Novita’ normative
Legge 12 luglio 2024, n. 101 (G.U. n. 163 del 13 luglio 2024) recante “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 15 maggio 2024, n. 63, recante disposizioni urgenti per le imprese agricole, della pesca e dell’acquacoltura, nonché’ per le imprese di interesse strategico nazionale”.
La legge in esame converte il c.d. Decreto Agricoltura, con cui, il legislatore ha introdotto misure a sostegno delle imprese agricole, della pesca e acquacoltura e nuove regole per l’installazione di impianti fotovoltaici in terreni agricoli.
Il provvedimento normativo ha introdotto una serie di misure finalizzate ad incrementare i controlli sul lavoro.
Innanzitutto, dispone i fondi sia per provvedere all’assunzione di un totale 514 ispettori tra INPS e INAIL, sia per investire in strumentazioni informatiche. Infatti, presso il Ministero del Lavoro, viene istituito un Sistema informativo per la lotta al caporalato nell’agricoltura, volto alla condivisione delle informazioni tra amministrazioni statali e regioni, per consentire lo sviluppo di una strategia volta al contrasto del caporalato, oltre a favorire l’evoluzione qualitativa del lavoro agricolo.
Inoltre, per rafforzare i controlli sugli appalti nel settore agricolo, è stata prevista anche l’istituzione presso l’INPS di una banca dati degli appalti in agricoltura. L’iscrizione alla banca dati sarà obbligatoria per le imprese che intendono partecipare ad appalti in cui l’impresa committente sia un’impresa agricola di cui all’art. 2135 c.c. e che sono imprese non agricole singole ed associate che svolgono servizi di raccolta di prodotti agricoli, nonché ad attività di cernita, pulitura e imballaggio dei prodotti ortofrutticoli, sia le imprese che effettuano lavori e servizi di sistemazione e di manutenzione agraria e forestale, di imboschimento, di creazione, sistemazione e manutenzione di aree a verde.
Le stesse imprese dovranno anche attivare una polizza fideiussoria assicurativa, da rilasciare al committente, a garanzia dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, nonché delle retribuzioni spettanti i lavoratori dipendenti dell’impresa stessa impiegati nell’appalto. In assenza di tale polizza verrà applicata
una sanzione amministrativa, che grava tanto sul committente quanto sull’appaltatore e che oscilla tra un minimo di Euro 5.000 ad un massimo di Euro 15.000. L’irrogazione della stessa impedirà, inoltre, per un periodo di un anno a decorrere dalla notifica dell’illecito, l’iscrizione o la permanenza dell’impresa committente nella Rete del lavoro agricolo di qualità.
Il D.Lgs. 12 luglio 2024, n. 103, recante misure di semplificazione dei controlli sulle attività economiche, potrebbe incidere anche sui controlli in materia di lavoro e legislazione sociale.
L’art. 1 del citato decreto, nel definire l’ambito di applicazione, fa un generico riferimento ai controlli amministrativi sulle attività economiche svolti dalle Pubbliche Amministrazioni, tra le quali appare difficile escludere l’Ispettorato nazionale del Lavoro. Di seguito si analizzano alcune delle nuove disposizioni che entreranno in vigore il prossimo 2 agosto 2024 e che rischiano di confliggere con istituti attualmente utilizzati dal personale ispettivo.
L’art. 6 si occupa delle violazioni sanabili e stabilisce che, per le infrazioni per le quali è prevista l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria non superiore nel massimo ad Euro 5.000, l’organo di controllo incaricato, nel caso in cui accerti, per la prima volta nell’arco di un quinquennio, l’esistenza di violazioni sanabili, diffida l’interessato a porre fine alla violazione, ad adempiere alle prescrizioni trasgredite ed a rimuovere le conseguenze dell’illecito amministrativo entro un termine non superiore a venti giorni dalla data della notificazione dell’atto di diffida.
Tale istituto presenta aspetti comuni e aspetti differenti rispetto alla diffida obbligatoria di cui all’art. 13, comma 2 D.Lgs. n. 124/2004, operativa ad oggi per le verifiche ispettive in materia di lavoro.
Tra i tratti comuni vi rientrano: (i) la finalità: entrambi si applicano ai casi di irregolarità sanzionate in via amministrativa con la finalità di indurre il trasgressore ad eliminare le conseguenze dannose; (ii) il risultato: per entrambe le procedure, il risultato finale dell’attività sanante e, quindi, dell’ottemperanza alla diffida, è quello di estinguere il procedimento sanzionatorio limitatamente alle inosservanze sanate.
