Novita’ normative
Legge 23 settembre 2025, n. 132.
Pubblicata la legge delega che regolamenta l’uso dell’intelligenza artificiale nel lavoro. Disposizioni e deleghe al Governo in materia di intelligenza artificiale.
Per quanto riguarda la materia lavoro, questi gli articoli di riferimento:
Art. 11. (Disposizioni sull’uso dell’intelligenza artificiale in materia di lavoro)
L’intelligenza artificiale è impiegata per migliorare le condizioni di lavoro, tutelare l’integrità psicofisica dei lavoratori, accrescere la qualità delle prestazioni lavorative e la produttività delle persone in conformità al diritto dell’Unione europea.
L’utilizzo dell’intelligenza artificiale in ambito lavorativo deve essere sicuro, affidabile, trasparente e non può svolgersi in contrasto con la dignità umana né violare la riservatezza dei dati personali. Il datore di lavoro o il committente è tenuto a informare il lavoratore dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale nei casi e con le modalità di cui all’articolo 1-bis del decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152.
L’intelligenza artificiale nell’organizzazione e nella gestione del rapporto di lavoro garantisce l’osservanza dei diritti inviolabili del lavoratore senza discriminazioni in funzione del sesso, dell’età, delle origini etniche, del credo religioso, dell’orientamento sessuale, delle opinioni politiche e delle condizioni personali, sociali ed economiche, in conformità al diritto dell’Unione europea.
Art. 12. (Osservatorio sull’adozione di sistemi di intelligenza artificiale nel mondo del lavoro)
Al fine di massimizzare i benefici e contenere i rischi derivanti dall’impiego di sistemi di intelligenza artificiale in ambito lavorativo, è istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali l’Osservatorio sull’adozione di sistemi di intelligenza artificiale nel mondo del lavoro, con il compito di definire una strategia sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale in ambito lavorativo, monitorare l’impatto sul mercato del lavoro e identificare i settori lavorativi maggiormente interessati dall’avvento dell’intelligenza artificiale. L’Osservatorio promuove la formazione dei lavoratori e dei datori di lavoro in materia di intelligenza artificiale.
L’Osservatorio è presieduto dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali o da un suo rappresentante. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, da adottare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono stabiliti i componenti, le modalità di funzionamento, nonché gli ulteriori compiti e funzioni dell’Osservatorio medesimo. Ai componenti dell’Osservatorio non spettano compensi, gettoni di presenza, rimborsi di spese o altri emolumenti comunque denominati.
L’istituzione e il funzionamento dell’Osservatorio non comportano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e sono assicurati con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.
Art. 13. (Disposizioni in materia di professioni intellettuali)
L’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale nelle professioni intellettuali è finalizzato al solo esercizio delle attività strumentali e di supporto all’attività professionale e con prevalenza del lavoro intellettuale
oggetto della prestazione d’opera.
Per assicurare il rapporto fiduciario tra professionista e cliente, le informazioni relative ai sistemi di intelligenza artificiale utilizzati dal professionista sono comunicate al soggetto destinatario della prestazione intellettuale con linguaggio chiaro, semplice ed esaustivo.
Legge n. 106 del 18 luglio 2025.
Lavoro agile da autorizzare anche se sussiste la priorità. Un ulteriore criterio di priorità in favore dei malati oncologici.
La L. 106/2025, all’art. 1 comma 4, ha inserito una disposizione in materia di accesso allo smart working in favore dei malati oncologici. Tale norma prevede infatti espressamente che una volta decorso il periodo di congedo non retribuito previsto al comma 1 – che non può essere superiore a 24 mesi ed è richiedibile dai dipendenti, pubblici o privati, affetti da malattie oncologiche, ovvero da malattie invalidanti o croniche, anche rare, che comportino un grado di invalidità pari o superiore al 74% – il lavoratore dipendente vanta il diritto ad accedere prioritariamente, ove la prestazione lavorativa lo consenta, alla modalità di lavoro agile.
A tal fine è necessaria, oltre alla preventiva richiesta di fruizione del predetto congedo, la richiesta di smart working al termine del congedo stesso, sempre che la prestazione lavorativa svolta risulti compatibile con lo svolgimento in modalità agile.
Si evidenzia che l’indicato criterio di priorità si affianca ai criteri di priorità previsti dal comma 3-bis dell’art. 18 della L. 81/2017, come sostituito dal D.Lgs. 105/2022, e dal comma 6-bis dell’art. 33 della L. 104/92, che di seguito si riepilogano sinteticamente.
Per legge, i datori di lavoro pubblici e privati devono considerare con priorità le richieste di smart working avanzate dalle lavoratrici e dai lavoratori con figli fino a 12 anni di età o, senza alcun limite di età, con figli in condizioni di disabilità ai sensi dell’art. 3 comma 3 della L. 104/92.
