NEWSLETTER 12/2025

Novita’ normative

È stata pubblicata la legge n. 167/2025, recante “Misure per la semplificazione normativa e il miglioramento della qualità della normazione e deleghe al Governo per la semplificazione, il riordino e il riassetto in determinate materie”.

La legge, in vigore dal 29 novembre 2025, prevede che gli atti normativi del Governo, ad eccezione dei decreti-legge, siano accompagnati da una analisi preventiva degli effetti ambientali o sociali ricadenti sui giovani e sulle generazioni future (valutazione di impatto generazionale – VIG) da effettuarsi, quale strumento informativo, nell’ambito dell’analisi di impatto della regolamentazione (AIR).

La legge contiene inoltre deleghe in materia di politiche per la famiglia, la natalità e le pari opportunità e il Governo è delegato ad adottare, entro dodici mesi dalla data della sua entrata in vigore, uno o più decreti legislativi per la semplificazione, il riordino e il riassetto delle disposizioni legislative in materia di disabilità. Con riferimento alle principali novità in materia lavoro, viene prevista una delega al Governo per il coordinamento della normativa in materia di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei settori portuale, marittimo, delle navi da pesca e ferroviario con le disposizioni contenute nel Testo Unico sulla Sicurezza sul lavoro (D.Lgs. n. 81/2008).

E ‘stato pubblicato il decreto-legge n. 159/2025, recante “Misure urgenti per la tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro e in materia di protezione civile”.

L’intervento mira a un rafforzamento della cultura della sicurezza, all’incremento della prevenzione e alla riduzione degli infortuni in ogni ambito lavorativo, premiando i datori di lavoro virtuosi e potenziando le attività di vigilanza e l’apparato sanzionatorio.

Tra le maggiori novità in materia di lavoro, si segnalano:

  • l’introduzione del codice univoco anticontraffazione al badge di cantiere, nonché l’estensione della tessera di riconoscimento ad altri ambiti considerati a rischio più elevato;
  • l’inasprimento delle sanzioni per le imprese sprovviste di patente a crediti e un generale potenziamento dell’attività di vigilanza e dei controlli da parte dell’Ispettorato del Lavoro;
  • la specifica che gli indumenti di lavoro costituiscono dispositivi di protezione individuale (DPI);
  • la tutela assicurativa garantita agli studenti che svolgano attività di formazione scuola-lavoro estesa ai cd infortuni in itinere;
  • la puntualizzazione che i controlli sanitari obbligatori per i lavoratori, fatta eccezione per quelli in fase preassuntiva, devono essere computati nell’orario di lavoro;
  • la previsione di visite mediche prima o durante il turno per i lavoratori ad alto rischio di infortunio, in presenza di ragionevole motivo di ritenere che il lavoratore si trovi sotto l’effetto conseguente all’uso di alcol o di sostanze stupefacenti o psicotrope.

Con specifico riferimento agli obblighi posti a carico dei datori di lavoro operanti nel settore dell’edilizia (fornire ai propri dipendenti il badge identificativo e ottenere la patente a crediti), in continuità con i

principi di prevenzione contenuti nel Testo Unico sulla Salute e Sicurezza al Lavoro e con la disciplina del Codice dei contratti pubblici (D.lgs n. 36/2023), si prevede che l’Ispettorato nazionale del lavoro nell’orientare la propria attività di vigilanza disponga “in via prioritaria i controlli di competenza nei confronti dei datori di lavoro che svolgono la propria attività in regime di subappalto, pubblico o privato”.

Governo: Terzo settore – crisi d’impresa, sport e imposta sul valore aggiunto.

Il Consiglio dei Ministri, nella seduta n. 149 del 20 novembre 2025, ha approvato, in esame definitivo, un decreto legislativo che, in attuazione della delega al Governo sulla riforma fiscale (legge 9 agosto 2023, n. 111), introduce disposizioni in materia di terzo settore, crisi d’impresa, sport e imposta sul valore aggiunto.

Sul testo è stata acquisita l’intesa in Conferenza unificata. Inoltre, sono state apportate modifiche che tengono conto dei pareri espressi dalle competenti Commissioni parlamentari e delle interlocuzioni con la Commissione europea.

In materia fiscale, fra le principali modifiche, è stata inserita una proroga al 2036 dell’entrata in vigore delle norme che avrebbero richiesto l’assoggettamento agli obblighi strumentali ai fini IVA, di tenuta della contabilità e fatturazione, per gli enti benefici che svolgono prestazioni nei confronti dei propri associati.

Il Consiglio dei Ministri, nella seduta n. 149 del 20 novembre 2025, ha approvato in via definitiva il decreto legislativo chiamato Codice degli incentivi, in attuazione dell’articolo 3, commi 1 e 2, lettera b), della legge 27 ottobre 2023, n.160.

Il provvedimento armonizza la disciplina di carattere generale in materia di incentivi alle imprese, definisce i princìpi generali che regolano i procedimenti amministrativi che le imprese devono seguire per accedere alle agevolazioni e fornisce le relative disposizioni per l’utilizzo della strumentazione tecnica funzionale. Un decreto che mira a semplificare le procedure, garantire certezza normativa e favorire la partecipazione di tutte le categorie produttive che introduce, all’articolo 10, il principio di parità tra lavoratori autonomi e imprese nelle richieste di incentivi. Nei bandi compatibili, i lavoratori autonomi potranno partecipare alle stesse condizioni previste per le piccole e medie imprese, escludendo i requisiti non pertinenti alla loro attività. I bandi definiranno disposizioni specifiche per garantire un accesso effettivo e non discriminatorio.

In questo modo si conclude un percorso avviato con la legge n. 81/2017 e più volte richiamato nei tavoli di confronto presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con le categorie professionali: un passo concreto verso l’inclusione e la valorizzazione di tutte le forme di lavoro.

CCNL Metalmeccanici Industria Rinnovo del 28 novembre 2025.

ll 28 novembre 2025 Federmeccanica e Assistal con FIM CISL, FIOM CGIL e UILM UIL hanno rilasciato il testo definitivo dell’ipotesi di Accordo per il rinnovo del CCNL Metalmeccanici Industria 2025 – 2028. Rispetto alla prima versione circolata il 22 novembre sono stata apportate correzioni alle tabelle retributive, alla decorrenza di alcuni benefici e alla nuova disciplina della somministrazione a tempo indeterminato

Le principali novità del nuovo CCNL Metalmeccanici 2025 – 2028 sono così aggiornate:

Trattamenti retributivi – Sono individuati per tutti i livelli di inquadramento aumenti dei minimi tabellari decorrenti nei mesi di giugno 2026, 2027 e 2028 per 177 euro (53 € nel 2026, 59 € nel 2027, 65 € nel 2028).  

Mansioni – Ai fini del diritto al passaggio al livello superiore, il periodo di svolgimento di mansioni superiori rispetto a quelle dell’inquadramento assegnato viene incrementato. Per i livelli più bassi, il periodo continuativo passa da 30 a 60 giorni, mentre quello non continuativo da 75 a 120 giorni nell’arco di un anno o 6 mesi nell’arco di tre anni. Per i livelli più alti, il periodo sale a 4 mesi continuativi ovvero 9 mesi non continuativi.

Flexible benefits & welfare aziendale – Il rinnovo del CCNL Metalmeccanici Industria 2025 – 2028 introduce un significativo potenziamento del welfare aziendale. Dal 2026, il valore del welfare aziendale obbligatorio viene aumentato a 250 euro ( + 50 euro ) per ciascun lavoratore, da erogare entro il 1° giugno di ogni anno e utilizzabile fino al 31 maggio dell’anno successivo. Per l’anno 2026, l’importo dovrà essere reso disponibile entro febbraio.

Orario di lavoro – E’ previsto l’incremento dell’orario plurisettimanale da 80 a 96 ore/anno e innalzamento del tetto complessivo plurisettimanale, comprensivo di lavoro straordinario, a 128 ore.

Permessi – A decorrere dal 2027, ai lavoratori turnisti su 18 o più turni settimanali, non addetti al settore siderurgico, sono riconosciuti permessi aggiuntivi di 4 ore annue. Per coloro che lavorano su 21 turni di un ulteriore permesso di 4 ore, il medesimo monte ore è riconosciuto a partire dal 2028.  

Il rinnovo incrementa da 5 a 7 giornate la quota di permessi annui retribuiti (c.d. PAR) utilizzabili per la fruizione collettiva, riduce da 10 a 7 giorni il preavviso per quella individuale e introduce la possibilità di fruire dei PAR anche a gruppi di 2 ore, anziché 4. Viene incrementata anche la soglia di assenza contemporanea al 6% del personale addetto al turno (precedentemente 5%).

Ai lavoratori migranti con più di 5 anni di anzianità di servizio, presso aziende con organici superiori ai 150 dipendenti, è riconosciuta la possibilità di richiedere un’aspettativa della durata minima di un mese e massima di due, non frazionabili, per raggiungere i propri familiari nel Paese di origine.

Congedi parentali – Dal 1° gennaio 2026, sono riconosciuti ai genitori di figli fino a 4 anni di età tre giorni di permesso annuo retribuito in caso di malattia degli stessi. Durante tali giorni, al lavoratore spetta un’indennità a carico dell’azienda pari all’80% della normale retribuzione.

Malati oncologici – Nel recepire integralmente le previsioni di cui alla L. 106/2025, il CCNL Metalmeccanici Industria 2025 -2028 dispone come dal 1° gennaio 2026, ai lavoratori con disabilità certificate saranno riconosciuti:

24 mesi (continuativi o frazionati) di congedo non retribuito con diritto alla conservazione del posto di lavoro e priorità di accesso al lavoro agile alla scadenza del congedo ove la mansione lo consenta;

10 ore annue di permesso retribuito per visite, esami, analisi e altre cure. Tale diritto spetta anche ai genitori di figli minorenni affetti da una delle suddette patologie.

Ai predetti, al momento del superamento del periodo di comporto, verranno riconosciuti :

ulteriori 30 giorni di conservazione del posto di lavoro per anzianità fino a 3 anni;

ulteriori 45 giorni di conservazione del posto di lavoro per anzianità da 3 a 6 anni;

ulteriori 60 giorni di conservazione del posto di lavoro per anzianità superiore a 6 anni. In tutti e tre i casi al lavoratore spetta un’integrazione economica fino al 80 % della retribuzione.

Causali contratti a termine e conversione – In applicazione della disciplina di cui al D.Lgs. 81/2015, così come modificato dal DL 48/2023 convertito in L. 85/2023, in materia di causali per i contratti a tempo determinato, il CCNL Metalmeccanici Industria 2025 – 2028 fornisce una disciplina ad hoc. La proroga o il rinnovo del contratto a termine, anche in somministrazione, di durata superiore a 12 mesi e non eccedente i 24 mesi sarà possibile in caso di:

  • assunzione di lavoratori che abbiano superato i 50 anni di età;
  • assunzione di lavoratori che abbiano età inferiore ai 35 anni a condizione che non abbiano un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi o vivano soli con una o più persone a carico;
  • assunzione di lavoratori che abbiano fruito del trattamento di cassa integrazione guadagni straordinaria da almeno 6 mesi o siano inseriti nelle liste di disoccupazione da almeno 6 mesi;
  • assunzione di lavoratori da impiegare nei periodi interessati dallo svolgimento di mostre e fiere, compresi tra 15 giorni precedenti e 15 giorni successivi all’evento;
  • assunzione di lavoratori da impiegare nelle attività di coordinamento di progetti aventi durata predeterminata o nell’ambito di specifiche commesse, ordini o incarichi, la cui realizzazione presenti un carattere temporaneo.

Clausola di stabilizzazione dei contratti a termine – A decorrere dal 1º gennaio 2027, l’utilizzo dei casi sopra indicati che devono essere puntualmente descritti nel contratto individuale, è subordinato alla stabilizzazione a tempo indeterminato presso la medesima azienda di contratti a termine in misura pari al 20% del numero dei lavoratori a tempo determinato cessati nell’anno civile (1° gennaio – 31 dicembre) precedente in forza per i casi di cui sopra restando esclusi dal computo i rapporti cessati per recesso durante il periodo di prova, dimissioni o licenziamento per giusta causa.

Staff leasing e stabilizzazione oltre i 48 mesi – Dal 1° gennaio 2026, i lavoratori somministrati a tempo indeterminato che abbiano svolto presso la stessa impresa mansioni di pari livello e categoria legale per oltre 48 mesi complessivi (anche non continuativi) maturano il diritto all’assunzione a tempo indeterminato da parte dell’impresa utilizzatrice. A tal fine, non rilevano i periodi di missione svolti fino al 30 giugno 2025.