Tra le differenze invece rilevano: (i) i termini: il termine per ottemperate è pari a 30 giorni per la diffida ex art. 13, mentre è di 20 giorni per la nuova diffida; (ii) apparato sanzionatorio: l’ottemperanza alla diffida ex art. 13, comporta l’applicazione di un importo sanzionatorio, commisurato nel minimo edittale previsto ovvero nel quarto della misura fissa, mentre la diffida ex art. 6 D.Lgs. n. 103/2024 consente al trasgressore di non andare incontro ad alcuna sanzione, la quale troverà applicazione nel solo caso di mancata ottemperanza.
Al fine di coordinare i due istituti occorre fare riferimento a quanto previsto dall’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 6, in ragione del quale la diffida amministrativa ivi disciplinata non si applica a violazioni di obblighi o adempimenti che riguardano la tutela della salute, la sicurezza e l’incolumità pubblica e la sicurezza sui luoghi di lavoro.
Con risposta ad interpello n. 142 del 24 giugno 2024 l’Agenzia delle Entrate ha risposto ad un quesito in merito alla dematerializzazione delle note spese e dei documenti che giustificano le spese sostenute dai dipendenti durante le trasferte di lavoro, in prevalenza per servizi di trasporto tramite taxi, saldati utilizzando, di regola, la carta di credito aziendale.
Il parere fornito dall’Agenzia si può così riassumere:
• quando si parla di documenti informatici qualsiasi considerazione non può prescindere dal D.Lgs. n. 82/2005 (c.d. Codice dell’Amministrazione Digitale o CAD) e dai relativi decreti attuativi;
• qualunque documento informatico avente rilevanza fiscale ossia qualunque documento elettronico che contiene la rappresentazione di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti ai fini tributari come le note spese che verranno poi utilizzate per la deducibilità dei relativi costi ai sensi del D.P.R. n. 917/1986, deve possedere, tra le altre, le caratteristiche della immodificabilità, integrità ed autenticità. Laddove tali accorgimenti siano effettivamente presenti, nulla osta a che i documenti analogici siano sostituiti da quelli informatici sopra descritti e che la procedura sia interamente dematerializzata;
• restano fermi tutti gli ulteriori requisiti legislativamente individuati per la deducibilità dei costi (quali inerenza, competenza e congruità e le modalità di imputazione dei redditi in capo ai soggetti rimborsati);
- ove sia richiesta la fattura, dal 1° gennaio 2024, è obbligatorio che la stessa sia emessa elettronicamente tramite il c.d. Sistema di Interscambio (SdI).;
• in merito all’efficacia probatoria delle copie per immagine di documenti analogici, si rammenta che l’art. 22 del D.Lgs. n. 82/2005 (c.d. CAD) stabilisce che, «1 bis. La copia per immagine su supporto informatico di un documento analogico è prodotta mediante processi e strumenti che assicurano che il documento informatico abbia contenuto e forma identici a quelli del documento analogico da cui è tratto, previo raffronto dei documenti o attraverso certificazione di processo nei casi in cui siano adottate tecniche in grado di garantire la corrispondenza della forma e del contenuto dell’originale e della copia”.
Garante per la Protezione dei Dati Personali, provvedimento 6 giugno 2024, n. 338.
Utilizzo di sistemi di riconoscimento facciale per il controllo delle presenze sul posto di lavoro e di un gestionale per il rilievo dei tempi e delle pause di lavoro: violazione della disciplina a tutela dei dati personali.
Il Garante Privacy è intervenuto a seguito del reclamo di un dipendente di una concessionaria di automobili che lamentava il trattamento illecito di dati personali tramite un sistema di rilevazione dei dati biometrici dei lavoratori. Il lavoratore lamentava inoltre l’utilizzo di un software con cui ciascun dipendente era tenuto a registrare gli interventi di riparazione svolti sui veicoli assegnati, i tempi e le modalità di esecuzione dei lavori, nonché le pause e i tempi di inattività.
L’Autorità, in tale occasione, ha ribadito che il trattamento dei dati biometrici non è ad oggi consentito stante il fatto che non esiste alcuna norma che ne preveda l’utilizzo per la rilevazione delle presenze. Il datore di lavoro, infatti, è tenuto ad utilizzare strumenti di controllo meno invasivi tra i quali vi rientra, ad esempio, il badge.
