NEWSLETTER 4/2025

Novita’ normative

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha emanato la circolare n. 6 del 27 marzo 2025, con la quale illustra i principali interventi attuati con il cosiddetto “Collegato lavoro” (legge 13 dicembre 2024 n. 203 recante “Disposizioni in materia di lavoro”) e fornisce le prime indicazioni operative.

Segnaliamo in particolare:

  • Somministrazione di lavoro.

•        Computo della durata: per i contratti stipulati tra agenzia e utilizzatore a decorrere dal 12 gennaio 2025, data di entrata in vigore della legge n. 203/2024, il computo dei 24 mesi di lavoro dei lavoratori somministrati, deve tenere conto di tutti i periodi di missione a tempo determinato intercorsi tra le parti successivamente alla data considerata, senza computare le missioni già svolte in vigenza della precedente disciplina. Inoltre, le missioni in corso alla data di entrata in vigore della legge n. 203/2024, svolte in ragione di contratti tra agenzia e utilizzatore stipulati antecedentemente al 12 gennaio 2025, potranno giungere alla naturale scadenza, fino alla data del 30 giugno 2025, senza che l’utilizzatore incorra nella sanzione della trasformazione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro con il lavoratore somministrato. Tuttavia, in quest’ultima ipotesi i periodi di missione maturati successivamente alla data del 12 gennaio dovranno essere scomputati dal limite dei complessivi 24 mesi, previsti dall’articolo 19 del decreto legislativo n. 81/2015.

•        Lavoratori a termine esclusi dal limite quantitativo del 30% rispetto al numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore: tutti quelli assunti in fase di avvio di nuove attività; da start- up innovative; per lo svolgimento di attività stagionali; per lo svolgimento di specifici programmi o spettacoli; per la sostituzione di lavoratori assenti; con lavoratori over 50; lavoratori inviati in missione a tempo determinato, se assunti dal somministratore con contratto di lavoro a tempo indeterminato.

•        Esclusione dall’obbligo di indicare la causale: non trova applicazione l’obbligo di indicazione delle causali stabilite per le assunzioni con contratto a tempo determinato di durata superiore a dodici mesi in caso di assunzioni a tempo determinato effettuate dalle agenzie per il lavoro di: soggetti disoccupati che godono da almeno sei mesi di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali; lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati, identificati ex regolamento (UE) n. 651/2014 ed ex decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali 17 ottobre 2017.

  • Lavoro stagionale. L’art. 11 L. 203/2024, fornisce l’interpretazione autentica dell’articolo 21 del decreto legislativo 81/2015, n. 81 in materia di attività stagionali chiarendo che “rientrano nelle attività stagionali, anche quelle organizzate per fare fronte a intensificazioni dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno, nonché a esigenze tecnico produttive o collegate ai cicli stagionali dei settori produttivi o dei mercati serviti dall’impresa, secondo quanto previsto dai contratti collettivi di lavoro, ivi compresi quelli già sottoscritti alla data di entrata in vigore della presente legge, stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative nella categoria”.

Come norma di interpretazione autentica, inoltre, l’articolo 11:

•        ha natura retroattiva e trova, quindi, applicazione anche per i contratti collettivi firmati prima della sua entrata in vigore.

•        considera stagionali non solo le tradizionali attività legate a cicli stagionali ben definiti, ma anche quelle indispensabili a far fronte ad intensificazioni produttive in determinati periodi dell’anno o a soddisfare esigenze tecnico-produttive collegate a specifici cicli dei settori produttivi o dei mercati serviti dall’impresa.

Spetterà alla contrattazione collettiva chiarire specificamente – non limitandosi ad un richiamo formale e generico della nuova disposizione– in che modo, in concreto, quelle caratteristiche si riscontrino nelle singole attività definite come stagionali, al fine di superare eventuali questioni di conformità rispetto al diritto europeo.