Appalti – Legalità e correttezza negli appalti è garantita dall’ obbligo, per il committente, di verificare sulla corretta applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro in relazione alle attività oggetto di appalto, privilegiando il CCNL firmato dalle Organizzazioni Sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.  

Sicurezza sul lavoro – Il rinnovo del CCNL Metalmeccanici industria rende obbligatori i cd. break formativi in materia di sicurezza, da svolgersi durante l’orario di lavoro, nelle unità produttive con più di 200 addetti. Viene inoltre disposta l’analisi post-incidentale per la valutazione delle cause degli infortuni dopo un incidente. Per i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS) neoeletti prevista una formazione aggiuntiva di 8 ore sui rischi specifici aziendali.

CCNL Dirigenti Terziario 2026 – 2028 – Rinnovo del 5 novembre 2025.

Il 5 novembre 2025 è stata sottoscritta l’ipotesi di accordo per il rinnovo del CCNL per i dirigenti di aziende del terziario, della distribuzione e dei servizi che entrerà in vigore il 1° gennaio 2026 e resterà valido fino al 31 dicembre 2028.

L’accordo introduce importanti novità economiche e normative per il triennio 2026–2028, tra cui:

A. Trattamento economico:

È stato pattuito un aumento mensile lordo a regime pari ad 800 euro, suddiviso in tre tranche:

•          320 euro dal 1° gennaio 2026

•          260 euro dal 1° gennaio 2027

•          220 euro dal 1° gennaio 2028.

Questi aumenti retributivi andranno ad incrementare il minimo contrattuale mensile.

Tali incrementi non verranno computati in riduzione o a compensazione di trattamenti individuali già in essere, con la sola eccezione delle somme erogate, successivamente al 31 luglio 2025, a titolo di acconto o anticipazione su futuri aumenti contrattuali o espressamente concesse al fine di garantire il recupero del potere d’acquisto delle retribuzioni.

B. Nuovi minimi contrattuali: fino a 5.140 euro mensili a partire dal 1° gennaio 2028.

C. Credito welfare annuale: riconosciuti 1.500 euro annui per ciascun dirigente nel triennio 2026–2028, con possibilità di destinazione al Fondo Mario Negri. Viene inoltre ridotto a 36,00 euro annui (18,00 a carico del datore di lavoro e 18,00 a carico del datore) il costo di gestione della Piattaforma, attualmente pari a 50 euro annui.

D. Fondo Mario Negri

In ottemperanza al Piano di riequilibrio approvato dalla Covip, viene adeguato il contributo integrativo aziendale al Fondo Mario Negri, elevandolo dall’attuale 2,47% al 2,52%, a decorrere dal 1° gennaio 2026, al 2,57%, a decorrere dal 1° gennaio 2027 ed infine, al 2,62% a decorrere dal 1° gennaio 2028.

Si è, inoltre, concordato di incrementare la compartecipazione del dirigente alla previdenza complementare, tramite un aumento del contributo ordinario a carico del dirigente che, dal 1° gennaio 2026, passerà dagli attuali 592,25 a 1.184,49 euro annui. Poiché, le trattenute a carico del dirigente versate al Fondo Mario Negri diminuiscono l’imponibile fiscale, tale modifica contrattuale si risolverà in un minore netto stimato in 28 euro mensili, sulle 12 mensilità effettive, trattenuta che sarà, poi, ampiamente compensata in fase di liquidazione delle prestazioni da parte del Fondo, in considerazione del trattamento fiscale agevolato riservato alle stesse.

E. Contributi previdenziali: incremento delle aliquote al Fondo Mario Negri e all’Associazione Antonio Pastore, con l’adeguamento delle coperture assicurative.

F. Agevolazioni contributive e invecchiamento attivo

Per favorire il ricambio generazionale e non disperdere competenze, è stata introdotta una norma sperimentale che permetterà alle aziende di concordare – a condizioni agevolate – la permanenza dei dirigenti senior, per lo svolgimento di funzioni di tutoraggio e mentoring.

Si tratta di una norma volta al reinserimento in azienda dei dirigenti senior cessati per un qualsiasi motivo e che possono essere stimolati a stipulare un contratto a termine, anche a tempo parziale, con applicazione, per una sola volta per ogni dirigente, dell’agevolazione contributiva di cui all’articolo 30, commi dall’1 al 3 del CCNL per un massimo di tre anni, anche nel caso in cui le agevolazioni contributive contrattuali siano state già utilizzate in precedenti rapporti di lavoro.

Tale agevolazione è riservata a contratti stipulati con dirigenti la cui età anagrafica fino a tre anni inferiore rispetto all’età pensionabile di vecchiaia, attualmente pari a 67 anni.

Viene infine disciplinato il trattamento dovuto ai dirigenti in caso di recesso anticipato da parte del datore di lavoro, rispetto al termine pattuito.

G. Sostegno alla genitorialità: confermato il programma “Un Fiocco in Azienda” per promuovere la natalità e favorire il rientro delle neomamme al lavoro.

H. Tutela per gravi patologie: nuove garanzie per i dirigenti affetti da malattie oncologiche, invalidanti o degenerative: è stato concordato il mantenimento della copertura sanitaria FASDAC per un massimo di 24 mesi, a carico del datore di lavoro, durante il congedo non retribuito che può essere richiesto, ai sensi dell’art. 1 della legge 106/2025, in aggiunta alle tutele contrattuali già in essere in caso di malattia.

I. Garanzia Infortuni Antonio Pastore

Decorso il primo periodo di test della nuova garanzia contrattuale che interviene in caso di infortunio professionale ed extra professionale, ai sensi dell’articolo 18, comma 7 del CCNL, si è concordato di incrementare il premio a carico delle aziende di un importo pari a 150,00 euro annui. Il premio passerà, quindi, dagli attuali 410,00 a 560,00 euro annui per assicurato. È stata, altresì, introdotta una franchigia che verrà applicata ai rimborsi relativi ad infortuni extra professionali di lieve entità.

J. Politiche attive per la ricollocazione

A decorrere dal 1° gennaio 2026, la tutela contrattuale viene estesa a tutti i casi di risoluzione del rapporto di lavoro, continuando ad essere escluse le dimissioni volontarie e le cessazioni per giusta causa, con contestuale riduzione del contributo aziendale dovuto al CFMT al momento della cessazione del rapporto di lavoro, che passa dagli attuali 2.500,00 euro a 2.000,00 euro, importo che si ritiene possa garantire l’inserimento a piani di supporto all’employability dei dirigenti.

K. Formazione continua

Introdotto un impegno per i datori a sostenere anche iniziative di auto-formazione.

L. Equità e trasparenza

Completano l’intesa l’introduzione di misure per la parità di genere, la trasparenza retributiva, il contrasto al dumping contrattuale e un impegno congiunto ad ampliare l’ambito di applicazione del contratto.

Per consultare il testo dell’Accordo, cliccare: https://www.adlabor.it/normativa/contrattazione-sindacale/ccnl-dirigenti-terziario-del-5-novembre-2025/

Debiti contributivi – Dilazione del pagamento

Il Ministero del Lavoro e del MEF, con decreto del 24 ottobre 2025, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 278 del 29 novembre 2025, disciplina la dilazione dei debiti contributivi dovuti a INPS e INAIL prevista dal l’articolo 23 della Legge 13 dicembre 2024, n. 203.

La norma attribuisce ai due Istituti la competenza esclusiva a concedere piani di rateazione fino a 60 rate mensili per debiti non affidati alla riscossione, superiori al mezzo milione di euro, per i casi di “difficoltà economico finanziaria temporanea”.

Il decreto individua due tipologie di situazioni in cui è possibile ottenere la dilazione dei debiti, sulla base dell’entità del debito e della difficoltà economico-finanziaria temporanea dichiarata dal contribuente:

•          Importo del debito fino a 500.000 euro: 36 rate (max)

•          Importo del debito oltre 500.000 euro: 60 rate (max)

La valutazione della “temporanea situazione di obiettiva difficoltà economico-finanziaria” sarà definita con apposite delibere dei consigli di amministrazione INPS e INAIL, da adottare entro 60 giorni dalla pubblicazione del decreto.

Il decreto prevede specifiche tempistiche per l’applicazione delle nuove regole:

•          INPS e INAIL devono emanare entro 60 giorni dalla pubblicazione del decreto (29 novembre 2025) le proprie delibere in materia;

•          la richiesta di dilazione e rateazione dei debiti dovrà essere presentata esclusivamente in modalità telematica entro 30 giorni dalle istruzioni operative degli istituti;

•          gli Istituti potranno verificare la situazione finanziaria del richiedente;

Le richieste di dilazione già presentate a partire dal 12 gennaio 2025 (data di entrata in vigore della Legge 203/2024) potranno essere oggetto di rideterminazione del numero di rate su istanza del debitore.

Novita’ giurisprudenziali

Corte di Cassazione, sentenza 24 novembre 2025, n. 30823.

Mancata prova del licenziamento orale o delle dimissioni: conseguenze.

In un giudizio promosso per l’accertamento dell’esistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato, con richiesta di differenze retributive e per la dichiarazione di nullità del licenziamento orale, la Cassazione ha modo di ribadire: (i) diversamente dal settore del lavoro pubblico, in quello privato non vige il principio di parità di trattamento tout court tra i dipendenti, per cui l’eventuale differenza di retribuzioni non integra di per sé discriminazione; (ii) in caso di rapporto di lavoro non regolarizzato, le differenze retributive vanno calcolate sottraendo gli importi di fatto percepiti dalla retribuzione lorda spettante, senza operare la “lordizzazione” dei primi; (iii) il lavoratore che deduce il licenziamento orale ha l’onere di provare l’estromissione dal lavoro, ma la mancata prova del licenziamento non consente automaticamente di presumere le dimissioni: se il datore le invoca, è lui a doverle dimostrare; in mancanza di prova sia del licenziamento sia delle dimissioni (o di altra causa

estintiva) deve ritenersi la giuridica continuità del rapporto di lavoro, con diritto del dipendente al risarcimento dei danni causati dal momento della messa in mora del debitore (implicita nella domanda di tutela reale o obbligatoria).

Corte di Cassazione, sentenza 24 novembre 2025, n. 30822

Strumenti di controllo a distanza nella successione di discipline legislative

Un croupier era stato licenziato nel 2017 per essersi appropriato di due banconote da 100 euro durante le operazioni di cambio registrate dalle telecamere installate sopra il tavolo da gioco, su autorizzazione stabilita dall’Ispettorato del lavoro, il quale, prima della modifica dell’art. 4 S.L. ad opera del d.lgs. n. 151/2015, ne escludeva l’utilizzabilità ai fini disciplinari. Nel giudizio di impugnazione del licenziamento, la Corte afferma i seguenti principi: (i) l’art. 4 Statuto dei lavoratori, come modificato nel 2015, consente l’utilizzabilità disciplinare delle immagini raccolte tramite impianti autorizzati, purché risultino rispettati gli obblighi informativi e le regole sulla privacy; (ii) le prescrizioni limitative contenute nelle autorizzazioni amministrative anteriori alla riforma non resistono alla novella del 2015, che prevede l’utilizzabilità “a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro”; (iii) nella fattispecie, però, la limitazione all’uso disciplinare delle riprese non derivava solo dall’autorizzazione dell’Ispettorato, ma era stata recepita espressamente dal contratto collettivo applicato in azienda, che, introducendo una disciplina più favorevole per il dipendente, resta pienamente valida anche dopo la riforma del 2015.

Corte di Cassazione sentenza n. 30821 del 24 novembre 2025.

Quando il datore di lavoro può ricorrere ad agenzie investigative per controlli a distanza sull’attività dei lavoratori.

Il potere è legittimo se l’indagine è condotta in luoghi pubblici ed è finalizzata non a verificare le modalità con cui il dipendente svolge i compiti ordinari, ma ad accertare la presenza di comportamenti illeciti, come quelli suscettibili di rilevanza penale o idonei a:

▪️ ingannare il datore;

▪️ danneggiare il patrimonio dell’azienda;

▪️ comprometterne l’immagine e la reputazione esterna.

Corte di Cassazione, ordinanza 12 novembre 2025, n. 29823.

Infortunio della badante “in nero” durante il sollevamento dell’assistita: nessuna responsabilità del datore di lavoro se sono state fornite istruzioni adeguate.

Nella causa di risarcimento danni promossa da una badante infortunatasi per sollevare dal letto l’assistita non autosufficiente, la Cassazione rigettando il ricorso della lavoratrice avverso la decisione dell’appello, osserva che: (i) la Corte territoriale ha accertato che la datrice aveva adeguatamente informato e addestrato la lavoratrice sulle tecniche di sollevamento, mostrando concretamente le operazioni da svolgere e precisando le condizioni dell’assistita; (ii) la manovra eseguita rientra tra le tipiche attività proprie della figura professionale della badante, mansione nella quale la ricorrente aveva riferito di possedere esperienza pregressa e rispetto alla quale aveva dichiarato di essere pienamente autonoma; (iii) alla luce di tali accertamenti in fatto, nessuna omissione di informazioni, cautele o mezzi è imputabile al datore di lavoro, con conseguente insussistenza della dedotta violazione dell’art. 2087 c.c.

