La campagna vaccinale anti Covid-19 e le notizie della stampa sulla indisponibilità di sottoporsi alla vaccinazione manifestata da alcuni lavoratori, hanno aperto un dibattito sul potere da parte dei datori di lavoro di imporre la vaccinazione ai propri dipendenti, sollevando anche il dubbio sulla possibilità – in caso di rifiuto – di procedere al licenziamento.
Molte le voci discordanti risuonate anche in dottrina.
Senza alcuna presunzione di voler dare in questa sede una risposta ad una discussione tutt’oggi aperta, pare che il primo passo debba essere quello di fare una ricognizione normativa per capire se esiste una disposizione che conferisca un potere o riconosca un obbligo in capo al datore di lavoro e, di contro, garantisca un diritto del lavoratore di sottrarsi alla richiesta di vaccinazione.
Occorre prioritariamente ricordare che la direttiva UE 2020/739 del 3.06.2020 ha classificato il SARS-CoV-2 come agente biologico che può causare malattie infettive all’uomo. La direttiva è stata recepita nel nostro ordinamento con l’art. 4 del D.L. n. 125 del 2020, convertito con L. n. 159 del 27.11.2020, modificando, di conseguenza, l’Allegato 46 al TUSL. Il SARS-CoV-2 è così stato inserito tra gli agenti biologici del gruppo 3, ossia quegli agenti che possono causare malattie gravi in soggetti umani e che costituiscono un serio rischio per i lavoratori, che possono propagarsi nella comunità, ma per cui di norma sono disponibili efficaci misure profilattiche o terapeutiche (così come definito dall’art. 268 TUSL).
È necessario, inoltre, ribadire che il contagio avvenuto nel contesto lavorativo è ad oggi qualificato come infortunio sul lavoro e che il Covid-19 è considerato un rischio generico di origine esogena rispetto all’ambiente di lavoro.
Il punto di partenza è senza dubbio l’art. 32 della Costituzione, il quale recita “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. La norma contiene, pertanto, il rinvio ad una riserva di legge per la disciplina dei trattamenti obbligatori.
Peraltro ad oggi non è stato promulgata alcuna norma che imponga un obbligo di vaccinazione, sicché il richiamo all’art. 32 Cost. non sembra possa avvallare la tesi dell’obbligatorietà della vaccinazione, in particolare per i dipendenti.
Da verificare se nel contesto lavorativo, una fonte giuridica di questo obbligo possa allora rinvenirsi in primis nell’art. 2087 c.c. ed, in secondo luogo, nell’art. 279 del D.Lgs. n. 81 del 2008 (TUSL).
L’art. 2087 c.c., infatti, onera il datore di lavoro di adottare tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
L’art. 279 TUSL, invece, è dedicato proprio alla vaccinazione: il secondo comma, infatti, recita “Il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra le quali: a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente; b) l’allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure dell’articolo 42”.
Certo si potrebbe obiettare che l’applicazione dell’art. 2087 c.c. sia in realtà soddisfatta con l’implementazione ed il rispetto dei Protocolli di sicurezza Covid-19, richiamando l’29-bis del D.L. n. 23 del 2020, ove invece nessun vaccino viene obbligatoriamente richiesto ai fini della continuazione della prestazione lavorativa. Con l’art. 29-bis viene, dunque, circoscritto l’obbligo datoriale di garanzia con riferimento alla questione Covid-19 all’adempimento delle prescrizioni contenute nei protocolli.
Peraltro, questo secondo filone ricorda che, con particolare riferimento alla riserva di legge di cui all’art. 32 Cost., la prevalente dottrina richiede una specifica previsione del singolo trattamento.
L’argomentazione prosegue evidenziando il tenore letterale dell’art. 279 TUSL, il quale richiede la mera messa a disposizione dei vaccini, oggi inattuabile in quanto il piano vaccinale è esclusivamente in mano alle autorità sanitarie pubbliche.
Si ricorda, peraltro, che l’art. 20 TUSL prevede espressamente che ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro. L’inosservanza della predetta disposizione potrebbe essere considerata quale fonte di responsabilità disciplinare. Tuttavia ancora una volta si pone il problema di considerare se la somministrazione di un vaccino – in assenza di un obbligo normativo in tal senso – possa essere ricondotta al concetto di cura della salute, di cui alla citata normativa. È certo difficile escludere che il rifiuto di sottoporsi a vaccinazione opposto da un dipendente non possa costituire, in ragione delle specifiche mansioni svolte e, dunque, secondo valutazioni da compiersi caso per caso, in assenza di alternative – ove non sia quindi possibile adibire e il lavoratore ad altre mansioni o, in difetto, a mansioni inferiori, che azzerino il rischio di contagio o sospendere il dipendente (sine die?) – un impedimento oggettivo alla prosecuzione del rapporto di lavoro.
In questo periodo di stallo, pare in ogni caso di poter affermare che se da un lato non esiste un chiaro potere del datore di lavoro di sottoporre obbligatoriamente a vaccinazione un dipendente, in assenza di un auspicabile intervento del legislatore, la migliore soluzione ad oggi sia di procedere con cautela e di attendere ulteriori sviluppi.
OBBLIGO DI VACCINAZIONE: SI’ O NO?