  • Periodo di prova nei contratti a termine: fatte salve le disposizioni più favorevoli della contrattazione collettiva la durata del periodo di prova è stabilita in un giorno di effettiva prestazione per ogni quindici giorni di calendario a partire dalla data di inizio del rapporto di lavoro e, in ogni caso, la durata del periodo di prova non può essere inferiore a due giorni, né superiore a quindici giorni (per i rapporti di lavoro aventi durata non superiore a sei mesi) e a trenta giorni (per quelli aventi durata superiore a sei mesi e inferiore a dodici mesi). La norma trova applicazione per i contratti di lavoro instaurati a far data dall’entrata in vigore della legge in esame, quindi dal 12 gennaio 2025.
  • Comunicazioni in materia di lavoro agile: per la comunicazione dell’avvio e della cessazione delle prestazioni di lavoro in modalità agile e delle eventuali modifiche della durata originariamente prevista viene fissato nel termine di cinque giorni decorrente non dalla data di sottoscrizione del contratto, bensì da quello dell’effettivo inizio della prestazione di lavoro in modalità agile.
  • Dimissioni per fatti concludenti: l’articolo 19 della L. 203/2024, n. 203 ha modificato l’articolo 26 del decreto legislativo 151/2015, n. 151 in materia di “Dimissioni volontarie e risoluzione consensuale”, introducendo il comma 7-bis, il quale stabilisce che: “In caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a quindici giorni, il datore di lavoro ne dà comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che può verificare la veridicità della comunicazione medesima. Il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina prevista dal presente articolo. Le disposizioni del secondo periodo non si applicano se il lavoratore dimostra l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza”.

Tale disposizione ha pertanto affermato che:

•        la possibilità che il rapporto di lavoro si concluda per effetto delle cosiddette dimissioni per fatti concludenti (o dimissioni implicite), consentendo al datore di lavoro di ricondurre un effetto risolutivo al comportamento del lavoratore consistente in una assenza ingiustificata, prolungata per un certo periodo di tempo;

•        tale effetto risolutivo non discende automaticamente dall’assenza ingiustificata, ma si verifica solo nel caso in cui il datore di lavoro decida di prenderne atto, valorizzando la presunta volontà dismissiva del rapporto da parte del lavoratore e facendone derivare la conseguenza prevista dalla norma;

•        per quanto concerne la durata dell’assenza che può determinare la configurazione delle dimissioni per fatti concludenti, in mancanza di specifica previsione nel CCNL applicato al rapporto di lavoro, dovrà essere superiore a quindici giorni che possono intendersi come giorni di calendario, ove non diversamente disposto dal CCNL applicato al rapporto di lavoro;

•        quello individuato dalla legge costituisce il termine legale minimo perché il datore – a partire, quindi, dal sedicesimo giorno di assenza – possa darne specifica comunicazione all’Ispettorato territoriale del lavoro. La suddetta comunicazione opera anche quale dies a quo per il decorso del termine di cinque giorni previsto per effettuare la relativa comunicazione obbligatoria di cessazione del rapporto di lavoro tramite il modello UNILAV;

•        il datore di lavoro – laddove intenda far valere l’assenza ingiustificata del lavoratore, protrattasi oltre i termini sopra indicati, ai fini della risoluzione del rapporto di lavoro per dimissioni per fatti concludenti – deve comunicarla alla sede territoriale dell’Ispettorato, da individuare in base al luogo di svolgimento del rapporto di lavoro. La comunicazione dell’assenza ingiustificata è, quindi, uno specifico onere che l’ordinamento pone in capo al datore che intenda porre fine al rapporto di lavoro rilevando il ricorrere di questo particolare tipo di dimissioni;

•        per permettere all’Ispettorato di effettuare le verifiche circa la veridicità della comunicazione datoriale di assenza ingiustificata, il datore dovrà indicare tutti i contatti e i recapiti forniti dal lavoratore e trasmettere la comunicazione inviata all’Ispettorato territoriale, anche al lavoratore, per consentirgli di esercitare in via effettiva il diritto di difesa;

•        la cessazione del rapporto avrà effetti dalla data riportata nel modulo UNILAV, che non potrà comunque essere antecedente alla data di comunicazione dell’assenza del lavoratore all’Ispettorato territoriale del lavoro, fermo restando che il datore di lavoro non è tenuto, per il periodo di assenza ingiustificata del lavoratore, al versamento della retribuzione e dei relativi contributi;