Corte di Cassazione, ordinanza 11 novembre 2025, n. 29740.

Antisindacali le misure organizzative che impediscono ai dipendenti di decidere fino all’ultimo se aderire allo sciopero.

Un sindacato aveva contestato, promuovendo ricorso ex art. 28 St. lav., le disposizioni con cui la datrice società autostradale imponeva ai casellanti specifiche procedure da seguire prima dell’inizio dello sciopero (attività preparatorie di 15–60 minuti) e dopo l’avvio dell’astensione (adempimenti

ulteriori non retribuiti, sanzionabili disciplinarmente). La Cassazione, respingendo il ricorso della società avverso l’accoglimento delle domande da parte dei giudici di merito, afferma che: (i) il datore di lavoro può organizzarsi per limitare i danni economici derivanti dallo sciopero, ma le misure adottate non possono incidere sull’effettivo esercizio del diritto di sciopero; (ii) sono antisindacali le procedure che, come nel caso di specie, imponendo attività preparatorie da svolgere prima dell’inizio dell’astensione, costringono di fatto il lavoratore ad anticipare la decisione di scioperare e gli impediscono di scegliere liberamente fino all’ultimo; (iii) sono parimenti antisindacali le disposizioni che, una volta iniziato lo sciopero, impongono al dipendente di svolgere attività lavorativa non retribuita, con minaccia di sanzioni disciplinari.

Corte di Cassazione, ordinanza 11 novembre 2025, n. 29737.

Antisindacale sostituire il CCNL prima della sua scadenza anche se tramite accordo di armonizzazione.

Una società aveva sostituito, prima della sua naturale scadenza, il CCNL metalmeccanici con il CCNL terziario per una parte dei propri dipendenti, sulla base di un “accordo di armonizzazione” stipulato con alcune sigle sindacali diverse da quella ricorrente. La Cassazione, ribadendo l’antisindacalità della condotta della società, afferma che: (i) il datore di lavoro non può unilateralmente disdire un CCNL con scadenza predeterminata, né può sostituirlo con altro contratto collettivo prima della scadenza: la facoltà di recesso appartiene esclusivamente alle parti stipulanti originarie; (ii) la sostituzione anticipata del CCNL vigente configura, per i suoi effetti, una disdetta unilaterale non consentita, anche se operata tramite un accordo concluso con altre organizzazioni sindacali: e nel caso di specie correttamente è stata ritenuta lesiva dell’immagine del sindacato.

Corte di cassazione, sentenza 7 novembre 2025 n. 29577.

Abusivo ricorso alla somministrazione: stabilizzazione possibile anche con l’utilizzatore.

Il dipendente di un’impresa di somministrazione di lavoro, essendo stato inviato presso la medesima impresa utilizzatrice in 47 missioni per un totale di 37 mesi per svolgere identiche mansioni, inquadrate nel medesimo livello, aveva chiesto e ottenuto dalla Corte d’appello di Brescia la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato nei confronti della società utilizzatrice. Respingendo il ricorso di quest’ultima, la Corte contrasta l’assunto secondo il quale nella somministrazione la regola della trasformazione a tempo indeterminato dopo 24 mesi si applicherebbe unicamente ai contratti a tempo determinato stipulati con l’agenzia di somministrazione. Rileva, viceversa, che (nel regime di cui al D. Lgs n. 81/2015, come modificato dal D.L. n. 87/2018, convertito nella L. n. 96/2018, ritenuto applicabile ratione temporis) il limite di durata e il corrispondente divieto di oltrepassarlo si propagano necessariamente, in ragione del collegamento negoziale e della funzionalizzazione dell’assunzione a termine all’invio in missione, dal rapporto tra agenzia e lavoratore

a quello che lega l’agenzia all’utilizzatore, portando in sé la limitazione dell’impiego temporaneo dello stesso lavoratore in missione presso l’utilizzatore. Ne consegue che, nella situazione data, correttamente il lavoratore può chiedere – e, come il ricorrente originario, chiedere e ottenere – la costituzione del rapporto di lavoro nei confronti di quest’ultimo.

Corte di Cassazione sentenza n. 28772 del 31 ottobre 2025.

Con la sentenza n. 28772 del 31.10.2025, la Cassazione afferma che, ai fini della qualificazione di una collaborazione come etero-organizzata, è sufficiente che l’organizzazione, i tempi e i luoghi del lavoro siano imposti dal committente, anche mediante un algoritmo (sul medesimo tema si veda: Cassazione: è lavoratore subordinato il rider inquadrato come collaboratore a progetto).

I lavoratori, a seguito della sottoscrizione di vari contratti di collaborazione coordinata e continuativa con la società, ricorrono giudizialmente al fine di ottenere l’accertamento della natura subordinata dei loro rapporti o, in alternativa, la declaratoria della sussistenza di rapporti di lavoro ex art. 2 D.Lgs. 81/2015.

La Corte d’Appello accoglie quest’ultima domanda e condanna la società al pagamento delle differenze retributive spettante ai ricorrenti in forza dell’applicazione del CCNL terziario.

La Cassazione – confermando quanto stabilito dalla Corte d’Appello – rileva preliminarmente che il carattere esclusivamente personale della prestazione lavorativa, richiesto dalla norma che ha introdotto le collaborazioni etero-organizzate, può essere negato solo in presenza dell’eventuale facoltà del collaboratore di avvalersi di propri ausiliari.

Per i Giudici di legittimità, inoltre, ai fini dell’integrazione della fattispecie di cui all’art. 2 del D.Lgs. 81/2015, è sufficiente la non occasionalità della prestazione, non essendo rilevante solo la media mensile dei turni effettivamente svolti, ma anche il numero di quelli opzionati dal lavoratore (posto che l’azienda ha la facoltà di assegnare la consegna a un rider diverso da quello che si era prenotato).

Secondo la sentenza, infine, se da un lato resta irrilevante il fatto che la bicicletta sia di proprietà dei lavoratori, dall’altro lato assume carattere decisivo la circostanza che la società (pur mediante algoritmi) eserciti il potere di determinare i tempi e il luogo di lavoro.

Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso della società, confermando la natura etero-organizzata delle collaborazioni intrattenute con i riders.

l Tribunale di Milano, con la sentenza n. 4953 del 29 ottobre 2025, ha affermato che per le “dimissioni per fatti concludenti” vale il termine già previsto dal CCNL per le assenze che danno luogo al licenziamento disciplinare e non i 15 giorni che valgono soltanto se il CCNL non ha disciplinato l’assenza ingiustificata.

Corte di Cassazione, sentenza n. 28365 del 27 ottobre 2025.

Con la sentenza n. 28365 del 27.10.2025, la Cassazione afferma che costituisce un’adeguata informativa ex art. 4 dello Statuto dei Lavoratori la diffusione di una policy che comunichi preventivamente ai dipendenti la possibilità di effettuare verifiche e controlli sugli strumenti informatici aziendali in caso di rilevate anomalie.

Il dipendente impugna giudizialmente il licenziamento irrogatogli dalla società datrice sulla base di un controllo effettuato, a seguito del sospetto di operazioni anomale, sul suo PC aziendale.

La Corte d’Appello rigetta la predetta domanda, ritenendo rispettate le prescrizioni di cui all’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, anche a fronte di un’adeguata informativa fornita ai dipendenti mediante diffusione della policy aziendale sull’utilizzo delle dotazioni informatiche.

La Cassazione – confermando quanto stabilito dalla Corte d’Appello – rileva preliminarmente che, in caso di sospetti di illeciti perpetrati da un dipendente, la società può procedere al controllo del PC aziendale utilizzato per svolgere la prestazione, a condizione che agisca nel rispetto di quanto previsto dall’art. 4 della L. 300/1970.

Le prescrizioni di detta norma, continua la sentenza, risultano rispettate qualora parte datoriale provi di aver fornito al dipendente interessato una adeguata informativa circa l’applicazione di previsioni contrattuali in materia disciplinare in caso di condotte non conformi alla policy aziendale sull’utilizzo degli strumenti informatici.

Secondo i Giudici di legittimità, laddove dai controlli emerga – come nel caso di specie – l’effettivo svolgimento di attività lesive del dovere di diligenza e fedeltà da parte del dipendente, il medesimo è passibile di licenziamento.

Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso del lavoratore, confermando la legittimità del licenziamento irrogatogli.

Cassazione con la sentenza n. 28367 del 27 ottobre 2025.

È “gravemente lesiva degli obblighi di fedeltà, correttezza e buona bene” l’attività extra lavorativa, tra l’altro non occasionale, “potenzialmente idonea a comportare un aggravamento delle patologie sofferte, in presenza di prescrizioni mediche che sconsigliavano talune tipologie di sforzi fisici tanto da determinare una limitazione alla prestazione esigibile dalla società”.

Lo afferma la Corte di Cassazione con la sentenza n. 28367/2025 con cui conferma la legittimità del licenziamento del dipendente per aver svolto alcuni allenamenti, in qualità di personal trainer, nel corso di un periodo di vigenza di una prescrizione del medico che lo aveva ritenuto inidoneo alla movimentazione manuale di carichi con peso superiore ai 18 kg.

Con la sentenza n. 28367 del 27.10.2025, la Cassazione afferma che è “gravemente lesiva degli obblighi di fedeltà, correttezza e buona fede un’attività extra-lavorativa, affatto occasionale, potenzialmente idonea a comportare un aggravamento delle patologie sofferte, in presenza di prescrizioni mediche che sconsigliavano talune tipologie di sforzi fisici tanto da determinare una limitazione alla prestazione esigibile dalla società”.

Il dipendente impugna giudizialmente il licenziamento irrogatogli per aver svolto alcuni allenamenti, in qualità di personal trainer, durante un periodo di vigenza di una prescrizione del medico aziendale che lo aveva ritenuto inidoneo alla movimentazione manuale di carichi aventi peso superiore ai 18 kg.

La Corte d’Appello rigetta la predetta domanda, sul presupposto che l’attività extralavorativa era incompatibile con le prescrizioni del medico competente.

La Cassazione – nel confermare la pronuncia di merito – rileva che l’attività compiuta dal prestatore in ambito extra-lavorativo, anche se non in costanza di malattia, può configurare una violazione dei doveri di correttezza e buona fede tale da giustificare il licenziamento.

Ciò, continua la sentenza, qualora detta attività non sia compatibile con le condizioni fisiche del dipendente che abbiano ridotto la sua capacità lavorativa con rischio di aggravamento delle condizioni stesse.

Secondo i Giudici di legittimità, infatti, una condotta di tal genere è lesiva dell’obbligo di fedeltà, nonché dei principi di correttezza e buona fede.

Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso proposto dal dipendente, confermando la legittimità del recesso irrogatogli.

Consiglio di Stato sentenza n. 7853 del 7 ottobre 2025.

Somministrati a tempo indeterminato – indennità di disponibilità sempre dovuta.

Con sentenza n. 7853 del 7 ottobre 2025 il Consiglio di Stato, confermando una precedente decisione del TAR, ha affermato che l’indennità di disponibilità, prevista dall’articolo 34 del decreto legislativo n. 81/2015, è sempre dovuta dall’Agenzia di Lavoro, allorquando il lavoratore, assunto a tempo indeterminato, è in attesa di essere inviato in missione presso un datore di lavoro cliente.

La disciplina legale non può essere elusa da un regolamento nel quale è stato inserito un termine massimo.

L’Agenzia, impugnando un provvedimento di disposizione, ex articolo 14 del decreto legislativo n. 104/2004, dell’Ispettorato territoriale del Lavoro, aveva rimarcato di non essere tenuta ad applicare il CCNL sottoscritto dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro della somministrazione, non essendo aderente ad alcuna associazione imprenditoriale.

Il Consiglio di Stato ha sancito che il rinvio al CCNL, operato dal Legislatore, riguarda, unicamente, l’ammontare dell’indennità, mentre l’obbligo di versarla integralmente per i periodi di “non lavoro” non è soggetto ad alcuna regolamentazione aziendale.

L’organo supremo della giustizia amministrativa, confermando la bontà della disposizione dell’ITL, ha affermato che l’indennità ha natura retributiva e, come tale, ricade nella parte economica del CCNL.

Tribunale di Milano, 29 ottobre 2025.

Tribunale di Bergamo, 7 ottobre 2025.