Allo stesso modo, devono essere considerate con priorità le richieste avanzate da lavoratori con disabilità in situazione di gravità accertata ai sensi dell’art. 4 comma 1 della indicata L. 104/92, o che siano caregivers, i quali vengono definiti dall’art. 1 comma 255 della L. 205/2017 come coloro che assistono e si prendono cura del coniuge, dell’altra parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso o del convivente di fatto ex L. 76/2016, di un familiare o di un affine entro il secondo grado o – nei soli casi indicati dall’art. 33 comma 3 della L. 104/92 – di un familiare entro il terzo grado che, a causa di malattia, infermità o disabilità (anche croniche o degenerative), non sia autosufficiente e in grado di prendersi cura di sé, sia riconosciuto invalido in quanto bisognoso di assistenza globale e continua di lunga durata ex art. 3 comma 3 della medesima legge o sia titolare di indennità di accompagnamento ex L. 18/80.
Il comma 6-bis dell’art. 33 della L. 104/92 prevede poi che i lavoratori che usufruiscono dei permessi di cui ai commi 2 e 3 di tale articolo hanno diritto di priorità nell’accesso al lavoro agile ai sensi dell’art. 18 comma 3-bis della L. 81/2017 o ad altre forme di lavoro flessibile, restando ferme le eventuali previsioni più favorevoli previste dalla contrattazione collettiva.
Si evidenzia, infine, che il citato art. 18 prevede il divieto di sanzionare, demansionare, licenziare, trasferire, o sottoporre ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro la lavoratrice o il lavoratore che abbiano richiesto di fruire del lavoro agile. Qualunque misura adottata in violazione di tale divieto è da considerarsi nulla in quanto ritorsiva o discriminatoria.
Inoltre, il rifiuto, l’opposizione o l’ostacolo alla fruizione del lavoro agile, secondo quanto disposto dal comma 3-bis dell’art. 18 della L. 81/2017, ove rilevati nei due anni antecedenti alla richiesta della
certificazione della parità di genere ex art. 46-bis del D.Lgs. 198/2006 o di analoghe certificazioni previste dalle regioni e dalle province autonome nei rispettivi ordinamenti, impediscono al datore di lavoro il conseguimento delle stesse certificazioni.
Circolare INPS n. 130 del 30 settembre 2025.
Chiarimenti in materia di pignorabilità delle somme erogate dall’Istituto a titolo di prestazioni previdenziali non pensionistiche e indennità di sostegno al reddito dei lavoratori in conseguenza di cessazione, sospensione o riduzione dell’attività lavorativa.
Con la Circolare n. 130 del 30 settembre 2025, l’INPS ha fornito chiarimenti in materia di pignorabilità delle somme erogate dall’Istituto a titolo di prestazioni previdenziali non pensionistiche e indennità di sostegno al reddito dei lavoratori in conseguenza di cessazione, sospensione o riduzione dell’attività lavorativa. In prima battuta, l’Istituto ha illustrato il quadro normativo, ricordando la distinzione, contenuta nell’art. 545 c.p.c., tra crediti del tutto impignorabili e crediti parzialmente pignorabili, ossia pignorabili entro certi limiti e a determinate condizioni.
Rientrano nella prima categoria, ai sensi dell’art. 545 comma 2 c.p.c., i crediti aventi per oggetto “sussidi di grazia o sostentamento a persone comprese nell’elenco dei poveri, oppure sussidi dovuti per maternità, malattie o funerali da casse di assicurazione, da enti di assistenza o da istituti di beneficenza”. Sono cioè da considerarsi non pignorabili le somme erogate dall’INPS per prestazioni di malattia, maternità, paternità nonché quelle connesse ai congedi parentali, alle prestazioni antitubercolari, ai permessi e ai congedi straordinari per assistenza ai disabili. In ogni caso, tali crediti possono essere ceduti, sequestrati e pignorati, nei limiti di un quinto del loro ammontare, per debiti verso lo stesso Ente previdenziale derivanti da indebite prestazioni percepite a carico di forme di previdenza gestite dall’Istituto, ovvero da omissioni contributive, ai sensi dell’art. 69 della L. 153/69.
Invece, nella seconda categoria, ossia quella dei crediti parzialmente pignorabili, ai sensi del primo, terzo e quarto comma dell’art. 545 c.p.c., rientrano, oltre ai crediti alimentari, anche i crediti retributivi. In particolare, l’INPS evidenzia come la pignorabilità delle indennità sostitutive della retribuzione sia consentita esclusivamente per i crediti alimentari e per i tributi dovuti allo Stato, alle Province e ai Comuni e per ogni altro credito nella misura di un quinto. Si evince, quindi, una regola generale per cui le somme aventi natura di reddito da lavoro possono essere pignorate fino a un quinto del loro importo, fatta salva la possibilità, da parte del giudice, di disporre una diversa misura per i crediti alimentari.
L’INPS precisa, poi, che nel caso in cui il credito da prestazione sostitutiva della retribuzione venga pignorato più volte da diversi creditori, trova applicazione il limite di pignorabilità dei crediti di natura retributiva del debitore nell’ipotesi della simultanea esistenza di più crediti nei suoi confronti. In tal senso, il quinto comma dell’art. 545 c.p.c. dispone che il limite di un quinto possa essere esteso fino alla metà nell’eventualità di simultaneo concorso tra le diverse cause di credito indicate ai commi precedenti del medesimo articolo. Di conseguenza, anche per la soddisfazione dei crediti alimentari, i crediti previdenziali sostitutivi della retribuzione possono essere pignorati fino alla metà e, nell’ipotesi in cui il medesimo credito sia già assoggettato a esecuzione forzata, lo stesso è pignorabile al massimo nella misura pari alla differenza tra la metà del credito da prestazione e quanto già assoggettato al precedente pignoramento.