•        come conseguenze di tale cessazione, il Ministero del Lavoro ritiene che, in base ai principi generali che regolano il rapporto di lavoro, il datore possa trattenere dalle competenze di fine rapporto da corrispondere al lavoratore l’indennità di mancato preavviso contrattualmente stabilita;

•        a norma prevede espressamente che l’effetto risolutivo del rapporto potrà essere evitato laddove il lavoratore dimostri “l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza”. Grava, pertanto, sul lavoratore l’onere di provare l’impossibilità di comunicare i motivi dell’assenza al datore di lavoro o la circostanza di aver comunque provveduto alla comunicazione;

•        qualora il lavoratore dia effettivamente prova di non essere stato in grado di comunicare i motivi dell’assenza, così come nell’ipotesi in cui l’Ispettorato accerti autonomamente la non veridicità della comunicazione del datore di lavoro, non può trovare applicazione l’effetto risolutivo del rapporto di lavoro e la comunicazione di cessazione resterà priva di effetti.

Convertito in Legge il Decreto Milleproroghe 2025. Pubblicata la Legge 21 febbraio 2025, n. 15, di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 27 dicembre 2024, n. 202, recante disposizioni urgenti in materia di termini normativi.

Per quanto riguarda la materia lavoro, viene confermata la proroga al 31 dicembre 2025 dell’utilizzo della causale basata sulle «esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva», che le parti (datore di lavoro e lavoratore) potranno apporre al contratto individuale di lavoro qualora la contrattazione collettiva non abbia individuato proprie causali all’avvio di contratti a tempo determinato.

L’articolo di riferimento è il 14, titolato: “Proroga di termini in materie di competenza del Ministero del turismo“.

Ricordiamo che è obbligatorio indicare una causale all’avvio di un rapporto di lavoro a termine:

  • in caso di stipula del primo contratto a tempo determinato o della somministrazione a termine superiore a 12 mesi;
  • al superamento dei 12 mesi con contratti a tempo determinato e in somministrazione a termine.

Corte Costituzionale, sentenza 7 febbraio 2025, n. 14.

  • Ammissibile il referendum abrogativo in tema di causali del contratto a termine

La Corte Costituzionale dichiara l’ammissibilità del referendum promosso dalla CGIL che mira all’abrogazione di alcune previsioni del d.lgs. n. 81/15 che attualmente consentono la stipulazione di contratti di lavoro a tempo determinato (e anche la loro proroga e/o il rinnovo) fino a un anno senza dover fornire alcuna giustificazione, e, per quelli di durata superiore, sulla base di esigenze individuate dalle parti nel contratto individuale, anche se non previste né dalla legge, né dalla contrattazione collettiva. Secondo i giudici della Consulta, il quesito risulta chiaro, omogeneo e univoco, ponendo l’elettore dinanzi a una alternativa secca: da un lato, la riattivazione dei vincoli al ricorso al lavoro temporaneo, nella forma della generalizzazione dell’obbligo di giustificazione e in riferimento alle sole ipotesi previste dalla legge o dai contratti collettivi; dall’altro, la conservazione della normativa vigente, che, all’opposto, ne agevola l’impiego.

  • Ammissibile il referendum sulla esclusione della responsabilità solidale del committente in taluni casi.

I giudici della Consulta dichiarano ammissibile il referendum promosso dalla CGIL che mira ad abrogare la norma che esclude la responsabilità solidale dell’imprenditore committente per i danni che sono conseguenza di rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici. Per la Corte, il quesito risulta chiaro e univoco, in quanto pone l’elettorale di fronte a una alternativa netta: il mantenimento dell’attuale assetto della responsabilità solidale, contraddistinto da deroghe significative, o l’integrale riespansione di tale responsabilità, senza alcuna eccezione.