Lo stesso Garante ha ricordato che il consenso prestato dai dipendenti non può in ogni caso essere considerato tale da ammettere la liceità dei suddetti sistemi di controllo altamente invasivi, in quanto vi è una evidente asimmetria tra le parti del rapporto di lavoro.
Anche l’utilizzo del software è stato sanzionato in quanto la Società non aveva fornito riscontri precisi sul trattamento effettuato, sulla natura e la tipologia dei dati trattati, sull’effettiva necessità e proporzionalità del trattamento rispetto alle finalità da perseguire, peraltro senza nemmeno fornire un’adeguata informativa a riguardo ai dipendenti.
Novita’ GIURISPRUDENZIALI
Corte Costituzionale, sentenza 16 luglio 2024, n. 129.
Tutele crescenti: sì alla reintegrazione in caso di mancanze disciplinari tipicizzate dal CCNL con sanzione conservativa.
Era stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2 del D.Lgs. n. 23/2015 (in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 2, 34, 35, 36, 39, 40 41 e 76 Cost.) in un giudizio relativo all’impugnazione, con conseguente richiesta di tutela reintegratoria, di un licenziamento disciplinare motivato da mancanze risultate esistenti, ma che il CCNL applicabile sanzionava con una misura conservativa del rapporto. Con una decisione, che ricostruisce puntualmente il quadro normativo di contenimento della libertà di recesso del datore di lavoro (e relativa disciplina sanzionatoria), nel suo sviluppo nel tempo dalla L. n. 604/66 a quella n. 300/70, dalla L. n. 92/2012 al D.Lgs. n. 23/2015 (applicabile ai neo-assunti dal 7 marzo 2015), la Corte dichiara infondata la questione sotto ogni profilo considerato. Ma, in riferimento all’art. 39 Cost., il giudizio è condizionato ad una interpretazione adeguatrice della norma, con riferimento all’ipotesi in cui la contrattazione collettiva tipicizzi specifiche ipotesi di mancanze disciplinari cui ricolleghi una sanzione conservativa. Attraverso tale interpretazione, la Corte giunge ad equiparate, sul piano sanzionatorio della reintegrazione c.d. minore, questa ipotesi a quella, esplicitamente considerata dalla legge, di insussistenza del fatto materiale contestato.
Corte Costituzionale, sentenza 16 luglio 2024, n. 128.
Jobs Act incostituzionale per assenza della tutela reintegratoria se il fatto che giustifica il licenziamento per giustificato motivo oggettivo risulti insussistente.
Era stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 1 e 2 del D.Lgs. n. 23/2015, nella parte in cui, in presenza dei prescritti requisiti dimensionali aziendali, non prevede la tutela reintegratoria in caso di insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (di dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015). La questione era stata sollevata nel giudizio di impugnazione di un licenziamento, in cui era risultata l’insussistenza del fatto oggettivo che lo avrebbe dovuto giustificare. La Corte, nell’accogliere le questioni con riferimento agli artt. 3, 4 e 35 Cost., ricorda il principio della necessaria causalità del licenziamento, posto a garanzia del lavoratore. In assenza della causa (insussistenza del fatto posto a suo fondamento), il licenziamento degrada a mero recesso senza causa, risultando di conseguenza illegittimo. Da qui il giudizio di irragionevolezza della diversità di trattamento dell’assenza di causa a seconda che questa sia legata a motivi soggettivi (nel qual caso la tutela è di reintegrazione) o a ragioni oggettive (mera tutela indennitaria). Conclusione sostenuta anche dalla possibilità di un uso distorto del licenziamento per causa oggettiva che mascheri una ragione soggettiva, escludendo così il rischio della reintegrazione per insussistenza del fatto contestato.
Corte di Cassazione, ordinanza 8 luglio 2024, n. 18547.
È ritorsivo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo dopo il rifiuto del part-time?
La Corte di Cassazione con tale ordinanza ha chiarito che, mentre il licenziamento motivato dall’esigenza di trasformazione del part time in full time o viceversa va ritenuto ingiustificato alla luce dell’art. 8, comma 1 D.Lgs. n. 81/2015, il licenziamento intimato a seguito del rifiuto del part time deve essere considerato ritorsivo, in quanto mosso dall’esclusivo e determinante fine di eludere il divieto di cui all’art. 8 D.Lgs. n. 81/2015 attraverso una ingiusta ed arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore, che attribuisce al licenziamento il connotato della vendetta.