Per quanto attiene alla fase esecutiva dell’ordinanza di assegnazione, l’INPS precisa come, salvo diversa disposizione giudiziale, in caso di più pignoramenti debba essere data esecuzione al provvedimento relativo alla procedura esecutiva notificata in data anteriore: in caso di precedenti procedure esecutive già attive sul trattamento previdenziale, si può dare esecuzione al pignoramento
solo dopo l’integrale soddisfo di tali posizioni.
Inoltre, in assenza di disposizioni specifiche nel provvedimento di assegnazione, l’Ente previdenziale individua alcuni criteri cui fare affidamento:
- se la notifica dei pignoramenti viene effettuata nella medesima data o se nell’ambito dello stesso procedimento esecutivo concorrono più crediti, l’importo da trattenere e da destinare ai diversi creditori deve essere contenuto nei limiti di un quinto;
- qualora nell’ambito dello stesso procedimento esecutivo concorrano più creditori e nel provvedimento di assegnazione non sia stata specificata la percentuale di ripartizione delle somme, le medesime devono imputarsi in parti uguali a ciascuno dei creditori pignoratizi;
- in caso di pignoramenti notificati nella medesima data, preso atto che la quota di un quinto trattenuta in fase di accantonamento cautelare è stata ripartita in parti uguali tra le diverse procedure esecutive, deve essere data tempestiva esecuzione all’ordinanza di assegnazione che pervenga in data anteriore;
- in presenza di un provvedimento di assegnazione da eseguire in concorso ad altro terzo pignorato, il recupero del debito deve intendersi ripartito al 50%;
- se coesistono trattenute per finanziamento con estinzione dietro cessione del quinto e trattenute per pignoramento, queste ultime devono essere sempre applicate in via prioritaria rispetto a quelle inerenti al finanziamento.
Agenzia delle Entrate, risposta ad interpello n. 233/E del 9 settembre 2025.
Auto concesse in uso promiscuo.
L’Agenzia delle Entrate, con risposta ad interpello n. 233/E del 9 settembre 2025, fornisce indicazioni circa la corretta applicazione delle ritenute fiscali e previdenziali delle somme eventualmente trattenute ai dipendenti, per gli optional dagli stessi richiesti sui veicoli loro assegnati in uso promiscuo ed, in particolare, se debbano essere sottratte o meno dalla base imponibile del reddito di lavoro dipendente.
Questa, in estrema sintesi, la risposta dell’Agenzia delle Entrate.
Qualora il datore di lavoro trattenga in capo ai dipendenti delle somme per la richiesta di optional aggiuntivi da installare sui veicoli concessi in uso promiscuo, che non sono ricompresi nella valorizzazione determinata nelle tabelle ACI, le stesse non riducono il valore del fringe benefit da assoggettare a tassazione ai sensi dell’articolo 51, comma 4, lettera a), del TUIR, per cui tali somme corrisposte dal dipendente per l’acquisto degli optional dovranno essere trattenute dall’importo netto corrisposto in busta paga.
Agenzia delle Entrate, interpello n. 249/E del 18 settembre 2025.
Dipendente in servizio all’estero – Assicurazione sanitaria – Trattamento fiscale.
L’Agenzia delle Entrate, con l’interpello n. 249/E del 18 settembre 2025, fornisce alcuni chiarimenti in merito al corretto regime fiscale da applicare al premio della polizza assicurativa sottoscritta dal datore di lavoro in favore dei dipendenti che prestano servizio all’estero nei paesi dove non è erogata l’assistenza sanitaria in forma diretta e dei relativi familiari a carico conviventi.
Questa, la risposta dell’Agenzia delle Entrate:
l’articolo 51, comma 1, del Testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), prevede che costituiscono reddito di lavoro dipendente «tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali,
in relazione al rapporto di lavoro». Tale disposizione include nel reddito di lavoro dipendente tutte le somme ed i valori che il dipendente percepisce in relazione al rapporto di lavoro (c.d. ”principio di onnicomprensività”), salve le tassative deroghe contenute nei successivi commi del medesimo articolo
51; lo stesso articolo 51, comma 2, lettera a), primo periodo, dispone che non concorrono alla formazione del reddito di lavoro dipendente «i contributi previdenziali e assistenziali versati dal datore di lavoro o dal lavoratore in ottemperanza a disposizioni di legge»; con circolare 23 dicembre 1997, n. 326, l’Amministrazione Finanziaria ha chiarito che l’assistenza sociale risponde «a finalità fondate unicamente sulla solidarietà collettiva a soggetti che versano in uno stato di bisogno» e che si qualificano come ”contributi previdenziali” quei contributi versati in ottemperanza di legge al fine di garantire al dipendente specifiche prestazioni previdenziali; sulla base della normativa e della prassi richiamata, il contratto di assicurazione sanitaria (malattia, infortunio e maternità) che il datore di lavoro ha sottoscritto non può essere ricondotto alla categoria dei ”contributi assistenziali”, non riscontrandosi alcuna finalità di ”solidarietà collettiva” nei confronti di soggetti che versano in uno stato di bisogno, né a quella dei ”contributi previdenziali”, come sopra descritti; di conseguenza, il premio della polizza sottoscritta dall’Istante in favore dei propri dipendenti che prestano servizio all’estero concorre alla formazione del reddito di lavoro dipendente.