Dimissioni per assenza ingiustificata: quale termine per avviare la procedura?

Si segnalano due pronunce intervenute sul tema delle c.d. dimissioni di fatto (o, in termini giuridici, per fatti concludenti), oggetto delle recenti modifiche dell’art. 26 d. Lgs. 151/15, con l’aggiunta a tale disposizione del comma 7 bis.

Con la sentenza 29 ottobre 2025 il Tribunale di Milano ha ritenuto che ai fini di determinare il periodo di assenza ingiustificata oltre il quale, il nuovo c. 7 bis, il rapporto può ritenersi risolto per volontà del lavoratore e il datore può avviare la specifica procedura) si possa fare riferimento alle previsioni formulate dai contratti collettivi nazionali relative alle assenze ingiustificate quali condotte passibili di sanzioni disciplinari espulsive. In sostanza, secondo il giudice milanese, il datore di lavoro potrebbe dare corso alla procedura che equipara l’assenza del lavoratore alla volontà di dimettersi, allo scadere del (di solito breve) periodo cui il CCNL assegna rilievo per sanzionare le assenze ingiustificate.

Di contro, con la sentenza 7 ottobre 2025 il Tribunale di Bergamo esclude detta applicazione, in quanto il termine previsto dai contratti collettivi ai fini disciplinari ha la diversa funzione di individuare la misura dell’inadempimento che le parti collettive ritengono sufficiente a rendere intollerabile la prosecuzione del rapporto lavorativo, con conseguente possibilità per il datore di lavoro di procedere alla sua risoluzione (ma a condizione del rispetto delle garanzie procedurali di cui all’art. 7 L. 300/70). In sostanza, è come se la sentenza dicesse che il datore di lavoro può fare riferimento al periodo indicato dal codice disciplinare se vuole avvalersi del potere di licenziare; se invece vuole far valere le dimissioni per giusta causa deve attendere il decorso del periodo previsto dalla legge (15 giorni), salvo che il CCNL disciplini diversamente anche tale aspetto, autonomamente rispetto al codice disciplinare.

In linea con la sentenza bergamasca, peraltro, si segnala anche la Circolare n. 6/25 del Ministero del Lavoro, la quale afferma che il rinvio operato dalla norma alla contrattazione collettiva (“In caso di

assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro (…)”) deve quindi intendersi riferito a un’eventuale disposizione del CCNL che potrà espressamente regolare (o ha già espressamente regolato dopo l’introduzione del comma 7bis) la nuova e diversa fattispecie introdotta dal legislatore.

NEWSLETTER 11/2025

Novita’ normative

D.L. 31 ottobre 2025 n. 159.

Pubblicato in Gazzetta il nuovo decreto legge in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Le misure adottate con il rafforzano controlli e strumenti di prevenzione. Tra le principali novità:

  • Incentivi premiali per le imprese virtuose e revisione delle aliquote Inail in funzione dell’andamento infortunistico.
  • Nuovo badge digitale per la tracciabilità dei lavoratori e controlli su subappalti.
  • Inasprita la decurtazione dei punti per la patente a crediti.
  • Sul fronte della formazione, esteso l’obbligo di aggiornamento per i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS) anche alle piccole imprese.

Previsto inoltre un innalzamento dei requisiti di accreditamento degli enti formativi per gli enti accreditati alla formazione continua

Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali: risposta ad interpello n. 3 del 13 ottobre 2025.

DURC: rilascio e nozione di “scostamento non grave”.

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con risposta ad interpello n. 3 del 13 ottobre 2025, in relazione al quesito posto dall’ANPIT (Associazione Nazionale per Industria e Terziario), in merito alla possibilità di interpretare la nozione di “scostamento non grave” di cui all’art. 3, comma 3, D.M. 30 gennaio 2015 nel senso che, ove le situazioni debitorie nei confronti degli enti previdenziali siano costituite esclusivamente da accessori di legge (sanzioni/interessi) – e, dunque, prive di una effettiva omissione contributiva (perché già sanata) – l’ente previdenziale sia tenuto a rilasciare comunque un DURC attestante la regolarità contributiva, potendo solo attivare, per il recupero delle somme a credito, i diversi strumenti coattivi messi a sua disposizione dall’ordinamento ha precisato che, ai fini della regolarità contributiva (e quindi ai fini del rilascio del DURC) è necessario che eventuali debiti contributivi, sanzioni e interessi, nel loro complesso, non superino l’importo di 150 euro, soglia limite per la sussistenza dello “scostamento non grave.

Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali: nota n. 14744 del 13 ottobre 2025

Dimissioni nel periodo di prova: convalida, chiarimenti

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha emanato la nota n. 14744 del 13 ottobre 2025, con la quale fornisce chiarimenti in merito alla necessità di convalida delle dimissioni presentate durante il periodo di prova da parte dei genitori lavoratori tutelati dall’art. 55, comma 4, del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità).

In estrema sintesi, per il Ministero le dimissioni della lavoratrice in gravidanza ovvero di un genitore nei primi tre anni di vita del bambino, anche se presentate durante il periodo di prova, debbono comunque essere convalidate dall’Ispettorato del lavoro o dall’Ufficio ispettivo del lavoro territorialmente competente, a norma dell’art. 55, comma 4, del d.lgs. n. 151/2001.

Novita’ giurisprudenziali

Corte Costituzionale, sentenza 7 ottobre 2025, n 144.

Licenziamento del dipendente pubblico: indennità risarcitoria parametrata sulla retribuzione del TFR.

Cristallizzando i risultati della giurisprudenza relativa al regime applicabile ai licenziamenti illegittimi nella P.A. dopo la modifica apportata all’art. 18 S.L. dalla legge Fornero del 2012, il legislatore del 2017 aveva sostanzialmente optato per l’applicabilità dell’art. 18 S.L. nel testo ante-riforma. In particolare, oltre la reintegrazione, la legge prevede un’indennità risarcitoria commisurata “all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento del t.f.r.”. Poiché solo ad alcuni dipendenti pubblici è applicabile il t.f.r. e ad altri l’ips o il TFS e poiché solo la retribuzione per il computo del tfr è ispirata al principio di omnicomprensività, si era di nuovo posto un problema interpretativo e la giurisprudenza aveva finito per interpretare la norma nel senso che la retribuzione-parametro del t.f.r. fosse applicabile ai soli dipendenti in regime di t.f.r., mentre per gli altri la retribuzione-parametro sarebbe quella del TFS Sul conseguente tema della legittimità costituzionale di questa disparità di trattamento il giudice ha dunque interrogato la Corte costituzionale. Respingendo la questione di costituzionalità sollevata, la Corte contesta il presupposto interpretativo a fondamento della stessa: il legislatore del 2017 ha voluto infatti armonizzare i criteri di liquidazione dell’indennità per tutti i dipendenti pubblici contrattualizzati, adottando una nozione di t.f.r. astratto e non f riferito a un trattamento concretamente applicabile. Nessuna disparità di trattamento pertanto è ravvisabile: il regime è unico per tutti i dipendenti pubblici, ancorché alcuni di essi non abbiano a suo tempo optato per il TFR.

Cassazione civile, ordinanza 17 ottobre 2025, n. 27719.

La Cassazione fa il punto sull’efficacia soggettiva del CCNL, quando l’azienda esercita attività differenti.

L’individuazione della sfera di efficacia soggettiva del contratto collettivo di diritto è rimessa all’autonomia negoziale delle parti, esercitata attraverso l’iscrizione ad un sindacato o ad un’associazione imprenditoriale oppure sulla scorta di un comportamento concludente, a prescindere dal criterio dell’attività svolta. Il datore di lavoro che svolga attività economiche diverse e sia iscritto alle associazioni datoriali stipulanti i rispettivi contratti collettivi è tenuto ad applicare nella propria azienda il contratto collettivo coerente con ciascun settore di attività.

Corte di Cassazione, sentenza 7 ottobre 2025, n. 26956.

Malattia particolarmente grave e comporto nel CCNL logistica.

Nel giudizio di impugnazione di un licenziamento per superamento del periodo di comporto nel settore “logistica” la Corte era chiamata a interpretare la norma del contratto collettivo che esclude dal calcolo del comporto i periodi di “malattie particolarmente gravi” occorsi durante un determinato arco temporale. Secondo la Corte – che conferma il rigetto delle domande -, (i) la nozione di “malattia particolarmente grave”, interpretata con i criteri di cui agli artt. 1362 ss. cod. civ., va intesa in senso restrittivo: dalla lettura coordinata delle diverse norme del CCNL e dal confronto con altri contratti emerge l’intento di escludere dal computo del comporto unicamente le patologie che impongono terapie salvavita o comunque trattamenti indispensabili alla sopravvivenza; (ii) l’onere di documentare la ricorrenza di tale condizione grava sul lavoratore, attraverso la prodizione di certificazione medica che attesti la “patologia grave che richiede terapia salvavita”; (iii) comunicazioni informali (es. messaggi WhatsApp al responsabile per aggiornarlo sull’evoluzione della malattia, come accaduto nel caso di specie) non hanno valore medico-legale e non suppliscono alla certificazione.

Corte di Cassazione, sentenza 7 ottobre 2025, n. 26954.

Revoca del licenziamento di lavoratrice in gravidanza: i 15 giorni decorrono dall’impugnazione, non dalla successiva comunicazione della gravidanza.

Una dipendente, licenziata in data 4 maggio 2022 per giustificato motivo oggettivo, quando era in gravidanza, aveva dapprima impugnato in modo generico il recesso e successivamente comunicato al datore di lavoro il proprio stato. Conseguentemente l’impresa aveva revocato il licenziamento e invitato la dipendente a riprendere servizio, al quale invito la lavoratrice non aveva adempiuto, sostenendo la tardività della revoca a norma dell’art. 5 del D.Lgs. n. 23/2015 e impugnando su tale base il recesso. La Cassazione accoglie il ricorso della lavoratrice chiarendo che: (i) l’art. 5 del D.Lgs. n. 23/15 attribuisce al datore, nel quadro di un procedimento speciale rispetto alla normativa ordinaria sui licenziamenti illegittimi, il diritto potestativo di revocare entro 15 giorni il licenziamento, col ripristino immediato e retroattivo del rapporto e delle retribuzioni perdute, ma azzerando le ulteriori ordinarie conseguenze favorevoli al dipendente; (ii) trattasi pertanto di istituto eccezionale, la cui disciplina è di stretta interpretazione e va applicata secondo il suo tenore letterale, che fissa il termine di quindici giorni dalla comunicazione dell’impugnazione, senza distinguere in base alla conoscenza del motivo di invalidità; (iii) trattandosi di un termine di decadenza, non è suscettibile né di sospensione né di interruzione; (iv) la conoscenza successiva dello stato di gravidanza non incide sul decorso del termine, dato che la tutela della maternità non può essere subordinata a un obbligo della lavoratrice di informare preventivamente il datore di lavoro della propria condizione.

Corte di Cassazione, sentenza n. 24973 del 16 settembre 2025.

Perché parte datoriale sia esonerata dall’obbligazione retributiva è necessario che la sospensione unilaterale del rapporto di lavoro non sia a lei imputabile.

Questo il principio giurisprudenziale confermato dalla Corte di Cassazione, che ha dichiarato illegittima la sospensione della prestazione e della retribuzione disposta dal datore di lavoro in seguito all’ingiustificato rifiuto della ripresa del lavoro offerta dal dipendente provvisoriamente inidoneo alla mansione specifica anche in altre forme conformi alla consolidata prassi aziendale e compatibili con il suo stato di salute.

In caso di lavoratore affetto da una patologia transitoria e ritenuto temporaneamente inidoneo alla mansione specifica, infatti, il datore di lavoro deve dapprima tentare di adibirlo – per quanto possibile – a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento (o a mansioni anche inferiori) e, solo in difetto, è legittimato a sospendere la prestazione e la relativa retribuzione.

Qualora l’accertata inidoneità temporanea alla mansione si fondi sulla condizione di disabilità fisica o psichica del prestatore di lavoro, tuttavia, prima di procedere con la sospensione del rapporto il datore di lavoro deve – senza che ciò comporti un onere eccessivo – provare non solo a ricollocare il dipendente in mansioni equivalenti o inferiori, ma altresì ad adottare i c.d. adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro compatibili con lo stato di salute del lavoratore, come:

  • lo spostamento del lavoratore disabile in locali diversi da quello originario;
  • il trasferimento del lavoratore presso una sede di lavoro più vicina alla residenza;
  • l’adeguamento dei locali, delle attrezzature o delle mansioni (anche tramite la ripartizione dei compiti) alle condizioni di salute del lavoratore disabile;
  • le riduzioni e modifiche degli orari di lavoro;
  • lo svolgimento delle mansioni in regime di lavoro agile.