  • Ammissibile il referendum per l’abrogazione di un limite massimo dell’indennità per il licenziamento illegittimo nelle piccole imprese

La Corte Costituzionale dichiara ammissibile il referendum promosso dalla CGIL che mira a eliminare il tetto massimo che l’art. 8, l. 604/66, impone per la liquidazione dell’indennità da licenziamento illegittimo, fissato in 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto – che trova oggi applicazione nei confronti dei soli lavoratori assunti alle dipendenze delle c.d. “piccole imprese” prima del 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del d.lgs. 23/15, attuativo della legge sul Jobs act –, osservando che l’eventuale esito positivo della consultazione referendaria comporterebbe, per la menzionata categoria di lavoratori, il mantenimento della soglia minima (pari a 2,5 mensilità) e consentirebbe una liquidazione affidata al prudente apprezzamento del giudice che, nel quantificare un ristoro equo e dotato di un congruo effetto deterrente, non troverebbe più l’ostacolo dell’attuale limite massimo. Così strutturato, il quesito risponde ai requisiti di chiarezza, univocità e omogeneità, in quanto pone l’elettore di fronte a una alternativa secca: mantenere ferma l’attuale disciplina prevista dall’art. 8, l. 604/66, ovvero depurarla del profilo anzidetto, lasciandone per il resto intatte le ulteriori previsioni.

  • Ammissibile il referendum per l’abrogazione del decreto n. 23/2015 in materia di licenziamenti illegittimi

Nel dichiarare l’ammissibilità del referendum promosso dalla CGIL, diretto all’abrogazione totale del d.lgs. 23/15, uno dei decreti attuativi del c.d. Jobs Act, la Corte Costituzionale, dopo avere sinteticamente ripercorso le modifiche normative degli ultimi anni ai regimi di tutela in caso di licenziamento illegittimo, osserva che: (i) l’eventuale esito positivo del referendum non determinerebbe alcuna lacuna nella tutela del fondamentale diritto al lavoro, dal momento che dall’abrogazione deriverebbe l’applicabilità, anche ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, della disciplina dettata dall’art. 18, l. 300/70, e dall’art. 8, l. 604/66; (ii) né, per altro verso, il fatto che, in caso di approvazione del quesito abrogativo, il risultato di un ampliamento delle garanzie per il lavoratore non si verificherebbe in realtà in tutte le ipotesi di invalidità del licenziamento, perché per alcune di queste (e in particolare nel caso del licenziamento intimato al lavoratore assente per malattia o infortunio, oppure intimato per disabilità fisica o psichica a un lavoratore che non versava in realtà in tale condizione) si avrebbe, invece, un arretramento di tutela, non inficia la chiarezza, l’omogeneità e l’univocità della richiesta di referendum: il quesito referendario chiama, infatti, il corpo elettorale a una valutazione complessiva e generale, che può anche prescindere dalle specifiche e differenti disposizioni normative, senza perdere la propria matrice unitaria, che resta quella di esprimersi a favore o contro l’abrogazione del d.lgs. 23/15 nella sua interezza.

Novita’ GIURISPRUDENZIALI

Corte di Cassazione ordinanza n. 7825/2025

La Corte la afferma che il licenziamento di un lavoratore per aver utilizzato il computer aziendale per scopi privati è illegittimo se non sussiste una condotta di particolare gravità.

L’uso improprio dello strumento di lavoro non giustifica il recesso se non c’è un intento lesivo verso l’azienda. La decisione deve basarsi su alcuni criteri come la limitata entità delle violazioni e l’assenza di un danno concreto o di un pregiudizio per il datore.

Corte d’Appello di Torino, 17 marzo 2025.

Licenziato per molestie sessuali sul posto di lavoro: la deposizione della vittima può essere sufficiente per provare l’accadimento del fatto.

La Corte d’Appello di Torino, riformando la sentenza emessa in primo grado, accerta la legittimità del licenziamento per giusta causa subìto da un lavoratore, il quale si era reso colpevole di molestie sessuali ai danni di una collega. Secondo il Collegio va creduta la versione resa dalla vittima di molestie con la propria testimonianza, in quanto in una causa civile, a differenza del processo penale, anche la deposizione di un singolo teste può essere di per sé sufficiente quale prova dell’accadimento storico di un determinato fatto In particolare, chiariscono i giudici che il comportamento tenuto dalla vittima dopo aver subìto le molestie, per esempio non sporgendo denuncia dell’accaduto, non può riverberarsi retrospettivamente sulla veridicità della testimonianza dell’evento, se non a pena, per le persone coinvolte in episodi del genere, di non essere pregiudizialmente credute.

