei lavoratori.

Tribunale di Vicenza, sentenza 13 maggio 2025, n. 251.

Lavoratore esposto a PFAS: accertato l’origine professionale della malattia non tabellata.

Per la prima volta in Italia, riconosce il nesso causale tra l’esposizione lavorativa a sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) e l’insorgenza di una patologia oncologica, accogliendo la domanda degli eredi di un ex dipendente.

Il Tribunale di Vicenza condanna l’INAIL a riconoscere la rendita ai superstiti, aprendo scenari rilevanti sul piano probatorio, medico-legale e della responsabilità previdenziale.

Corte di cassazione, ordinanza 11 maggio 2025 n. 12473.

Disdetta dell’uso aziendale e obbligo di motivazione.

La Corte d’appello aveva respinto le domande di alcuni dipendenti di una società, titolari da tempo di superminimi individuali dichiarati assorbibili, ma di fatto non assorbiti in occasione di successivi numerosi rinnovi contrattuali, i quali lamentavano che, all’ultimo rinnovo, l’impresa avesse proceduto unilateralmente e quindi illegittimamente all’assorbimento.

In proposito, la Corte, pur avendo accertato la formazione di un uso aziendale relativo al non assorbimento dei superminimi, aveva osservato che il relativo impegno per la società non poteva ritenersi eterno e, pertanto, aveva ritenuto legittimo l’atto aziendale di ripristino dell’originaria assorbibilità.La Cassazione annulla la sentenza, affermando che all’uso aziendale, come ad ogni atto avente una durata indeterminata, si applica il principio della recedibilità unilaterale, ma precisando che, per evitare che la disdetta si confonda con l’inadempimento aziendale, essa deve essere giustificata dal sostanziale mutamento di circostanze e va formalizzata in una dichiarazione motivata.

Corte di Cassazione, sentenza 9 maggio 2025, n. 12270.

Ancora sul licenziamento per inidoneità fisica e sull’onere di accomodamenti ragionevoli.

I giudici di merito avevano annullato il licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica di un lavoratore, rilevando l’assenza di un effettivo tentativo aziendale di adottare “accomodamenti ragionevoli” idonei a salvaguardare il posto di lavoro. Il ricorso della società avverso tale decisione è stato respinto dalla Cassazione, che osserva: la nozione di handicap, rilevante ai fini dell’obbligo di adottare adattamenti ragionevoli proviene dal diritto eurounitario e consiste in una situazione patologica duratura fisica, mentale o psichica che, interagendo con barriere ambientali o organizzative, ostacola la piena ed effettiva partecipazione alla vita lavorativa su base di uguaglianza (Direttiva 2000/78/CE); in tali casi, il datore di lavoro, al fine di giustificare il licenziamento, non può limitarsi a provare l’assenza di posti disponibili (come nel repechage tradizionale), ma ha l’onere di dedurre e provare di aver concretamente ricercato soluzioni organizzative ragionevoli, alternative all’ineluttabilità del licenziamento.

Corte di cassazione, ordinanza 7 maggio 2025 n. 12097.

Ragionevoli accomodamenti per il disabile anche nel licenziamento disciplinare.

Nel giudizio di impugnazione del licenziamento disciplinare di un lavoratore disabile che aveva rifiutato il trasferimento di sede, la Corte estende al licenziamento disciplinare (e implicitamente anche al trasferimento) la regola dettata in materia di licenziamento per inidoneità fisica del dipendente portatore di handicap, secondo cui prima di attivare il recesso occorre procedere alla “necessaria attivazione della procedura diretta all’individuazione di possibili accomodamenti ragionevoli” che non comportino oneri finanziari sproporzionati.

Corte di cassazione, ordinanza 7 maggio 2025 n. 12060.

Nullo, durante la maternità, il licenziamento per superamento del comporto.

Come è noto, la legge vieta il licenziamento della lavoratrice durante il periodo che va dall’inizio della gravidanza al compimento di un anno di età del figlio, salvo che ricorra una giusta causa oppure il licenziamento sia causato dalla cessazione dell’azienda o avvenga per scadenza del termine o della prova.

Invocando tale disciplina, una lavoratrice aveva impugnato il licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia intimatole mentre era in gravidanza.

Il suo ricorso viene accolto in tutti i gradi di giudizio, respingendosi il richiamo effettuato dalla società alla diversa disciplina di cui all’art. 2110 cod. civ., la cui disposizione in materia di gravidanza è stata pertanto ritenuta superata dalla successiva specifica normativa riguardante la lavoratrice madre.

Tribunale di Pavia sentenza del 29 aprile 2025.

L’agenzia per il lavoro non è responsabile in solido per i crediti che il lavoratore ha maturato come conseguenza di un inquadramento errato, assegnato dall’impresa utilizzatrice.