Al licenziamento ritorsivo, essendo riconducibile ad un caso di nullità del recesso previsto dell’art. 1345 c.c., si applica la tutela reintegratoria.
Corte di Cassazione, ordinanza 8 luglio 2024, n. 18529.
Valida l’impugnazione del licenziamento avvenuta con l’invio via PEC da parte del difensore di un documento Word.
I giudici di merito avevano dichiarato la decadenza del ricorso di impugnazione di un licenziamento in quanto avvenuto per mezzo di invio tramite PEC, da parte del difensore del prestatore di lavoro, di un semplice file Word non sottoscritto e contenente il ricorso, anziché nella forma prescritta dal D.Lgs. n. 82/2005, ossia con l’invio di copia informatica di documento analogico. La Cassazione, nell’accogliere il ricorso del lavoratore, osserva che: (i) la soluzione formalistica adottata dai giudici di merito contrasta con la costante applicazione sostanzialistica dell’art. 6 L. n. 604/1966 praticata dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, quel che conta ai fini della validità dell’atto di impugnazione, è che esso sia idoneo a far conoscere con la dovuta certezza la volontà inequivoca di impugnare il licenziamento; (ii) nel caso di specie, tale idoneità sussiste senz’altro, dal momento che la società datrice non ha mai sostenuto che dal file Word allegato alla PEC non emergesse con chiarezza la volontà di impugnare il licenziamento o che il suo contenuto sia stato modificato; (iii) anche la mancata sottoscrizione del documento deve considerarsi priva di rilevanza, avendo la giurisprudenza di legittimità in più occasioni ribadito il principio per cui la produzione in giudizio di una scrittura, priva di firma da parte di chi avrebbe dovuto sottoscriverla, equivale a sottoscrizione, a condizione che tale produzione avvenga ad opera della parte stessa.
Corte di Cassazione, ordinanza 2 luglio 2024, n. 18094.
Sul licenziamento del disabile assunto obbligatoriamente causato dalla variazione organizzativa del lavoro.
Nella vicenda in esame, la Corte d’appello aveva ritenuto legittimo il licenziamento di un dipendente disabile, il quale era stato in precedenza assunto obbligatoriamente, a causa dell’esternalizzazione del servizio cui era addetto e dell’impossibilità di adibirlo ad altre mansioni, tenuto anche conto delle limitazioni conseguenti alla sua condizione di disabilità. La Cassazione accoglie il ricorso del dipendente e ricorda che il licenziamento per significative variazioni dell’organizzazione del lavoro (come anche per l’aggravarsi delle condizioni di salute) di un disabile assunto obbligatoriamente deve necessariamente seguire, a pena di invalidità (e nel caso esaminato ciò non è avvenuto), la procedura prescritta dal comma 3 dell’art. 10 L. n. 68/1999, che prevede l’accertamento da parte di una speciale Commissione integrata dell’eventuale impossibilità definitiva di reinserire il soggetto all’interno dell’azienda, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro.
Corte di Cassazione, sentenza 27 giugno 2024, n. 17715.
Un caso di licenziamento per abuso del whistleblowing.
La vicenda riguarda l’impugnazione del licenziamento di una dirigente pubblica, intimatole per avere trasmesso una sua segnalazione whistleblowing con gravi accuse a carico di un superiore, poi rivelatesi infondate e per avere successivamente pubblicato su una nota piattaforma social gli frammenti di una conversazione con un collega registrata di nascosto. La Cassazione, nel confermare la legittimità del recesso, si sofferma sui limiti delle tutele (invocate dalla dirigente) che l’ordinamento offre al whistleblower contro possibili ritorsioni, osservando che: (i) sebbene una registrazione di conversazioni tra un dipendente e i suoi colleghi presenti, all’insaputa dei conversanti, non sia in assoluto abusiva, essa appare legittima solo se svolta per finalità difensive in giudizio; (ii) il sistema di tutela del whistleblower opera solo nei confronti di chi segnala notizie di un’attività illecita, senza che sia ipotizzabile una tacita autorizzazione a improprie e illecite azioni di indagine per acquisire tali notizie; (iii) più in generale, deve escludersi l’applicabilità della disciplina di tutela del whistleblowing ogni qualvolta il segnalante agisca per scopi essenzialmente di carattere personale o per contestazioni o rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro nei confronti di superiori; (iv) nel caso di specie, essendo stato accertato che la dirigente, allorché aveva diffuso il contenuto della propria segnalazione e gli stralci della conversazione registrata di nascosto, aveva agito con il solo intento di gettare discredito sui colleghi, non vi è spazio per invocare le tutele previste dalla legge.