Tribunale di Roma, 4 marzo 2025.

Il datore non può licenziare il dipendente totalmente inabile al lavoro se il giudizio di inabilità è reversibile.

Il Tribunale accoglie il ricorso di un lavoratore il quale, avendo subito un grave infortunio ed essendo stato, per tale motivo, giudicato dalla Commissione Medica di Verifica (CMV) inabile al lavoro, era stato licenziato dalla società datrice per tale motivo. Il giudice capitolino ha dichiarato illegittimo il licenziamento evidenziando, da un lato, che il giudizio della CMV non era affatto definitivo, in quanto soggetto a revisione nei tre anni successivi e, dall’altro, che nelle more non fosse ancora stato superato il periodo di comporto (in ogni caso non fatto valere dal datore di lavoro). A maggior ragione, nel caso di specie, la CTU medico-legale aveva rilevato che il lavoratore aveva recuperato una sufficiente capacità lavorativa in un tempo ragionevole dall’evento-infortunio. Per tali motivi la società è stata condannata alla reintegrazione in servizio e al risarcimento del danno nei confronti del ricorrente.

Tribunale di Ancona, sentenza 1° marzo 2025.

È illegittimo il licenziamento fondato sul rifiuto del lavoratore di recedere dalla modalità di lavoro agile, in presenza di un’espressa esclusione di tale diritto datoriale.

Non configurano inadempimento del lavoratore la reiterata assenza dal lavoro in sede e il rifiuto di attenersi alla disposizione del datore di lavoro di recesso dalla modalità di lavoro agile, nella misura in cui il diritto di recesso sia escluso nel contratto di lavoro in modo chiaro e incondizionato. Eventuali situazioni sopravvenute che rendano meno conveniente per il datore di lavoro la conservazione del lavoro agile sono irrilevanti, a meno che non rendano oggettivamente impossibile fornire e ricevere un’adeguata prestazione, al punto da configurare un giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

Corte di cassazione, sentenza 28 febbraio 2025 n. 5334.

Un video denigratorio su una chat privata non può mai giustificare il licenziamento.

La dipendente di un negozio era stata licenziata per aver postato su una chat Whatsapp, cui partecipavano i 14 dipendenti del medesimo negozio, un video che rappresentava una cliente grassa, accentuandone gli aspetti ridicoli. Nel conseguente giudizio di impugnazione del licenziamento, la Cassazione, accogliendo il ricorso della lavoratrice avverso la sentenza d’appello, afferma che, in considerazione delle caratteristiche della destinazione del messaggio a persone determinate e delle cautele di riservatezza del tipo di piattaforma utilizzata, la comunicazione del video in questione gode delle garanzie di libertà e segretezza che l’art. 15 Cost. assicura alla corrispondenza e a ogni altra forma di comunicazione. Essa non può pertanto costituire mai giusta causa di licenziamento e il fatto che l’impresa sia venuta a conoscenza dell’episodio per la denuncia di una partecipante alla chat concreta per quest’ultima la violazione di un segreto e non altera comunque il giudizio di inutilizzabilità del video nell’ ambito del rapporto di lavoro.

Corte di cassazione, sentenza 21 febbraio 2025, n. 4655.

Retroattività del licenziamento disciplinare al momento della contestazione: limiti.

Sottoposta a procedimento penale, una dipendente di banca era stata sospesa cautelarmente e quindi sottoposta a procedimento disciplinare, poi sospeso fino all’esito del giudizio penale, intervenuto il quale, era stata licenziata con effetto retroagente al momento della contestazione, a norma dell’art. 1, comma 41 L. n. 92 del 2012 e le era stata richiesta la restituzione della retribuzione che, secondo il CCNL applicabile, aveva percepito durante la sospensione cautelare. Nel giudizio conseguentemente promosso dalla bancaria il problema posto alla Corte era duplice: 1) se la regola della retroattività si applica anche quando la contestazione disciplinare è, come nel caso in esame, antecedente all’entrata in vigore della legge n. 92; 2) se, a norma del CCNL, in caso di licenziamento disciplinare il lavoratore debba restituire la retribuzione percepita durante il periodo di sospensione cautelare disposta dal datore di lavoro.