Garante privacy provvedimento n. 363 del 23 giugno 2025.
No alla divulgazione dei motivi dell’assenza dei dipendenti.
Il Garante per la protezione dei dati personali, con il Provvedimento n. 363 del 23 giugno 2025, ha sanzionato una società che ha divulgato dati personali, anche di natura sensibile, relativi ai motivi dell’assenza dal lavoro del proprio personale.
In particolare, le informazioni relative ai motivi delle assenze, indicate mediante sigle sintetiche (“MAL” in luogo di malattia, “104” in luogo di “permesso assistenza disabili, l. n. 104/1992”, “SOSP” in luogo di sospensione/sanzione disciplinare, ecc.) venivano rese disponibili a tutti i dipendenti, mediante affissione delle tabelle dei turni di servizio sulle bacheche aziendali, posizionate presso i depositi aziendali dei mezzi di trasporto utilizzati per la gestione del servizio, nonché tramite l’invio di una e-mail ai dipendenti dell’azienda.
Novita’ giurisprudenziali
Tribunale di Bari, sentenza 17 settembre 2025, n. 1557.
La legittimità dello staff leasing.
La sentenza evidenzia che lo staff leasing è coerente con il diritto comunitario, poiché la Direttiva 2008/104/CE si applica solo ai lavoratori assegnati “temporaneamente” a un’impresa utilizzatrice.
La stabilità del rapporto a tempo indeterminato esclude la precarietà che la direttiva mira a contrastare.
La normativa italiana (artt. 31 e 34 D.Lgs. 81/2015) consente lo staff leasing e garantisce tutele specifiche: il lavoratore è assunto dall’agenzia a tempo indeterminato, gode dell’indennità di disponibilità e di concrete prospettive di ricollocamento
La sentenza procede ad una analisi puntuale delle fonti comunitarie che mette in luce la differenza tra contratto a termine e staff leasing.
Un chiarimento utile dopo alcune decisioni che hanno generato incertezza: lo staff leasing è legittimo e non contrasta con la direttiva europea sul lavoro interinale.
Nello specifico, secondo il Tribunale, infatti, lo staff leasing assicura stabilità al lavoratore, sulla base del rapporto a tempo indeterminato con l’agenzia interinale e quindi non contrasta con la Direttiva 2008/104/CE che regola il lavoro in somministrazione, sottolineandone la natura temporanea e stabilendo misure con l’abuso delle missioni a termine.
Il Tribunale di Bari, Sezione Lavoro con la sentenza in parola si è pronunciato su un ricorso relativo alla somministrazione di lavoro ed alla corretta interpretazione dello staff leasing, ossia la somministrazione a tempo indeterminato con missione parimenti a tempo indeterminato.
La sentenza conferma che le imprese possono ricorrere allo staff leasing nei limiti fissati dal D.Lgs. 81/2015, mentre ai lavoratori viene comunque garantita la stabilità occupazionale grazie al contratto a tempo indeterminato stipulato con l’agenzia di somministrazione.
Nel caso di specie, il lavoratore ricorrente, appartenente alle categorie protette ex L. 68/1999, aveva prestato attività lavorativa continuativa presso un’impresa utilizzatrice dal 2018 al 2024, tramite contratti di somministrazione stipulati con un’agenzia per il lavoro. Nel proprio ricorso, il lavoratore ha sostenuto l’illegittimità dei contratti di somministrazione, ritenendoli utilizzati in modo abusivo per coprire esigenze permanenti. Ha quindi chiesto che fosse dichiarata la nullità degli stessi e che venisse riconosciuto un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con l’impresa utilizzatrice, oppure, in via subordinata, la corresponsione dell’indennità prevista dall’art. 39 del D.Lgs. 81/2015.
La società, dal suo canto, ha chiesto il rigetto del ricorso, affermando che la cessazione della missione era dovuta al contratto di solidarietà in vigore nello stabilimento e che il rapporto del lavoratore con l’agenzia era comunque proseguito presso un’altra azienda. Ha inoltre evidenziato la piena legittimità dello staff leasing, ritenuto conforme alla normativa nazionale e coerente con gli obiettivi di tutela e garanzia occupazionale.
Il Giudice del lavoro, nella propria disamina, ha ricostruito l’evoluzione normativa della somministrazione di lavoro in Italia.
Con la L. 196/1997 è stato introdotto il lavoro interinale, primo modello di fornitura temporanea di manodopera. Successivamente, il D.Lgs. 276/2003 ha riformato la disciplina, legittimando la somministrazione a tempo indeterminato e aprendo la strada al cosiddetto staff leasing.
Infine, il D.Lgs. 81/2015 ha riordinato l’intera materia, confermando e regolamentando lo staff leasing all’art. 31, fissandone limiti e condizioni applicative.
La Direttiva europea 2008/104/CE regola il lavoro tramite agenzia interinale, sottolineandone la natura temporanea e imponendo misure contro l’abuso delle missioni a termine.
Tuttavia, secondo il Tribunale, essa non si applica allo staff leasing, in quanto il rapporto con l’agenzia è a tempo indeterminato e assicura già stabilità al lavoratore.