Infatti, come precisato dal Tribunale di Rovereto con sentenza n. 14 del 8 maggio 2025, la sospensione unilaterale del rapporto di lavoro in essere con il lavoratore disabile (che legittimerebbe altresì il datore di lavoro alla mancata corresponsione della retribuzione) rappresenta – al pari dell’ipotesi di recesso per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore – l’ultima soluzione praticabile in seguito all’infruttuoso sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata avuto riguardo a ogni circostanza rilevante nel caso concreto.

Corte di Cassazione, ordinanza n. 24558 del 4 settembre 2025

Ai fini della legittimità del recesso, il datore deve mettere a disposizione del dipendente licenziato, già dal momento della contestazione, il report investigativo posto a base degli addebiti.

Nel caso di specie il lavoratore impugnava giudizialmente il licenziamento irrogatogli per uso abusivo dei permessi ex lege 104/1992. La Corte d’Appello accoglie la predetta domanda, ravvisando una violazione del diritto di difesa del lavoratore per la messa a disposizione del report investigativo, inerente le giornate incriminate, solo in giudizio.

La Cassazione – nel confermare la pronuncia di merito – rileva che, in tema di esercizio del potere disciplinare, la contestazione dell’addebito ha la funzione di indicare il fatto contestato al fine di consentire la difesa del lavoratore, mentre non ha per oggetto le relative prove, soprattutto per i fatti che, svolgendosi fuori dall’azienda, sfuggono alla diretta cognizione del datore di lavoro.

Per la sentenza, conseguentemente, è sufficiente che il datore di lavoro indichi la fonte della sua conoscenza.

Tuttavia, secondo i Giudici di legittimità, nel caso di specie, il datore non ha preindicato specificamente i fatti addebitati e, peraltro, non è riuscito a dimostrare nemmeno in giudizio che il personale autore del report fosse autorizzato.

Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso proposto dalla società, confermando l’illegittimità dell’impugnato recesso.

Corte d’Appello di Milano, 17 settembre 2025.

l trasferimento di una lavoratrice disabile a una unità locale più vicina al suo domicilio può configurare un accomodamento ragionevole.

La Corte accoglie il ricorso di una lavoratrice e ne riconosce il diritto a essere trasferita presso la sede di lavoro più vicina alla sua abitazione, configurando tale misura come un “accomodamento ragionevole” dovuto in ragione della sua disabilità, pur non qualificata come grave. Il provvedimento della Corte ha giudicato illegittimo il rifiuto del datore di lavoro, affermando che per l’azienda fosse possibile trovare soluzioni organizzative tali da garantire la parità di trattamento, senza oneri sproporzionati o eccessivi. Dagli atti è emerso, infatti, come presso la sede più vicina all’abitazione della lavoratrice risultassero impiegati dei lavoratori somministrati e adibiti allo svolgimento di mansioni compatibili con quelle della dipendente.

Tribunale di Venezia, 16 luglio 2025.

Applicata la sentenza 129/2024 della Corte costituzionale: se il CCNL prevede per la condotta una sanzione conservativa il lavoratore deve essere reintegrato sul posto di lavoro

Qualora il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro preveda per una specifica condotta illecita (ricevere mance dai fornitori in violazione del regolamento aziendale) una sanzione di tipo conservativo, il datore di lavoro non può legittimamente licenziare il dipendente per quella stessa condotta. In tal caso, il fatto contestato viene considerato giuridicamente “inesistente”, nel senso che è inidoneo a giustificare la risoluzione del rapporto di lavoro. Di conseguenza, il licenziamento è illegittimo e il lavoratore ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, anche nel regime del Jobs Act. Nel caso specifico, il Giudice ha ritenuto che il divieto di percepire mance per i lavoratori a cui si applica il CCNL Turismo Pubblici Esercizi si estenda anche alle somme in denaro elargite dai fornitori, ma che tale divieto non possa in ogni caso condurre a un licenziamento.

Tribunale di Campobasso, decreto n. 1352 16 luglio 2025.

Il Tribunale di Campobasso rigetta il ricorso per la repressione della condotta antisindacale in un caso di sostituzione del CCNL (da TLC a BPO, settore terziario, call center) durante l’ultrattività.

La decisione desta interesse perché incentrata in massima parte sull’interpretazione delle clausole temporali (ultrattività, rinnovo, disdetta etc). Nel caso di specie, il Tribunale:

  • chiarisce che l’ultrattività è questione rimessa all’autonomia collettiva (inapplicabile l’art. 2074 c.c.)
  • aderisce alle discutibili pronunce della Cassazione del 2021 e successive che ravvedono nell’ultrattività fino al rinnovo un termine negoziale (così escludendo la facoltà di recesso degli stipulanti)
  • ravvede, in assenza di disdetta, l’inapplicabilità della ultrattività fino al rinnovo, pure prevista
  • ravvede l’applicabilità della clausola di “rinnovo automatico” la quale, in assenza di previsione espressa di un termine o senza chiarire che gli effetti si sarebbero protratti fino alla sottoscrizione del nuovo CCNL

Ne segue che non incorre in una condotta antisindacale, né viola la clausola di ultrattività, la scelta del datore di lavoro di applicare un CCNL diverso, stipulato dalla associazione datoriale di appartenenza. Non deve rilevare, prosegue il giudice, la valutazione circa il carattere peggiorativo del contratto successivo, almeno ai fini della valutazione della condotta datoriale ex art. 28 St. lav., né l’eventuale dimostrazione del carattere peggiorativo del trattamento normativo ed economico implica automaticamente una lesione dei beni protetti dalla norma sulla repressione della condotta sindacale (in tal senso sono “salve le valutazioni delle eventuali competenti sedi di merito in caso di controversie instaurate da singoli lavoratori”, i.e. per rivendicare l’insufficienza della retribuzione ex art. 36 Cost.).

Le norme di incentivo all’applicazione di contratti stipulati da soggetti comparativamente più rappresentativi (ad es. art. 51 del d.lgs. 81 del 2015; e art. 29 comma 1 bis del d.lgs. 276 del 2003) non dimostrano che, a fronte del cambio volontario del CCNL, sia stato violato l’interesse a contrattare dei sindacati comparativamente più rappresentativi.

NEWSLETTER 10/2025

Novita’ normative

Legge 23 settembre 2025, n. 132.

Pubblicata la legge delega che regolamenta l’uso dell’intelligenza artificiale nel lavoro. Disposizioni e deleghe al Governo in materia di intelligenza artificiale.

Per quanto riguarda la materia lavoro, questi gli articoli di riferimento:

Art. 11. (Disposizioni sull’uso dell’intelligenza artificiale in materia di lavoro)

L’intelligenza artificiale è impiegata per migliorare le condizioni di lavoro, tutelare l’integrità psicofisica dei lavoratori, accrescere la qualità delle prestazioni lavorative e la produttività delle persone in conformità al diritto dell’Unione europea.

L’utilizzo dell’intelligenza artificiale in ambito lavorativo deve essere sicuro, affidabile, trasparente e non può svolgersi in contrasto con la dignità umana né violare la riservatezza dei dati personali. Il datore di lavoro o il committente è tenuto a informare il lavoratore dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale nei casi e con le modalità di cui all’articolo 1-bis del decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152.

L’intelligenza artificiale nell’organizzazione e nella gestione del rapporto di lavoro garantisce l’osservanza dei diritti inviolabili del lavoratore senza discriminazioni in funzione del sesso, dell’età, delle origini etniche, del credo religioso, dell’orientamento sessuale, delle opinioni politiche e delle condizioni personali, sociali ed economiche, in conformità al diritto dell’Unione europea.

Art. 12. (Osservatorio sull’adozione di sistemi di intelligenza artificiale nel mondo del lavoro)

Al fine di massimizzare i benefici e contenere i rischi derivanti dall’impiego di sistemi di intelligenza artificiale in ambito lavorativo, è istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali l’Osservatorio sull’adozione di sistemi di intelligenza artificiale nel mondo del lavoro, con il compito di definire una strategia sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale in ambito lavorativo, monitorare l’impatto sul mercato del lavoro e identificare i settori lavorativi maggiormente interessati dall’avvento dell’intelligenza artificiale. L’Osservatorio promuove la formazione dei lavoratori e dei datori di lavoro in materia di intelligenza artificiale.

L’Osservatorio è presieduto dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali o da un suo rappresentante. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, da adottare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono stabiliti i componenti, le modalità di funzionamento, nonché gli ulteriori compiti e funzioni dell’Osservatorio medesimo. Ai componenti dell’Osservatorio non spettano compensi, gettoni di presenza, rimborsi di spese o altri emolumenti comunque denominati.

L’istituzione e il funzionamento dell’Osservatorio non comportano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e sono assicurati con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.

Art. 13. (Disposizioni in materia di professioni intellettuali)

L’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale nelle professioni intellettuali è finalizzato al solo esercizio delle attività strumentali e di supporto all’attività professionale e con prevalenza del lavoro intellettuale

oggetto della prestazione d’opera.

Per assicurare il rapporto fiduciario tra professionista e cliente, le informazioni relative ai sistemi di intelligenza artificiale utilizzati dal professionista sono comunicate al soggetto destinatario della prestazione intellettuale con linguaggio chiaro, semplice ed esaustivo.

Legge n. 106 del 18 luglio 2025.

Lavoro agile da autorizzare anche se sussiste la priorità. Un ulteriore criterio di priorità in favore dei malati oncologici.

La L. 106/2025, all’art. 1 comma 4, ha inserito una disposizione in materia di accesso allo smart working in favore dei malati oncologici. Tale norma prevede infatti espressamente che una volta decorso il periodo di congedo non retribuito previsto al comma 1 – che non può essere superiore a 24 mesi ed è richiedibile dai dipendenti, pubblici o privati, affetti da malattie oncologiche, ovvero da malattie invalidanti o croniche, anche rare, che comportino un grado di invalidità pari o superiore al 74% – il lavoratore dipendente vanta il diritto ad accedere prioritariamente, ove la prestazione lavorativa lo consenta, alla modalità di lavoro agile.

A tal fine è necessaria, oltre alla preventiva richiesta di fruizione del predetto congedo, la richiesta di smart working al termine del congedo stesso, sempre che la prestazione lavorativa svolta risulti compatibile con lo svolgimento in modalità agile.

Si evidenzia che l’indicato criterio di priorità si affianca ai criteri di priorità previsti dal comma 3-bis dell’art. 18 della L. 81/2017, come sostituito dal D.Lgs. 105/2022, e dal comma 6-bis dell’art. 33 della L. 104/92, che di seguito si riepilogano sinteticamente.

Per legge, i datori di lavoro pubblici e privati devono considerare con priorità le richieste di smart working avanzate dalle lavoratrici e dai lavoratori con figli fino a 12 anni di età o, senza alcun limite di età, con figli in condizioni di disabilità ai sensi dell’art. 3 comma 3 della L. 104/92.

Allo stesso modo, devono essere considerate con priorità le richieste avanzate da lavoratori con disabilità in situazione di gravità accertata ai sensi dell’art. 4 comma 1 della indicata L. 104/92, o che siano caregivers, i quali vengono definiti dall’art. 1 comma 255 della L. 205/2017 come coloro che assistono e si prendono cura del coniuge, dell’altra parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso o del convivente di fatto ex L. 76/2016, di un familiare o di un affine entro il secondo grado o – nei soli casi indicati dall’art. 33 comma 3 della L. 104/92 – di un familiare entro il terzo grado che, a causa di malattia, infermità o disabilità (anche croniche o degenerative), non sia autosufficiente e in grado di prendersi cura di sé, sia riconosciuto invalido in quanto bisognoso di assistenza globale e continua di lunga durata ex art. 3 comma 3 della medesima legge o sia titolare di indennità di accompagnamento ex L. 18/80.

Il comma 6-bis dell’art. 33 della L. 104/92 prevede poi che i lavoratori che usufruiscono dei permessi di cui ai commi 2 e 3 di tale articolo hanno diritto di priorità nell’accesso al lavoro agile ai sensi dell’art. 18 comma 3-bis della L. 81/2017 o ad altre forme di lavoro flessibile, restando ferme le eventuali previsioni più favorevoli previste dalla contrattazione collettiva.

Si evidenzia, infine, che il citato art. 18 prevede il divieto di sanzionare, demansionare, licenziare, trasferire, o sottoporre ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro la lavoratrice o il lavoratore che abbiano richiesto di fruire del lavoro agile. Qualunque misura adottata in violazione di tale divieto è da considerarsi nulla in quanto ritorsiva o discriminatoria.