La Corte, in diverso avviso rispetto all’appello, risponde negativamente ad ambedue le questioni: la prima per la normale considerazione unitaria del procedimento disciplinare, che inizia con l’apertura dello stesso e inoltre in coerenza con la necessaria tutela del diritto di difesa del lavoratore, che fin dall’inizio deve essere messo in grado di conoscere anche gli effetti possibili della contestazione; la seconda, perché nella disciplina collettiva che dispone il pagamento della retribuzione al dipendente sospeso cautelarmente non è alcuna indicazione circa l’eventuale provvisorietà dello stesso.

Corte di Cassazione, ordinanza 11 febbraio 2025, n. 3488.

Sulla risarcibilità del danno non patrimoniale in caso di condotte datoriali discriminatorie.

Dopo avere ottenuto dai giudici di merito, in un procedimento ex art. 28 D. Lgs. n. 150/2011, il riconoscimento del carattere discriminatorio della sua tardiva assunzione e il conseguente danno patrimoniale, il dipendente di una Fondazione aveva proposto ricorso per cassazione al fine ottenere altresì il risarcimento del danno non patrimoniale, negato dalla Corte d’appello per mancanza di prova. La Cassazione, nell’accogliere il ricorso, osserva che: (i) le Sezioni unite, con la sentenza n. 20819/21, hanno affermato che il rimedio alla discriminazione deve rispondere ai requisiti stabiliti dal diritto UE, quindi deve essere effettivo, proporzionale, dissuasivo; (ii) da ciò deriva che, in tema di discriminazione, il risarcimento del danno non patrimoniale è caratterizzato da una connotazione dissuasiva, tanto che può essere riconosciuto nei casi di discriminazione collettiva, anche in assenza di un soggetto immediatamente identificabile; (iii) tale danno, consistendo nella lesione di diritti costituzionalmente garantiti, è liquidabile in via equitativa e può essere provato ricorrendo al ragionamento presuntivo, valorizzando la maggiore o minore gravità dell’atto discriminatorio e le ragioni che l’hanno determinato.

Corte di Cassazione, ordinanza 10 febbraio 2025, n. 3400

Danno da demansionamento e incidenza del mancato aggiornamento tecnologico del dipendente.

La Cassazione, nel confermare la decisione della Corte d’appello, che aveva riconosciuto l’avvenuto demansionamento di un lavoratore, inquadrato come operatore specialista in customer care ma impiegato con funzioni di mero call center, e condannato la società datrice a risarcire il danno alla professionalità, liquidato equitativamente in 1000 euro per ogni mese del periodo di dequalificazione, osserva che i giudici di merito hanno correttamente tratto elementi presuntivi della sussistenza del danno non solo dalla qualità delle mansioni svolte, dalla durata del demansionamento subito, dalle modalità dell’inadempimento della società (che aveva reiterato la condotta di dequalificazione), ma anche dalla velocità dell’evoluzione tecnologica del settore cui il dipendente era addetto e di cui era stato in sostanza privato.

Corte di Cassazione, ordinanza 5 febbraio 2025, n. 2806.

Licenziamento disciplinare e abusivo accesso ai dati personali di clienti.

Il licenziamento di un bancario per ripetuti accessi abusivi sui conti correnti di alcuni clienti era stato annullato dai giudici di merito, che avevano ritenuto i fatti di tenue entità e dato rilievo alla mancata affissione del codice disciplinare. La Cassazione, accogliendo il ricorso della banca, osserva che (i) l’accesso al sistema informatico aziendale non può mai essere considerato fatto lieve allorché, come in questo caso, si concreti in una violazione degli obblighi di protezione dei dati personali previsti dal d.lgs. 196/2003, soprattutto da parte di coloro che operano all’interno di un istituto bancario; (ii) altrettanto consolidato è l’orientamento secondo cui la pubblicazione del codice disciplinare non è necessaria quando la condotta del lavoratore costituisca, come nel caso di specie, violazione di norme di legge o di principi fondamentali di correttezza e buona fede, immediatamente percepibile dal dipendente come illecito.