Il Tribunale ha motivato la propria decisione chiarendo che lo staff leasing, ossia la somministrazione a tempo indeterminato con missione parimenti a tempo indeterminato, non rientra nell’ambito di applicazione della Direttiva in parola, la quale disciplina esclusivamente le missioni a termine.
Di conseguenza, non può configurarsi alcun abuso del principio di temporaneità, poiché il lavoratore conserva un rapporto stabile con l’agenzia di somministrazione, che garantisce tutele occupazionali e possibilità di ricollocazione.
Inoltre, l’ordinamento italiano pone limiti quantitativi precisi (art. 31 del D.Lgs. 81/2015), scongiurando il rischio di strutture imprenditoriali prive di dipendenti diretti. Alla luce di tali considerazioni, il Giudice ha rigettato il ricorso.
La decisione, in definitiva, chiarisce che:
- la somministrazione a tempo determinato resta soggetta ai limiti della Direttiva e al principio di temporaneità;
- lo staff leasing è uno strumento distinto, che garantisce stabilità al lavoratore e flessibilità all’impresa;
- i lavoratori assunti a tempo indeterminato dall’agenzia godono di tutele ulteriori, come la possibilità di ricollocazione in nuove missioni.
La pronuncia contribuisce a delimitare il campo di applicazione della normativa UE, confermando la legittimità di discipline nazionali che prevedono la somministrazione a tempo indeterminato.
Corte di Cassazione, ordinanza 24 settembre 2025, n. 26021.
Il datore deve provare di aver adottato tutte le misure per evitare l’infortunio.
Al lavoratore spetta invece dimostrare il danno e il nesso eziologico con le mansioni svolte.
Il lavoratore che agisce per il risarcimento del danno nei confronti del datore di lavoro ha l’onere di dare prova, da un lato, del nesso causale tra lo svolgimento delle proprie mansioni e l’infortunio occorso e, dall’altro, delle conseguenze che ne sono derivate, limitandosi, invece, ad allegare l’inadempimento datoriale.
Nel caso di specie un lavoratore agiva in giudizio per ottenere il riconoscimento di tutti i danni subiti in seguito a un infortunio sul lavoro: nello svolgimento delle sue mansioni di trafiliere, mentre tagliava un tondino di ferro con le forbici, veniva colpito all’occhio sinistro da un pezzo del metallo rimosso, riportando una gravissima lesione.
In primo luogo, la Cassazione chiarisce che la responsabilità ex art. 2087 c.c. è di carattere contrattuale, sicché il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno differenziale da infortunio sul lavoro si pone nei medesimi termini di cui all’art. 1218 c.c., con riferimento all’inadempimento delle obbligazioni. Il lavoratore deve pertanto allegare e provare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa, del danno, nonché il nesso causale di questo con la prestazione; il datore, d’altro canto, deve provare che il danno sia dipeso da causa a lui non imputabile, cioè di aver adempiuto al suo obbligo di sicurezza predisponendo tutte le misure atte a evitarlo.
Ciò detto, i giudici di legittimità evidenziano come il lavoratore avesse allegato e provato l’esatta dinamica del sinistro, nonché il nesso eziologico che lo connetteva al rapporto di lavoro: aveva, cioè, dimostrato che le lesioni subite erano state cagionate da un pezzo di ferro che si era conficcato nel suo occhio sinistro nel corso dello svolgimento della sua mansione. Da qui, avrebbe dovuto sorgere l’obbligo del datore di provare di aver adempiuto a tutte le prescrizioni di sicurezza necessarie in base alla lavorazione svolta.
In merito, la Corte precisa come l’oggetto dell’onere della prova a carico del datore attenga al rispetto di tutte le prescrizioni specificamente dettate dalla legge, nonché di quelle suggerite dall’esperienza, dall’evoluzione tecnica e dalla specificità del caso concreto, a maggior ragione quando l’esecuzione della prestazione sottopone il lavoratore a un particolare pericolo insito nella mansione, come può essere quella di tagliare un tondino di ferro con le forbici.
Inoltre, aggiungono i giudici di legittimità, quanto all’ampiezza della diligenza richiesta al datore, viene precisato come quest’ultimo rimanga responsabile altresì per la omessa predisposizione di tutte le misure e cautele idonee e preservare l’integrità psico-fisica del lavoratore, anche per la mancata vigilanza circa l’uso dei dispositivi di protezione individuale.
Ed è proprio quest’ultimo punto a essere centrale: il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al dipendente, sia quando ometta di adottare le misure protettive, sia quando, pur avendole adottate, non vigili affinché queste siano rispettate: la condotta colposa del dipendente non può avere alcun effetto esimente e neppure può rilevare ai fini del concorso di colpa. La Corte chiarisce infatti come il c.d. rischio elettivo, che comporta la responsabilità esclusiva del lavoratore, sussista solo laddove questi abbia posto in essere “un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante” rispetto al procedimento lavorativo e alle indicazioni ricevute, in forza di una scelta arbitraria volta a generare e ad affrontare una situazione diversa da quella inerente all’attività lavorativa, creando condizioni di rischio estranee alle normali modalità del lavoro da svolgere.
C.G.U.E. sentenza 38/24 del 11 settembre 2025.