Inoltre, il rifiuto, l’opposizione o l’ostacolo alla fruizione del lavoro agile, secondo quanto disposto dal comma 3-bis dell’art. 18 della L. 81/2017, ove rilevati nei due anni antecedenti alla richiesta della

certificazione della parità di genere ex art. 46-bis del D.Lgs. 198/2006 o di analoghe certificazioni previste dalle regioni e dalle province autonome nei rispettivi ordinamenti, impediscono al datore di lavoro il conseguimento delle stesse certificazioni.

Circolare INPS n. 130 del 30 settembre 2025.

Chiarimenti in materia di pignorabilità delle somme erogate dall’Istituto a titolo di prestazioni previdenziali non pensionistiche e indennità di sostegno al reddito dei lavoratori in conseguenza di cessazione, sospensione o riduzione dell’attività lavorativa.

Con la Circolare n. 130 del 30 settembre 2025, l’INPS ha fornito chiarimenti in materia di pignorabilità delle somme erogate dall’Istituto a titolo di prestazioni previdenziali non pensionistiche e indennità di sostegno al reddito dei lavoratori in conseguenza di cessazione, sospensione o riduzione dell’attività lavorativa. In prima battuta, l’Istituto ha illustrato il quadro normativo, ricordando la distinzione, contenuta nell’art. 545 c.p.c., tra crediti del tutto impignorabili e crediti parzialmente pignorabili, ossia pignorabili entro certi limiti e a determinate condizioni.

Rientrano nella prima categoria, ai sensi dell’art. 545 comma 2 c.p.c., i crediti aventi per oggetto “sussidi di grazia o sostentamento a persone comprese nell’elenco dei poveri, oppure sussidi dovuti per maternità, malattie o funerali da casse di assicurazione, da enti di assistenza o da istituti di beneficenza”. Sono cioè da considerarsi non pignorabili le somme erogate dall’INPS per prestazioni di malattia, maternità, paternità nonché quelle connesse ai congedi parentali, alle prestazioni antitubercolari, ai permessi e ai congedi straordinari per assistenza ai disabili. In ogni caso, tali crediti possono essere ceduti, sequestrati e pignorati, nei limiti di un quinto del loro ammontare, per debiti verso lo stesso Ente previdenziale derivanti da indebite prestazioni percepite a carico di forme di previdenza gestite dall’Istituto, ovvero da omissioni contributive, ai sensi dell’art. 69 della L. 153/69.

Invece, nella seconda categoria, ossia quella dei crediti parzialmente pignorabili, ai sensi del primo, terzo e quarto comma dell’art. 545 c.p.c., rientrano, oltre ai crediti alimentari, anche i crediti retributivi. In particolare, l’INPS evidenzia come la pignorabilità delle indennità sostitutive della retribuzione sia consentita esclusivamente per i crediti alimentari e per i tributi dovuti allo Stato, alle Province e ai Comuni e per ogni altro credito nella misura di un quinto. Si evince, quindi, una regola generale per cui le somme aventi natura di reddito da lavoro possono essere pignorate fino a un quinto del loro importo, fatta salva la possibilità, da parte del giudice, di disporre una diversa misura per i crediti alimentari.

L’INPS precisa, poi, che nel caso in cui il credito da prestazione sostitutiva della retribuzione venga pignorato più volte da diversi creditori, trova applicazione il limite di pignorabilità dei crediti di natura retributiva del debitore nell’ipotesi della simultanea esistenza di più crediti nei suoi confronti. In tal senso, il quinto comma dell’art. 545 c.p.c. dispone che il limite di un quinto possa essere esteso fino alla metà nell’eventualità di simultaneo concorso tra le diverse cause di credito indicate ai commi precedenti del medesimo articolo. Di conseguenza, anche per la soddisfazione dei crediti alimentari, i crediti previdenziali sostitutivi della retribuzione possono essere pignorati fino alla metà e, nell’ipotesi in cui il medesimo credito sia già assoggettato a esecuzione forzata, lo stesso è pignorabile al massimo nella misura pari alla differenza tra la metà del credito da prestazione e quanto già assoggettato al precedente pignoramento.

Per quanto attiene alla fase esecutiva dell’ordinanza di assegnazione, l’INPS precisa come, salvo diversa disposizione giudiziale, in caso di più pignoramenti debba essere data esecuzione al provvedimento relativo alla procedura esecutiva notificata in data anteriore: in caso di precedenti procedure esecutive già attive sul trattamento previdenziale, si può dare esecuzione al pignoramento

solo dopo l’integrale soddisfo di tali posizioni.

Inoltre, in assenza di disposizioni specifiche nel provvedimento di assegnazione, l’Ente previdenziale individua alcuni criteri cui fare affidamento:

  • se la notifica dei pignoramenti viene effettuata nella medesima data o se nell’ambito dello stesso procedimento esecutivo concorrono più crediti, l’importo da trattenere e da destinare ai diversi creditori deve essere contenuto nei limiti di un quinto;
  • qualora nell’ambito dello stesso procedimento esecutivo concorrano più creditori e nel provvedimento di assegnazione non sia stata specificata la percentuale di ripartizione delle somme, le medesime devono imputarsi in parti uguali a ciascuno dei creditori pignoratizi;
  • in caso di pignoramenti notificati nella medesima data, preso atto che la quota di un quinto trattenuta in fase di accantonamento cautelare è stata ripartita in parti uguali tra le diverse procedure esecutive, deve essere data tempestiva esecuzione all’ordinanza di assegnazione che pervenga in data anteriore;
  • in presenza di un provvedimento di assegnazione da eseguire in concorso ad altro terzo pignorato, il recupero del debito deve intendersi ripartito al 50%;
  • se coesistono trattenute per finanziamento con estinzione dietro cessione del quinto e trattenute per pignoramento, queste ultime devono essere sempre applicate in via prioritaria rispetto a quelle inerenti al finanziamento.

Agenzia delle Entrate, risposta ad interpello n. 233/E del 9 settembre 2025.

Auto concesse in uso promiscuo.

L’Agenzia delle Entrate, con risposta ad interpello n. 233/E del 9 settembre 2025, fornisce indicazioni circa la corretta applicazione delle ritenute fiscali e previdenziali delle somme eventualmente trattenute ai dipendenti, per gli optional dagli stessi richiesti sui veicoli loro assegnati in uso promiscuo ed, in particolare, se debbano essere sottratte o meno dalla base imponibile del reddito di lavoro dipendente.

Questa, in estrema sintesi, la risposta dell’Agenzia delle Entrate.

Qualora il datore di lavoro trattenga in capo ai dipendenti delle somme per la richiesta di optional aggiuntivi da installare sui veicoli concessi in uso promiscuo, che non sono ricompresi nella valorizzazione determinata nelle tabelle ACI, le stesse non riducono il valore del fringe benefit da assoggettare a tassazione ai sensi dell’articolo 51, comma 4, lettera a), del TUIR, per cui tali somme corrisposte dal dipendente per l’acquisto degli optional dovranno essere trattenute dall’importo netto corrisposto in busta paga.

Agenzia delle Entrate, interpello n. 249/E del 18 settembre 2025.

Dipendente in servizio all’estero – Assicurazione sanitaria – Trattamento fiscale.

L’Agenzia delle Entrate, con l’interpello n. 249/E del 18 settembre 2025, fornisce alcuni chiarimenti in merito al corretto regime fiscale da applicare al premio della polizza assicurativa sottoscritta dal datore di lavoro in favore dei dipendenti che prestano servizio all’estero nei paesi dove non è erogata l’assistenza sanitaria in forma diretta e dei relativi familiari a carico conviventi.

Questa, la risposta dell’Agenzia delle Entrate:

l’articolo 51, comma 1, del Testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), prevede che costituiscono reddito di lavoro dipendente «tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali,

in relazione al rapporto di lavoro». Tale disposizione include nel reddito di lavoro dipendente tutte le somme ed i valori che il dipendente percepisce in relazione al rapporto di lavoro (c.d. ”principio di onnicomprensività”), salve le tassative deroghe contenute nei successivi commi del medesimo articolo

51; lo stesso articolo 51, comma 2, lettera a), primo periodo, dispone che non concorrono alla formazione del reddito di lavoro dipendente «i contributi previdenziali e assistenziali versati dal datore di lavoro o dal lavoratore in ottemperanza a disposizioni di legge»; con circolare 23 dicembre 1997, n. 326, l’Amministrazione Finanziaria ha chiarito che l’assistenza sociale risponde «a finalità fondate unicamente sulla solidarietà collettiva a soggetti che versano in uno stato di bisogno» e che si qualificano come ”contributi previdenziali” quei contributi versati in ottemperanza di legge al fine di garantire al dipendente specifiche prestazioni previdenziali; sulla base della normativa e della prassi richiamata, il contratto di assicurazione sanitaria (malattia, infortunio e maternità) che il datore di lavoro ha sottoscritto non può essere ricondotto alla categoria dei ”contributi assistenziali”, non riscontrandosi alcuna finalità di ”solidarietà collettiva” nei confronti di soggetti che versano in uno stato di bisogno, né a quella dei ”contributi previdenziali”, come sopra descritti; di conseguenza, il premio della polizza sottoscritta dall’Istante in favore dei propri dipendenti che prestano servizio all’estero concorre alla formazione del reddito di lavoro dipendente.

Garante privacy provvedimento n. 363 del 23 giugno 2025.

No alla divulgazione dei motivi dell’assenza dei dipendenti.

Il Garante per la protezione dei dati personali, con il Provvedimento n. 363 del 23 giugno 2025, ha sanzionato una società che ha divulgato dati personali, anche di natura sensibile, relativi ai motivi dell’assenza dal lavoro del proprio personale.

In particolare, le informazioni relative ai motivi delle assenze, indicate mediante sigle sintetiche (“MAL” in luogo di malattia, “104” in luogo di “permesso assistenza disabili, l. n. 104/1992”, “SOSP” in luogo di sospensione/sanzione disciplinare, ecc.) venivano rese disponibili a tutti i dipendenti, mediante affissione delle tabelle dei turni di servizio sulle bacheche aziendali, posizionate presso i depositi aziendali dei mezzi di trasporto utilizzati per la gestione del servizio, nonché tramite l’invio di una e-mail ai dipendenti dell’azienda.

Novita’ giurisprudenziali

Tribunale di Bari, sentenza 17 settembre 2025, n. 1557.

La legittimità dello staff leasing.

La sentenza evidenzia che lo staff leasing è coerente con il diritto comunitario, poiché la Direttiva 2008/104/CE si applica solo ai lavoratori assegnati “temporaneamente” a un’impresa utilizzatrice.

La stabilità del rapporto a tempo indeterminato esclude la precarietà che la direttiva mira a contrastare.

La normativa italiana (artt. 31 e 34 D.Lgs. 81/2015) consente lo staff leasing e garantisce tutele specifiche: il lavoratore è assunto dall’agenzia a tempo indeterminato, gode dell’indennità di disponibilità e di concrete prospettive di ricollocamento

La sentenza procede ad una analisi puntuale delle fonti comunitarie che mette in luce la differenza tra contratto a termine e staff leasing.

Un chiarimento utile dopo alcune decisioni che hanno generato incertezza: lo staff leasing è legittimo e non contrasta con la direttiva europea sul lavoro interinale.

Nello specifico, secondo il Tribunale, infatti, lo staff leasing assicura stabilità al lavoratore, sulla base del rapporto a tempo indeterminato con l’agenzia interinale e quindi non contrasta con la Direttiva 2008/104/CE che regola il lavoro in somministrazione, sottolineandone la natura temporanea e stabilendo misure con l’abuso delle missioni a termine.

Il Tribunale di Bari, Sezione Lavoro con la sentenza in parola si è pronunciato su un ricorso relativo alla somministrazione di lavoro ed alla corretta interpretazione dello staff leasing, ossia la somministrazione a tempo indeterminato con missione parimenti a tempo indeterminato.

La sentenza conferma che le imprese possono ricorrere allo staff leasing nei limiti fissati dal D.Lgs. 81/2015, mentre ai lavoratori viene comunque garantita la stabilità occupazionale grazie al contratto a tempo indeterminato stipulato con l’agenzia di somministrazione.

Nel caso di specie, il lavoratore ricorrente, appartenente alle categorie protette ex L. 68/1999, aveva prestato attività lavorativa continuativa presso un’impresa utilizzatrice dal 2018 al 2024, tramite contratti di somministrazione stipulati con un’agenzia per il lavoro. Nel proprio ricorso, il lavoratore ha sostenuto l’illegittimità dei contratti di somministrazione, ritenendoli utilizzati in modo abusivo per coprire esigenze permanenti. Ha quindi chiesto che fosse dichiarata la nullità degli stessi e che venisse riconosciuto un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con l’impresa utilizzatrice, oppure, in via subordinata, la corresponsione dell’indennità prevista dall’art. 39 del D.Lgs. 81/2015.