Corte di Cassazione, ordinanza 20 giugno 2024, n. 17036.
Repêchage senza obbligo di formazione da parte del datore di lavoro.
L’ordinanza conferma il rigetto delle domande di due dipendenti autisti, dirette all’annullamento del loro licenziamento per soppressione del posto di lavoro in ragione del mancato adempimento del datore di lavoro all’onere di repêchage in mansioni inferiori disponibili di addetto mensa. In proposito, la Corte, essendo stato accertato in giudizio che i ricorrenti, per occupare la mansione disponibile di addetto mensa avrebbero dovuto seguire un periodo annuale di formazione, ribadisce che l’obbligo di repêchage in mansioni equivalenti o inferiori è limitato, nell’art. 2103 c.c., alle attitudini e alla formazione di cui il dipendente sia dotato al momento del divisato licenziamento e non comporta per il datore di lavoro un obbligo di formazione nelle nuove mansioni, ma gli impone unicamente di provare che il lavoratore non abbia la capacità professionale richiesta per ricoprirle.
Corte di Cassazione, ordinanza 14 giugno 2024, n. 16630.
Sulla scadenza del termine stabilito per la revoca del licenziamento.
Una lavoratrice licenziata per giustificato motivo oggettivo, avendo ricevuto un telegramma di revoca del licenziamento il 16° giorno successivo dall’impugnazione dello stesso, aveva dichiarato inefficace la revoca a norma del comma 10 dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori e si era rifiutata di riprendere servizio (esponendosi ad un secondo subordinato licenziamento per giusta causa). Nel giudizio promosso dalla lavoratrice, il problema da risolvere era se i quindici giorni dalla ricezione dell’impugnazione del licenziamento prescritti per l’efficacia della revoca dello stesso dalla norma di legge citata abbiano come scadenza il giorno della ricezione della revoca oppure della semplice spedizione, che nel caso in esame era stata effettuata il giorno precedente.
In proposito, la Corte rileva che il comma 10 dell’art. 18 dello Statuto, stabilisce che la revoca va effettuata nei quindici giorni dalla comunicazione dell’impugnazione del licenziamento medesimo: di conseguenza, poiché il dato testuale non fa alcun riferimento alla comunicazione della revoca all’interessato, induce a ritenere sufficiente il mero invio della stessa al lavoratore nel termine prescritto e non anche la ricezione da parte del medesimo.
Corte di Cassazione, sentenza 12 luglio 2024, n. 19185.
Nullo il licenziamento durante il Covid-19 se il rifiuto del dipendente di passare al nuovo appaltatore è giustificato.
Durante il periodo pandemico dovuto al Covid-19, il legislatore aveva vietato o sospeso temporaneamente i licenziamenti collettivi e quelli per giustificato motivo oggettivo, “salvo le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore…”. In un giudizio in cui la Corte d’appello aveva dichiarato la nullità, con conseguente reintegrazione forte, del licenziamento, in periodo di blocco, di un dipendente che si era rifiutato di trasferirsi presso il nuovo appaltatore, la Cassazione rigetta il ricorso della società e osserva che: (i) ai sensi del primo comma dell’art. 46, D.L. n. 18/2020, per come riformulato dalla Legge di conversione n. 27/2020, la condizione per la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (in vigenza del divieto per Covid-19) è rappresentata dalla nuova assunzione del lavoratore da parte dell’appaltatore subentrante; (ii) tuttavia, se la nuova assunzione non si verifica a causa della mancata accettazione della proposta da parte del lavoratore, il licenziamento potrà considerarsi legittimo se il rifiuto si ponga in contrasto con i principi di correttezza e buona fede; (iii) tale condizione nel caso di specie non è presente, viste le modifiche peggiorative cui sarebbe andato incontro il lavoratore con il passaggio alle dipendenze del nuovo datore di lavoro. Di conseguenza, il licenziamento deve considerarsi illegittimo; (iv) il divieto di licenziamento posto dal citato art. 46, in quanto precetto con un contenuto specifico, preciso e individuato, nonché rispondente a interessi pubblici fondamentali, è da ricondurre alla categoria delle norme imperative, la cui violazione determina la nullità dell’atto di recesso ai sensi dell’art. 1418, co. 1, c.c., con conseguente reintegrazione forte del dipendente.