Tutela dei diritti delle persone disabili – Estensione ai genitori di bambini disabili.
Con sentenza C-38/24 pubblicata l’11 settembre 2025 la Corte di Giustizia Europea ha affermato che il divieto di discriminazione indiretta fondata sulla disabilità, ai sensi della direttiva quadro sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000), si estende anche a un lavoratore che ne è vittima a causa dell’assistenza che fornisce a suo figlio, affetto da disabilità.
Secondo la Corte, per garantire l’uguaglianza tra i lavoratori, il datore di lavoro è tenuto ad adottare soluzioni ragionevoli idonee a consentire loro di fornire l’assistenza necessaria ai loro figli disabili, con il limite del carattere sproporzionato che tale onere potrebbe comportare per il datore di lavoro. Di conseguenza, il giudice nazionale dovrà verificare che, in tale causa, la domanda del lavoratore non costituisca un onere del genere.
Corte di Cassazione, sentenza 28 agosto 2025, n. 24100.
Legittimo il licenziamento del lavoratore ultras violento con la polizia.
La Cassazione fa chiarezza su passaggio in giudicato della condanna penale e tempestività della contestazione disciplinare.
In materia di licenziamento e condotte extralavorative, al fine di valutare la tempestività della sanzione disciplinare, deve farsi riferimento alla condanna in sede penale e al relativo passaggio in giudicato.
È questo il principio recentemente ribadito dalla Corte di Cassazione con la pronuncia n. 24100/2025, nell’ambito di una controversia che vedeva coinvolto un lavoratore, con la qualifica di operaio, licenziato per aver riportato una condanna ad una pena detentiva di otto mesi con sentenza passata in giudicato per delle azioni commesse al di fuori dal contesto lavorativo.
Il dipendente – punito per “oltraggio alle forze di polizia di stato e istigazione a commettere delitti di resistenza e delitti contro la persona” nonché per “aver offeso con più azioni […] l’onore e il prestigio di un pubblico ufficiale” – integrava detti reati nel contesto delle tifoserie calcistiche, anche mediante l’utilizzo di frasi gravemente ingiuriose.
Già la Corte d’Appello di Catania aveva affermato la legittimità del licenziamento, ponendo in evidenza la gravità dei fatti per i quali il dipendente veniva condannato in sede penale, in considerazione delle fattispecie incriminatrici violate, del concreto disvalore penale derivante dalla natura delle persone offese e dei beni giuridici tutelati nonché della reiterazione delle condotte nel corso di ben due anni. Il licenziamento veniva, pertanto, ritenuto giustificato per il motivo soggettivo, sebbene si trattasse di reati commessi al di fuori dell’attività lavorativa, stante la compromissione dell’elemento fiduciario che connota il rapporto di lavoro.
La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi su ricorso del lavoratore, conferma quanto statuito dal giudice di seconde cure: anche se tali azioni venivano commesse al di fuori dell’attività lavorativa, le stesse si sostanziavano in fatti gravi di negazione di valori etici e morali, tali da pregiudicare appunto la “statura morale” del lavoratore e da giustificarne il licenziamento disciplinare.
Nel caso in esame viene in rilievo anche un altro aspetto della questione, che attiene al tempo decorrente tra irrogazione della contestazione disciplinare e commissione del fatto: le condotte del dipendente erano note al datore sin dal 2010 e la sentenza della Corte d’Appello penale veniva emessa
nel dicembre del 2012; nessuna conoscenza ne aveva però il datore sino al mese di ottobre 2016, in cui veniva emessa la contestazione disciplinare. Ebbene, sul punto la Corte chiarisce come l’arco temporale tra i fatti e la loro contestazione debba decorrere dall’avvenuta conoscenza da parte del datore di lavoro della situazione contestata e non dall’astratta conoscibilità dei fatti stessi. Ad
un’attenta analisi, il “prudente indugio” del datore di lavoro che attende l’esito del processo penale prima di procedere alla contestazione disciplinare, si pone nell’interesse del lavoratore, che sarebbe altrimenti colpito da accuse avventate.
Ai fini della valutazione della tempestività della sanzione disciplinare deve, quindi, aversi riguardo alla
condanna in sede penale e al relativo passaggio in giudicato. Né assume rilievo la circostanza per cui il datore di lavoro si sia attivato per conoscere gli esiti del procedimento penale: quest’ultimo infatti ha il potere, ma non l’obbligo, di controllare in modo continuo i propri dipendenti, non essendo previsto dalla legge né desumibile dai principi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. Sicché, in conclusione, la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell’infrazione, bensì alla data in cui l’illecito “viene conosciuto in termini circostanziati”.
Corte di Cassazione sentenza n. 29 agosto 2025, n. 24204.
Il datore di lavoro non può visionare la e-mail degli ex dipendenti, considerati sleali, attraverso i server aziendali: i messaggi provengono comunque da account privati protetti da password ed i titolari non hanno concesso alcuna autorizzazione.
Lo afferma la Corte di Cassazione con la sentenza n. 24204/2025, richiamando il pronunciamento della Corte europea dei Diritti dell’uomo (ricorso 61496/08): le comunicazioni trasmesse dai locali dell’impresa rientrano nella nozione di vita privata e di corrispondenza e non sono consentiti controlli senza informativa su possibilità, forma e controllo degli accessi.