La società, dal suo canto, ha chiesto il rigetto del ricorso, affermando che la cessazione della missione era dovuta al contratto di solidarietà in vigore nello stabilimento e che il rapporto del lavoratore con l’agenzia era comunque proseguito presso un’altra azienda. Ha inoltre evidenziato la piena legittimità dello staff leasing, ritenuto conforme alla normativa nazionale e coerente con gli obiettivi di tutela e garanzia occupazionale.

Il Giudice del lavoro, nella propria disamina, ha ricostruito l’evoluzione normativa della somministrazione di lavoro in Italia.

Con la L. 196/1997 è stato introdotto il lavoro interinale, primo modello di fornitura temporanea di manodopera. Successivamente, il D.Lgs. 276/2003 ha riformato la disciplina, legittimando la somministrazione a tempo indeterminato e aprendo la strada al cosiddetto staff leasing.

Infine, il D.Lgs. 81/2015 ha riordinato l’intera materia, confermando e regolamentando lo staff leasing all’art. 31, fissandone limiti e condizioni applicative.

La Direttiva europea 2008/104/CE regola il lavoro tramite agenzia interinale, sottolineandone la natura temporanea e imponendo misure contro l’abuso delle missioni a termine.

Tuttavia, secondo il Tribunale, essa non si applica allo staff leasing, in quanto il rapporto con l’agenzia è a tempo indeterminato e assicura già stabilità al lavoratore.

Il Tribunale ha motivato la propria decisione chiarendo che lo staff leasing, ossia la somministrazione a tempo indeterminato con missione parimenti a tempo indeterminato, non rientra nell’ambito di applicazione della Direttiva in parola, la quale disciplina esclusivamente le missioni a termine.

Di conseguenza, non può configurarsi alcun abuso del principio di temporaneità, poiché il lavoratore conserva un rapporto stabile con l’agenzia di somministrazione, che garantisce tutele occupazionali e possibilità di ricollocazione.

Inoltre, l’ordinamento italiano pone limiti quantitativi precisi (art. 31 del D.Lgs. 81/2015), scongiurando il rischio di strutture imprenditoriali prive di dipendenti diretti. Alla luce di tali considerazioni, il Giudice ha rigettato il ricorso.

La decisione, in definitiva, chiarisce che:

  • la somministrazione a tempo determinato resta soggetta ai limiti della Direttiva e al principio di temporaneità;
  • lo staff leasing è uno strumento distinto, che garantisce stabilità al lavoratore e flessibilità all’impresa;
  • i lavoratori assunti a tempo indeterminato dall’agenzia godono di tutele ulteriori, come la possibilità di ricollocazione in nuove missioni.

La pronuncia contribuisce a delimitare il campo di applicazione della normativa UE, confermando la legittimità di discipline nazionali che prevedono la somministrazione a tempo indeterminato.

Corte di Cassazione, ordinanza 24 settembre 2025, n. 26021.

Il datore deve provare di aver adottato tutte le misure per evitare l’infortunio.

Al lavoratore spetta invece dimostrare il danno e il nesso eziologico con le mansioni svolte.

Il lavoratore che agisce per il risarcimento del danno nei confronti del datore di lavoro ha l’onere di dare prova, da un lato, del nesso causale tra lo svolgimento delle proprie mansioni e l’infortunio occorso e, dall’altro, delle conseguenze che ne sono derivate, limitandosi, invece, ad allegare l’inadempimento datoriale.

Nel caso di specie un lavoratore agiva in giudizio per ottenere il riconoscimento di tutti i danni subiti in seguito a un infortunio sul lavoro: nello svolgimento delle sue mansioni di trafiliere, mentre tagliava un tondino di ferro con le forbici, veniva colpito all’occhio sinistro da un pezzo del metallo rimosso, riportando una gravissima lesione.

In primo luogo, la Cassazione chiarisce che la responsabilità ex art. 2087 c.c. è di carattere contrattuale, sicché il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno differenziale da infortunio sul lavoro si pone nei medesimi termini di cui all’art. 1218 c.c., con riferimento all’inadempimento delle obbligazioni. Il lavoratore deve pertanto allegare e provare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa, del danno, nonché il nesso causale di questo con la prestazione; il datore, d’altro canto, deve provare che il danno sia dipeso da causa a lui non imputabile, cioè di aver adempiuto al suo obbligo di sicurezza predisponendo tutte le misure atte a evitarlo.

Ciò detto, i giudici di legittimità evidenziano come il lavoratore avesse allegato e provato l’esatta dinamica del sinistro, nonché il nesso eziologico che lo connetteva al rapporto di lavoro: aveva, cioè, dimostrato che le lesioni subite erano state cagionate da un pezzo di ferro che si era conficcato nel suo occhio sinistro nel corso dello svolgimento della sua mansione. Da qui, avrebbe dovuto sorgere l’obbligo del datore di provare di aver adempiuto a tutte le prescrizioni di sicurezza necessarie in base alla lavorazione svolta.

In merito, la Corte precisa come l’oggetto dell’onere della prova a carico del datore attenga al rispetto di tutte le prescrizioni specificamente dettate dalla legge, nonché di quelle suggerite dall’esperienza, dall’evoluzione tecnica e dalla specificità del caso concreto, a maggior ragione quando l’esecuzione della prestazione sottopone il lavoratore a un particolare pericolo insito nella mansione, come può essere quella di tagliare un tondino di ferro con le forbici.

Inoltre, aggiungono i giudici di legittimità, quanto all’ampiezza della diligenza richiesta al datore, viene precisato come quest’ultimo rimanga responsabile altresì per la omessa predisposizione di tutte le misure e cautele idonee e preservare l’integrità psico-fisica del lavoratore, anche per la mancata vigilanza circa l’uso dei dispositivi di protezione individuale.

Ed è proprio quest’ultimo punto a essere centrale: il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al dipendente, sia quando ometta di adottare le misure protettive, sia quando, pur avendole adottate, non vigili affinché queste siano rispettate: la condotta colposa del dipendente non può avere alcun effetto esimente e neppure può rilevare ai fini del concorso di colpa. La Corte chiarisce infatti come il c.d. rischio elettivo, che comporta la responsabilità esclusiva del lavoratore, sussista solo laddove questi abbia posto in essere “un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante” rispetto al procedimento lavorativo e alle indicazioni ricevute, in forza di una scelta arbitraria volta a generare e ad affrontare una situazione diversa da quella inerente all’attività lavorativa, creando condizioni di rischio estranee alle normali modalità del lavoro da svolgere.

C.G.U.E. sentenza 38/24 del 11 settembre 2025.

Tutela dei diritti delle persone disabili – Estensione ai genitori di bambini disabili.

Con sentenza C-38/24 pubblicata l’11 settembre 2025 la Corte di Giustizia Europea ha affermato che il divieto di discriminazione indiretta fondata sulla disabilità, ai sensi della direttiva quadro sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000), si estende anche a un lavoratore che ne è vittima a causa dell’assistenza che fornisce a suo figlio, affetto da disabilità.

Secondo la Corte, per garantire l’uguaglianza tra i lavoratori, il datore di lavoro è tenuto ad adottare soluzioni ragionevoli idonee a consentire loro di fornire l’assistenza necessaria ai loro figli disabili, con il limite del carattere sproporzionato che tale onere potrebbe comportare per il datore di lavoro. Di conseguenza, il giudice nazionale dovrà verificare che, in tale causa, la domanda del lavoratore non costituisca un onere del genere.

Corte di Cassazione, sentenza 28 agosto 2025, n. 24100.

Legittimo il licenziamento del lavoratore ultras violento con la polizia.

La Cassazione fa chiarezza su passaggio in giudicato della condanna penale e tempestività della contestazione disciplinare.

In materia di licenziamento e condotte extralavorative, al fine di valutare la tempestività della sanzione disciplinare, deve farsi riferimento alla condanna in sede penale e al relativo passaggio in giudicato.

È questo il principio recentemente ribadito dalla Corte di Cassazione con la pronuncia n. 24100/2025, nell’ambito di una controversia che vedeva coinvolto un lavoratore, con la qualifica di operaio, licenziato per aver riportato una condanna ad una pena detentiva di otto mesi con sentenza passata in giudicato per delle azioni commesse al di fuori dal contesto lavorativo.

Il dipendente – punito per “oltraggio alle forze di polizia di stato e istigazione a commettere delitti di resistenza e delitti contro la persona” nonché per “aver offeso con più azioni […] l’onore e il prestigio di un pubblico ufficiale” – integrava detti reati nel contesto delle tifoserie calcistiche, anche mediante l’utilizzo di frasi gravemente ingiuriose.

Già la Corte d’Appello di Catania aveva affermato la legittimità del licenziamento, ponendo in evidenza la gravità dei fatti per i quali il dipendente veniva condannato in sede penale, in considerazione delle fattispecie incriminatrici violate, del concreto disvalore penale derivante dalla natura delle persone offese e dei beni giuridici tutelati nonché della reiterazione delle condotte nel corso di ben due anni. Il licenziamento veniva, pertanto, ritenuto giustificato per il motivo soggettivo, sebbene si trattasse di reati commessi al di fuori dell’attività lavorativa, stante la compromissione dell’elemento fiduciario che connota il rapporto di lavoro.

La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi su ricorso del lavoratore, conferma quanto statuito dal giudice di seconde cure: anche se tali azioni venivano commesse al di fuori dell’attività lavorativa, le stesse si sostanziavano in fatti gravi di negazione di valori etici e morali, tali da pregiudicare appunto la “statura morale” del lavoratore e da giustificarne il licenziamento disciplinare.

Nel caso in esame viene in rilievo anche un altro aspetto della questione, che attiene al tempo decorrente tra irrogazione della contestazione disciplinare e commissione del fatto: le condotte del dipendente erano note al datore sin dal 2010 e la sentenza della Corte d’Appello penale veniva emessa

nel dicembre del 2012; nessuna conoscenza ne aveva però il datore sino al mese di ottobre 2016, in cui veniva emessa la contestazione disciplinare. Ebbene, sul punto la Corte chiarisce come l’arco temporale tra i fatti e la loro contestazione debba decorrere dall’avvenuta conoscenza da parte del datore di lavoro della situazione contestata e non dall’astratta conoscibilità dei fatti stessi. Ad

un’attenta analisi, il “prudente indugio” del datore di lavoro che attende l’esito del processo penale prima di procedere alla contestazione disciplinare, si pone nell’interesse del lavoratore, che sarebbe altrimenti colpito da accuse avventate.

Ai fini della valutazione della tempestività della sanzione disciplinare deve, quindi, aversi riguardo alla

condanna in sede penale e al relativo passaggio in giudicato. Né assume rilievo la circostanza per cui il datore di lavoro si sia attivato per conoscere gli esiti del procedimento penale: quest’ultimo infatti ha il potere, ma non l’obbligo, di controllare in modo continuo i propri dipendenti, non essendo previsto dalla legge né desumibile dai principi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. Sicché, in conclusione, la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell’infrazione, bensì alla data in cui l’illecito “viene conosciuto in termini circostanziati”.

Corte di Cassazione sentenza n. 29 agosto 2025, n. 24204.

Il datore di lavoro non può visionare la e-mail degli ex dipendenti, considerati sleali, attraverso i server aziendali: i messaggi provengono comunque da account privati protetti da password ed i titolari non hanno concesso alcuna autorizzazione.

Lo afferma la Corte di Cassazione con la sentenza n. 24204/2025, richiamando il pronunciamento della Corte europea dei Diritti dell’uomo (ricorso 61496/08): le comunicazioni trasmesse dai locali dell’impresa rientrano nella nozione di vita privata e di corrispondenza e non sono consentiti controlli senza informativa su possibilità, forma e controllo degli accessi.

Sono illegittime la conservazione e la categorizzazione, da parte del datore di lavoro, dei dati personali dei dipendenti tratti da account privati. È quanto è tornata a sancire la Cassazione, confermando quanto deciso dalla Corte d’appello di Milano nell’ambito di una causa che vedeva contrapposta una società e alcuni ex dipendenti.

Nel dettaglio, le indagini e gli accessi da parte del datore di lavoro erano avvenuti a seguito delle dimissioni di un gruppo di dipendenti per intentare un’azione risarcitoria dei danni causati dai comportamenti sleali di detti dipendenti, accertati mediante consulenza tecnica informatica con riferimento a comunicazioni mail effettuate mediante account privati dei lavoratori.