Il Tribunale di Pavia ha stabilito che l’agenzia di somministrazione non è responsabile in solido per le differenze retributive derivanti da mansioni superiori svolte dal lavoratore, se queste sono state assegnate dall’impresa utilizzatrice. In pratica, se un’azienda utilizza un lavoratore in una posizione superiore a quella per cui è stato contrattualmente assunto, ma non provvede ad adeguare la sua retribuzione, il lavoratore non potrà rivalersi sull’agenzia di somministrazione per ottenere le differenze retributive. La sentenza sottolinea che la responsabilità della corretta inquadratura e retribuzione del lavoratore, anche in caso di mansioni superiori, ricade sull’impresa utilizzatrice e non sull’agenzia di somministrazione.

Corte d’Appello di Milano, Sez. Lav., sentenza 24 aprile 2025, n. 302.

Dati sensibili usati per fini personali: scatta il licenziamento per giusta causa.

La Corte d’appello di Milano conferma la sentenza del Giudice di prime cure quanto alla legittimità del licenziamento per giusta causa comminato ad un dipendente, addetto allo smistamento della posta interna aziendale che, approfittando del proprio ruolo, si era appropriato del numero di telefono indicato nel curriculum vitae di una candidata per contattarla per scopi del tutto estranei all’attività lavorativa.

Tribunale di Napoli, 8 aprile 2025.

È nullo il licenziamento intimato per il presunto superamento del comporto, quando alcune assenze non erano computabili.

Il Tribunale ha ritenuto non condivisibile quanto sostenuto dal datore di lavoro, secondo cui la genericità dei certificati medici non avrebbe reso conoscibili le condizioni di salute del lavoratore. Smentita tale tesi dalla documentazione agli atti, è stato precisato che ai fini del godimento del comporto non rileva tanto la comunicazione dettagliata della natura della patologia, quanto l’obiettivo stato di salute. Il Giudice ha verificato che tra le assenze non computabili rientravano quelle causate da ricoveri ospedalieri e day hospital, per le quali non grava sul dipendente alcun onere di comunicazione specifica. Il licenziamento è stato ritenuto nullo, pur se ricondotto ai sensi dell’art. 18, 4 comma, Stat. Lav., al regime della reintegrazione attenuata.

Tribunale di Trento, sentenza 1 aprile 2025, n. 47.

Tempo tuta e obblighi datoriali: quando il tempo non è denaro.

Il Tribunale del Lavoro di Trento si esprime in merito alla retribuibilità del tempo speso dal lavoratore per vestizione svestizione della divisa, DPI, passaggi di consegne e doccia post-turno.

Il giudice nega la natura di orario di lavoro al tempo tuta e alla doccia, accogliendo solo parzialmente le richieste relative ai DPI, escludendole tuttavia per l’irrilevanza temporale. Centrali nella decisione le nozioni di “eterodirezione” e la definizione normativa ed euro unitaria di “orario di lavoro”.

Tribunale di Roma, 20 marzo 2025.

La contestazione disciplinare deve indicare il motivo per cui i fatti indicati sono considerati disciplinarmente rilevanti, pena la nullità della successiva sanzione.

Il Tribunale capitolino annulla la sanzione disciplinare inflitta a una docente dal Ministero dell’Istruzione, evidenziando come nella contestazione degli addebiti la condotta ascritta alla lavoratrice non fosse in alcun modo qualificata come violazione di alcuna norma o dovere della dipendente.

Alla mancata specificazione degli addebiti si è aggiunta la totale omissione di motivazione, non compensabile con i richiami normativi effettuati successivamente nel provvedimento sanzionatorio.

Corte di cassazione sentenza n. 6874/2025.

Nullità del licenziamento e periodo di comporto.

L’azienda, pur a fronte del superamento del relativo periodo di comporto, concluso il periodo di assenza per malattia aveva riammesso il lavoratore in servizio, per più mesi, tra le altre cose assegnandolo a diverse mansioni; il lavoratore, successivamente, ricadeva però in malattia e, così risperando per sommatoria il relativo periodo di comporto come previsto dal CCNL applicato, veniva licenziato.

Ebbene, la Corte di cassazione ha dichiarato nullo il licenziamento in questione sostenendo che l’azienda, avendo riammesso in servizio il lavoratore ed essendosi impegnata nel reperire soluzioni organizzative per impiegare utilmente lo stesso nel contesto aziendale, avrebbe ingenerato nel lavoratore una legittima aspettativa circa il prolungamento del rapporto e quindi palesato una rinuncia a far valere il superamento del periodo di comporto.

Ma, soprattutto considerato il generarsi di tale affidamento, la Corte di cassazione ha stabilito che i giorni di malattia successivi alla ripresa lavorativa sono privi di rilevanza, dovendo così il calcolo del periodo di comporto ripartire “da zero” una volta che l’azienda abbia nei fatti “rinunciato” a far valere il superamento del precedente periodo di comporto.

Una rondine non fa primavera”, certo, ma è indubbio che questa sentenza, se collocata nell’ambito di un più ampio e recente filone (ad esempio Cass. n. 9095/2023, la quale, in breve, aveva ravvisato profili discriminatori nella previsione di un periodo di conservazione del posto uguale per lavoratori con disabilità e non), contribuisce a rendere i licenziamenti per comporto una tematica sempre più delicata.