Corte di Cassazione, ordinanza 3 luglio 2024, n. 18263.
No alla sospensione del dipendente che si è dimesso con preavviso.
Un dirigente, dopo aver reso le proprie dimissioni con preavviso, era stato immediatamente privato da parte dell’azienda del telefono aziendale e del computer oltre ad essere stato invitato a non presentarsi in azienda, fermo restando il pagamento della retribuzione. Non ottenendo chiarimenti, al quinto giorno successivo il dirigente si era dimesso per giusta causa. Nel corso del
giudizio, la Corte d’Appello aveva disatteso la sua domanda di indennità sostitutiva del preavviso, in considerazione della brevità del periodo di cinque giorni di sospensione dal servizio. Questa previsione è stata cassata dalla Corte di Cassazione, la quale rileva che, a parte la considerazione che la sospensione era stata assunta senza determinazione di durata, quest’ultima costituisce solo uno dei possibili indici della gravità del fatto riconducibile alla nozione di giusta causa di dimissioni. Con essa occorre infatti valutare anche le modalità (nel caso in esame, repentine e umilianti) con le quali era stata attuata la sospensione, da ritenere del tutto illegittima in quanto unilaterale e non correlata a colpe del dipendente, a fronte dell’esercizio, da parte di quest’ultimo, del diritto soggettivo di recedere con preavviso.
Tribunale di Milano, sentenza 24 giugno 2024, n. 2195.
Dimissioni per giusta causa: l’INPS non può limitare la concessione della NASpI ad alcune soltanto delle ipotesi legittimanti le dimissioni.
Il Tribunale di Milano ha riconosciuto il diritto a percepire il trattamento di disoccupazione ad un lavoratore che, dopo avere rivolto richieste e diffide al proprio datore di lavoro, si era dimesso per giusta causa motivata dal mancato riconoscimento del corretto inquadramento contrattuale rispetto alle nuove mansioni svolte.
L’Istituto lo aveva negato ritenendo che la giusta causa di dimissioni legittimasse l’accesso alla NASpI solo in casi ritenuti più gravi quali il mancato pagamento della retribuzione, la dequalificazione professionale, le molestie sessuali. Il Tribunale, accertata la sussistenza dei fatti contestati dal lavoratore al datore di lavoro, censura la tesi riduttiva dell’Istituto. Il Giudice nega altresì rilevanza ostativa al fatto che lavoratore e azienda avessero raggiunto un accordo conciliativo, ritenuto anzi conferma della rilevanza della controversia.
Corte d’Appello di Brescia, sentenza 14 giugno 2024, n. 372.
In caso di pluralità di contratti di somministrazione che si susseguono senza soluzione di continuità il termine di impugnazione inizia a decorrere dalla data di cessazione effettiva dell’attività presso l’utilizzatore.
Così ha statuito la Corte d’Appello di Brescia in relazione alla decadenza dall’azione volta ad ottenere la costituzione del rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore, prevista ai sensi del comma 2 dell’art. 39 del D.Lgs. n. 81/2015. Il lavoratore, quindi, ha l’onere di impugnare i contratti di lavoro ritenuti illegittimi entro il termine di 60 giorni che decorre dalla data in cui è effettivamente e definitivamente cessato il rapporto con l’utilizzatore, non avendo alcun rilievo che tale rapporto sia il risultato di un susseguirsi, senza soluzione di continuità, di contratti di lavoro somministrato a termine.
Corte di Cassazione, sentenza 7 giugno 2024, n. 15957.
L’ambiente di lavoro stressogeno legittima il risarcimento del danno.
La Corte d’Appello aveva rigettato la domanda di una dipendente del Ministero dell’Istruzione diretta ad ottenere il risarcimento del danno per le vessazioni subite da colleghi e superiori, evidenziando che dalle risultanze testimoniali risultava che le difficoltà relazionali erano imputabili anche alla stessa lavoratrice. La sentenza tuttavia è stata cassata dai giudici di legittimità, i quali osservano che, in materia di tutela della salute nell’ambiente di lavoro, è stato ripetutamente affermato come un “ambiente lavorativo stressogeno” sia configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2087 c.c.