Tribunale di Busto Arsizio con sentenza del 3 febbraio 2025.

Costituzione della Consigliera di parità per far valere il carattere (indirettamente) discriminatorio, a danno delle lavoratrici che svolgono compiti di cura familiare, della lunga pausa imposta uniformemente a tutti i dipendenti.

In una situazione in cui gli oneri di cura familiare ricadono in prevalenza sulle lavoratrici donne, il trattamento uguale, in termini di orario della pausa pranzo (di ben 90 minuti) e, di conseguenza, dell’uscita pomeridiana, provoca una discriminazione indiretta, per i diversi effetti che si verificano a seconda delle situazioni soggettive dei lavoratori destinatari della stessa regola. La discriminatorietà della rigidità oraria deriva oggettivamente dallo svantaggio per le lavoratrici che devono ritardare il rientro in famiglia, senza che rilevi l’intento soggettivo della società nell’imporre uniformemente la rigidità di orario.

A maggior ragione nei casi di azione collettiva della Consigliera di parità, l’effetto discriminatorio va valutato in termini potenziali e qualitativi, quale condizione di maggiore difficoltà nella conciliazione tra lavoro ed esigenze di cura familiare, non rilevando conseguenze effettive ed ulteriori rispetto al rientro ritardato.

In mancanza di prova del carattere essenziale all’organizzazione di impresa dell’orario uniforme, la rimozione degli effetti discriminatori va perseguita consentendo alle interessate la limitazione della pausa con conseguente uscita anticipata.

Lo afferma il Tribunale di Busto Arsizio con sentenza del 3 febbraio 2025. Le affermazioni sono qualificate come discriminazione indiretta perché idonee a scoraggiare le lavoratrici dal candidarsi per ruoli dirigenziali.

Corte d’Appello di Roma, 27 gennaio 2025

Accertata la nullità del patto di prova, si applica la tutela reintegratoria prevista per l’ipotesi di licenziamento fondato su un “fatto materiale insussistente”

La Corte d’Appello ribadisce, anzitutto, ai fini dell’efficacia e validità della prova, la necessaria specificità delle mansioni di adibizione, la cui concreta individuazione deve essere ricavata da quanto è stato pattuito per iscritto tra le parti, in una clausola contrattuale chiara ex ante e suscettibile di verifica ex post. In caso di licenziamento per mancato superamento della prova in presenza un patto di prova nullo, il fatto posto alla base del licenziamento è da ritenersi insussistente. Pertanto, quanto alle conseguenze sanzionatorie, nel contesto normativo del d.lgs. n. 23 del 2015, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 128/2024, tale recesso, se privo di giusta causa e/o giustificato motivo, non resta assoggettato alla regola generale della tutela indennitaria, ma è suscettibile di applicazione della tutela reintegratoria. In merito poi alla determinazione dell’indennità risarcitoria, la Corte stabilisce che non si determini detraendo dal “tetto massimo” delle dodici mensilità l’intero importo percepito da un altro datore di lavoro, ma solamente quanto si sovrappone all’intero periodo di estromissione.

Tribunale di Napoli Nord, 10 febbraio 2025

Sulle problematiche della corretta impugnazione del licenziamento attraverso lettera scansionata e inviata telematicamente.

Il Tribunale respinge il ricorso presentato da un lavoratore, il quale aveva impugnato il licenziamento attraverso una lettera firmata e poi scansionata e inviata telematicamente alla Società da parte del difensore. Secondo il Giudice, la copia per immagine su supporto informatico di un documento formato in originale in analogico può avere la stessa efficacia dell’originale, ma solo a patto che sulla copia sia apposta firma digitale o elettronica (del lavoratore o dell’avvocato), che sia accompagnata da attestazione di conformità di un notaio o pubblico ufficiale autorizzato o che sia formata in origine su supporto analogico e la sua conformità all’originale non sia disconosciuta. Non ricorrendo nel caso nessuno di questi tre elementi, la comunicazione dell’impugnazione non impedisce la decadenza di cui all’art. 6, l. 604/1966.

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