Sono illegittime la conservazione e la categorizzazione, da parte del datore di lavoro, dei dati personali dei dipendenti tratti da account privati. È quanto è tornata a sancire la Cassazione, confermando quanto deciso dalla Corte d’appello di Milano nell’ambito di una causa che vedeva contrapposta una società e alcuni ex dipendenti.
Nel dettaglio, le indagini e gli accessi da parte del datore di lavoro erano avvenuti a seguito delle dimissioni di un gruppo di dipendenti per intentare un’azione risarcitoria dei danni causati dai comportamenti sleali di detti dipendenti, accertati mediante consulenza tecnica informatica con riferimento a comunicazioni mail effettuate mediante account privati dei lavoratori.
In primo grado, il tribunale di Milano aveva accolto parzialmente il ricorso della società, relativamente all’utilizzabilità, nel procedimento, delle comunicazioni mail dei lavoratori, affermando che, sebbene fossero state estratte da account privati, erano state fatte confluire sul server aziendale, per cui la corrispondenza doveva considerarsi aperta e non chiusa. Di opposto avviso, i giudici d’appello, che avevano quindi respinto il ricorso del datore di lavoro, il quale, invece, sosteneva che la corrispondenza prodotta era stata “tutta rinvenuta sui sistemi informatici aziendali di sua proprietà“, quali personal computer e server e, quindi, “consultabile senza alcuna chiave di accesso” in quanto la società era titolare dei sistemi informatici e aziendali.
La Suprema Corte ha ritenuto corretta la decisione di secondo grado e ha rigettato il ricorso della società: “la posta acquisita dal datore di lavoro proveniva da account personali, sebbene inseriti sul server aziendale, per accedere ai quali occorreva una password“. La Corte d’ Appello – aggiunge la Cassazione – ha “correttamente applicato i principi” sanciti dalla sentenza della Corte di Strasburgo del 2017, nella quale “è stato affermato che le comunicazioni trasmesse dai locali dell’impresa nonché dal domicilio di una persona possono essere comprese nella nozione di ‘vita privata’ e di ‘corrispondenza’“
contenuta all’articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.
I criteri della CEDU e la tutela della privacy – La Cassazione rileva che nel giudizio di appello si è tenuto in considerazione anche dei criteri fissati dalla CEDU “in tema di rispetto dei principi della finalità
legittima (il controllo nelle sue varie forme deve essere giustificato da gravi motivi), della proporzionalità (il datore di lavoro deve scegliere, nei limiti del possibile, tra le varie forme e modalità di adeguato controllo, quelle meno intrusive) e della preventiva dettagliata informazione ai dipendenti sulle possibilità, forme e modalità del controllo in modo tale che, in ossequio alla necessità di contemperare le esigenze datoriali di controllo con quelle di tutela della privacy del dipendente, non è
stata ritenuta consentita un’attività di controllo massivo, mentre sono state considerate indispensabili le opportune informative in merito alla possibile attività di controllo, con esclusione, in tale ottica, di controlli preventivi proprio perché si esulerebbe dal piano difensivo‘”.
Nel caso in esame, osserva la Corte, i dipendenti avevano “precisato che non avevano impostato alcuna opzione per ricevere le mail personali sul medesimo applicativo di posta elettronica utilizzato sul pc aziendale e di non avere concesso alcuna autorizzazione“, mentre “la società non aveva dimostrato di avere impartito specifiche disposizioni finalizzate a regolamentare le modalità di controllo e/o di duplicazione della corrispondenza dei lavoratori“.
Ancora, la pronuncia osserva che, “anche in relazione ad una eventuale asserita equiparazione degli account dei lavoratori a quelli aziendali, è stato più volte precisato che in tema di tutela della riservatezza nello svolgimento del rapporto di lavoro, sono illegittime la conservazione e la categorizzazione dei dati personali dei dipendenti, relativi alla navigazione in Internet, all’utilizzo della posta elettronica ed alle utenze telefoniche da essi chiamate, acquisiti dal datore di lavoro attraverso impianti e sistemi di controllo la cui installazione sia avvenuta senza il positivo esperimento delle procedure di cui all’art. 4 della legge n. 300 del 1970. “
Le tutele dello Statuto dei Lavoratori trovano, pertanto, applicazione anche ai controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori quando comportino la possibilità di verifica a distanza dell’attività di questi ultimi ed in assenza dell’acquisizione del consenso individuale e del rilascio delle informative previste dal d.lgs. n. 196/2003 e del Regolamento UE n. 2016/679 (GDPR).
Tribunale di Bologna decreto del 22 settembre 2025.
Comunicazioni del datore di lavoro ai dipendenti e attività antisindacale.
Con decreto del 22 settembre 2025 il Tribunale di Bologna ha affermato che durante le trattative sindacali il datore di lavoro può comunicare al proprio personale la propria posizione relativa alle materie portate al tavolo negoziale, senza che ciò, pur se effettuato ripetutamente, possa essere considerato un ostacolo all’esercizio dell’attività sindacale.
Secondo il Tribunale non vi è violazione dell’articolo 28 della legge n. 300/1970, che è una disposizione finalizzata ad impedire la compromissione della libertà e dell’esercizio della suddetta attività: secondo il giudice i ripetuti comunicati non hanno scavalcato le organizzazioni sindacali, né hanno leso la loro immagine.
Tribunale di Ferrara, sentenza del 2 settembre 2025 n. 155.
La committente può far fronte allo sciopero impiegando suoi dipendenti.
L’azione per reprimere la condotta antisindacale non può essere diretta nei confronti di soggetti diversi dal datore.
Il procedimento di repressione della condotta antisindacale non può essere esteso nei confronti di soggetti terzi estranei al rapporto di lavoro ed, in particolare, rispetto al committente nell’ambito di un contratto di appalto.
A seguito della cessazione di un rapporto di appalto, i lavoratori, dipendenti dell’impresa appaltatrice, avevano proclamato uno sciopero di tre giornate, dal 28 al 30 aprile 2025; senonché, nel corso di tale arco temporale, l’azienda committente aveva sostituito i lavoratori scioperanti con dipendenti propri. Inoltre, la stessa committente aveva assunto, in quegli stessi giorni, 14 dipendenti dell’appaltatrice, divenendo datrice di lavoro degli scioperanti.
Detto comportamento, secondo l’organizzazione sindacale promotrice dell’astensione collettiva, integrava una condotta antisindacale, in quanto dannosa per l’efficacia della protesta.
Con ricorso presentato dinanzi al Tribunale di Ferrara, il sindacato agiva nei confronti della committente specificando, in punto di legittimazione passiva, come la nozione di “datore di lavoro” di cui all’art. 28 della L. 300/70 avrebbe dovuto essere interpretata in senso “logico” e “teleologico”, in considerazione delle mutazioni dei rapporti di lavoro e della frammentazione delle attività d’impresa: l’utilizzatrice sarebbe quindi un soggetto passivamente legittimato, in quanto parte attiva nel conflitto e destinataria delle richieste sindacali. L’organizzazione sindacale sosteneva, poi, come dovesse ravvisarsi un’ipotesi di crumiraggio esterno (che si sostanzia nell’assunzione di personale esterno da parte del datore di lavoro che subisce lo sciopero dei propri dipendenti) per aver, l’impresa committente, sostituito i lavoratori scioperanti con propri dipendenti.
D’altro canto, l’impresa eccepiva il difetto di legittimazione passiva rispetto all’azione di cui all’art. 28 della L. 300/70, specificando altresì come, una volta aver preso atto della proclamazione dello sciopero, la stessa si era organizzata impiegando 15 propri dipendenti; ciononostante, lo sciopero aveva comunque generato un calo produttivo. Inoltre, la datrice evidenziava che i 14 lavoratori assunti – ex dipendenti dell’appaltatrice – non erano stati utilizzati per minimizzare i pregiudizi dello sciopero, avendo il rapporto decorrenza dal 1° maggio 2025.
Investito della controversia, il Tribunale estense chiarisce in prima battuta come la committente abbia utilizzato il proprio personale – già in forze – per fronteggiare l’impatto dello sciopero, non assumendo quindi personale esterno neanche tra gli ex dipendenti dell’appaltatrice. Viene rilevato come, nella fattispecie, non possa ravvisarsi un’ipotesi di crumiraggio esterno: in primo luogo, la sostituzione degli scioperanti non avveniva ad opera della datrice ed, in secondo luogo, la committente usava personale interno, senza effettuare nuove assunzioni.
A ben vedere, la sostituzione operata nel caso di specie era solo parziale, temporanea e non neutralizzava l’azione sindacale, posto che l’azienda subiva contraccolpi nella sua attività produttiva, né può acquisire rilievo l’assunzione di una parte del personale scioperante, dal momento che il rapporto di lavoro avrebbe avuto inizio dal 1° maggio, cioè dal giorno successivo all’ultimo giorno dello sciopero.
Infine, per quanto attiene ai profili inerenti alla legittimazione passiva della committente, il giudice di Ferrara chiarisce come l’art. 28 della L. 300/70 possa essere utilizzato per reprimere le condotte ritenute antisindacali poste in essere esclusivamente dal datore di lavoro e non anche da parte di soggetti estranei al rapporto (a meno che la condotta sia materialmente posta in essere da terzi, ma comunque riconducibile al datore; nel qual caso, l’azione sarà “certamente proponibile” nei confronti di quest’ultimo). In tal senso è il dato letterale della norma, la quale fa espresso riferimento, quale soggetto passivo del procedimento, al datore: “[q]ualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti […]”.
Detta argomentazione può valere anche in presenza di fenomeni di “sdoppiamento” tra la figura del datore di lavoro e quella dell’utilizzatore della prestazione posto che, da un lato, la norma introduce un procedimento speciale, non potendo essere pertanto interpretata analogicamente e che, dall’altro, il datore di lavoro è il soggetto sul quale gravano gli obblighi in materia di diritti sindacali; solo quest’ultimo può ledere le prerogative sindacali in materia di tutela dei lavoratori. Infine, dovendo il giudice emettere un provvedimento di condanna alla cessazione della condotta e di rimozione degli effetti, il destinatario può essere soltanto il datore di lavoro: l’ordine del giudice, rafforzato da sanzioni penali in caso di non ottemperanza, non potrebbe essere indirizzato nei confronti di un soggetto terzo.