In primo grado, il tribunale di Milano aveva accolto parzialmente il ricorso della società, relativamente all’utilizzabilità, nel procedimento, delle comunicazioni mail dei lavoratori, affermando che, sebbene fossero state estratte da account privati, erano state fatte confluire sul server aziendale, per cui la corrispondenza doveva considerarsi aperta e non chiusa. Di opposto avviso, i giudici d’appello, che avevano quindi respinto il ricorso del datore di lavoro, il quale, invece, sosteneva che la corrispondenza prodotta era stata “tutta rinvenuta sui sistemi informatici aziendali di sua proprietà“, quali personal computer e server e, quindi, “consultabile senza alcuna chiave di accesso” in quanto la società era titolare dei sistemi informatici e aziendali.

La Suprema Corte ha ritenuto corretta la decisione di secondo grado e ha rigettato il ricorso della società: “la posta acquisita dal datore di lavoro proveniva da account personali, sebbene inseriti sul server aziendale, per accedere ai quali occorreva una password“. La Corte d’ Appello – aggiunge la Cassazione – ha “correttamente applicato i principi” sanciti dalla sentenza della Corte di Strasburgo del 2017, nella quale “è stato affermato che le comunicazioni trasmesse dai locali dell’impresa nonché dal domicilio di una persona possono essere comprese nella nozione di ‘vita privata’ e di ‘corrispondenza’

contenuta all’articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.

I criteri della CEDU e la tutela della privacy – La Cassazione rileva che nel giudizio di appello si è tenuto in considerazione anche dei criteri fissati dalla CEDU “in tema di rispetto dei principi della finalità

legittima (il controllo nelle sue varie forme deve essere giustificato da gravi motivi), della proporzionalità (il datore di lavoro deve scegliere, nei limiti del possibile, tra le varie forme e modalità di adeguato controllo, quelle meno intrusive) e della preventiva dettagliata informazione ai dipendenti sulle possibilità, forme e modalità del controllo in modo tale che, in ossequio alla necessità di contemperare le esigenze datoriali di controllo con quelle di tutela della privacy del dipendente, non è

stata ritenuta consentita un’attività di controllo massivo, mentre sono state considerate indispensabili le opportune informative in merito alla possibile attività di controllo, con esclusione, in tale ottica, di controlli preventivi proprio perché si esulerebbe dal piano difensivo‘”.

Nel caso in esame, osserva la Corte, i dipendenti avevano “precisato che non avevano impostato alcuna opzione per ricevere le mail personali sul medesimo applicativo di posta elettronica utilizzato sul pc aziendale e di non avere concesso alcuna autorizzazione“, mentre “la società non aveva dimostrato di avere impartito specifiche disposizioni finalizzate a regolamentare le modalità di controllo e/o di duplicazione della corrispondenza dei lavoratori“.

Ancora, la pronuncia osserva che, “anche in relazione ad una eventuale asserita equiparazione degli account dei lavoratori a quelli aziendali, è stato più volte precisato che in tema di tutela della riservatezza nello svolgimento del rapporto di lavoro, sono illegittime la conservazione e la categorizzazione dei dati personali dei dipendenti, relativi alla navigazione in Internet, all’utilizzo della posta elettronica ed alle utenze telefoniche da essi chiamate, acquisiti dal datore di lavoro attraverso impianti e sistemi di controllo la cui installazione sia avvenuta senza il positivo esperimento delle procedure di cui all’art. 4 della legge n. 300 del 1970. “

Le tutele dello Statuto dei Lavoratori trovano, pertanto, applicazione anche ai controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori quando comportino la possibilità di verifica a distanza dell’attività di questi ultimi ed in assenza dell’acquisizione del consenso individuale e del rilascio delle informative previste dal d.lgs. n. 196/2003 e del Regolamento UE n. 2016/679 (GDPR).

Tribunale di Bologna decreto del 22 settembre 2025.

Comunicazioni del datore di lavoro ai dipendenti e attività antisindacale.

Con decreto del 22 settembre 2025 il Tribunale di Bologna ha affermato che durante le trattative sindacali il datore di lavoro può comunicare al proprio personale la propria posizione relativa alle materie portate al tavolo negoziale, senza che ciò, pur se effettuato ripetutamente, possa essere considerato un ostacolo all’esercizio dell’attività sindacale.

Secondo il Tribunale non vi è violazione dell’articolo 28 della legge n. 300/1970, che è una disposizione finalizzata ad impedire la compromissione della libertà e dell’esercizio della suddetta attività: secondo il giudice i ripetuti comunicati non hanno scavalcato le organizzazioni sindacali, né hanno leso la loro immagine.

Tribunale di Ferrara, sentenza del 2 settembre 2025 n. 155.

La committente può far fronte allo sciopero impiegando suoi dipendenti.

L’azione per reprimere la condotta antisindacale non può essere diretta nei confronti di soggetti diversi dal datore.

Il procedimento di repressione della condotta antisindacale non può essere esteso nei confronti di soggetti terzi estranei al rapporto di lavoro ed, in particolare, rispetto al committente nell’ambito di un contratto di appalto.

A seguito della cessazione di un rapporto di appalto, i lavoratori, dipendenti dell’impresa appaltatrice, avevano proclamato uno sciopero di tre giornate, dal 28 al 30 aprile 2025; senonché, nel corso di tale arco temporale, l’azienda committente aveva sostituito i lavoratori scioperanti con dipendenti propri. Inoltre, la stessa committente aveva assunto, in quegli stessi giorni, 14 dipendenti dell’appaltatrice, divenendo datrice di lavoro degli scioperanti.

Detto comportamento, secondo l’organizzazione sindacale promotrice dell’astensione collettiva, integrava una condotta antisindacale, in quanto dannosa per l’efficacia della protesta.

Con ricorso presentato dinanzi al Tribunale di Ferrara, il sindacato agiva nei confronti della committente specificando, in punto di legittimazione passiva, come la nozione di “datore di lavoro” di cui all’art. 28 della L. 300/70 avrebbe dovuto essere interpretata in senso “logico” e “teleologico”, in considerazione delle mutazioni dei rapporti di lavoro e della frammentazione delle attività d’impresa: l’utilizzatrice sarebbe quindi un soggetto passivamente legittimato, in quanto parte attiva nel conflitto e destinataria delle richieste sindacali. L’organizzazione sindacale sosteneva, poi, come dovesse ravvisarsi un’ipotesi di crumiraggio esterno (che si sostanzia nell’assunzione di personale esterno da parte del datore di lavoro che subisce lo sciopero dei propri dipendenti) per aver, l’impresa committente, sostituito i lavoratori scioperanti con propri dipendenti.

D’altro canto, l’impresa eccepiva il difetto di legittimazione passiva rispetto all’azione di cui all’art. 28 della L. 300/70, specificando altresì come, una volta aver preso atto della proclamazione dello sciopero, la stessa si era organizzata impiegando 15 propri dipendenti; ciononostante, lo sciopero aveva comunque generato un calo produttivo. Inoltre, la datrice evidenziava che i 14 lavoratori assunti – ex dipendenti dell’appaltatrice – non erano stati utilizzati per minimizzare i pregiudizi dello sciopero, avendo il rapporto decorrenza dal 1° maggio 2025.

Investito della controversia, il Tribunale estense chiarisce in prima battuta come la committente abbia utilizzato il proprio personale – già in forze – per fronteggiare l’impatto dello sciopero, non assumendo quindi personale esterno neanche tra gli ex dipendenti dell’appaltatrice. Viene rilevato come, nella fattispecie, non possa ravvisarsi un’ipotesi di crumiraggio esterno: in primo luogo, la sostituzione degli scioperanti non avveniva ad opera della datrice ed, in secondo luogo, la committente usava personale interno, senza effettuare nuove assunzioni.

A ben vedere, la sostituzione operata nel caso di specie era solo parziale, temporanea e non neutralizzava l’azione sindacale, posto che l’azienda subiva contraccolpi nella sua attività produttiva, né può acquisire rilievo l’assunzione di una parte del personale scioperante, dal momento che il rapporto di lavoro avrebbe avuto inizio dal 1° maggio, cioè dal giorno successivo all’ultimo giorno dello sciopero.

Infine, per quanto attiene ai profili inerenti alla legittimazione passiva della committente, il giudice di Ferrara chiarisce come l’art. 28 della L. 300/70 possa essere utilizzato per reprimere le condotte ritenute antisindacali poste in essere esclusivamente dal datore di lavoro e non anche da parte di soggetti estranei al rapporto (a meno che la condotta sia materialmente posta in essere da terzi, ma comunque riconducibile al datore; nel qual caso, l’azione sarà “certamente proponibile” nei confronti di quest’ultimo). In tal senso è il dato letterale della norma, la quale fa espresso riferimento, quale soggetto passivo del procedimento, al datore: “[q]ualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti […]”.

Detta argomentazione può valere anche in presenza di fenomeni di “sdoppiamento” tra la figura del datore di lavoro e quella dell’utilizzatore della prestazione posto che, da un lato, la norma introduce un procedimento speciale, non potendo essere pertanto interpretata analogicamente e che, dall’altro, il datore di lavoro è il soggetto sul quale gravano gli obblighi in materia di diritti sindacali; solo quest’ultimo può ledere le prerogative sindacali in materia di tutela dei lavoratori. Infine, dovendo il giudice emettere un provvedimento di condanna alla cessazione della condotta e di rimozione degli effetti, il destinatario può essere soltanto il datore di lavoro: l’ordine del giudice, rafforzato da sanzioni penali in caso di non ottemperanza, non potrebbe essere indirizzato nei confronti di un soggetto terzo.

NEWSLETTER 9/2025

Novita’ normative

Legge n. 118 del 8 agosto 2025: contributi per lavoratrici madri e per il benessere dei lavoratori del settore turistico.

Il Parlamento ha pubblicato in G.U. n. 184 del 9 agosto 2025, la L. 8 agosto 2025, n. 118, di conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 30 giugno 2025, n. 95, recante disposizioni urgenti per il finanziamento di attività economiche e imprese, nonché interventi di carattere sociale e in materia di infrastrutture, trasporti ed enti territoriali.

Di particolare interesse quanto previsto dall’articolo 6 (“Integrazione al reddito per le lavoratrici madri con due o più figli“). Slitta al 2026 il parziale esonero contributivo della quota dei contributi previdenziali per l’IVS a carico del lavoratore, per le lavoratrici dipendenti, ad esclusione dei rapporti di lavoro domestico, e le lavoratrici autonome, previsto dall’articolo 1, comma 219, della legge 30 dicembre 2024, n. 207. Nelle more dell’attuazione della norma, per l’anno 2025, alle lavoratrici madri dipendenti, con esclusione dei rapporti di lavoro domestico ed alle lavoratrici madri autonome iscritte a gestioni previdenziali obbligatorie autonome, comprese le casse di previdenza professionali e la gestione separata, con 2 figli e fino al mese del compimento del decimo anno da parte del secondo figlio, è riconosciuta dall’INPS, a domanda, una somma, non imponibile ai fini fiscali e contributivi, pari a 40 euro mensili, per ogni mese o frazione di mese di vigenza del rapporto di lavoro o dell’attività di lavoro autonomo, da corrispondere alla madre lavoratrice titolare di reddito da lavoro non superiore a 40.000 euro su base annua. La medesima somma è riconosciuta anche alle madri lavoratrici dipendenti, con esclusione dei rapporti di lavoro domestico ed alle lavoratrici madri autonome iscritte a gestioni previdenziali obbligatorie autonome, comprese le casse di previdenza professionali e la gestione separata, con più di 2 figli e fino al mese di compimento del diciottesimo anno del figlio più piccolo, per ogni mese o frazione di mese di vigenza del rapporto di lavoro o dell’attività di lavoro autonomo, titolari di reddito da lavoro non superiore a 40.000 euro su base annua, a condizione che il reddito da lavoro non consegua da attività di lavoro dipendente a tempo indeterminato e, in ogni caso, per ogni mese o frazione di mese di vigenza del rapporto di lavoro o dell’attività di lavoro autonomo non coincidenti con quelli di vigenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Le mensilità spettanti, a decorrere dal 1 gennaio 2025 e fino alla mensilità di novembre, sono corrisposte a dicembre, in unica soluzione, in sede di liquidazione della mensilità relativa al medesimo mese di dicembre 2025.

Le somme non rilevano ai fini della determinazione dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE). Una ulteriore disposizione riguarda il benessere dei lavoratori del comparto turistico ricettivo, ivi inclusi quelli impiegati presso gli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande (articolo 14).

Proprio al fine di migliorare il benessere dei lavoratori è autorizzata, nel rispetto della normativa dell’Unione europea in materia di aiuti di Stato, la spesa di euro 44.000.000 per l’anno 2025 e di euro 38.000.000 annui per ciascuno degli anni 2026 e 2027, per l’erogazione di contributi volti a sostenere

investimenti per la creazione ovvero la riqualificazione e l’ammodernamento, sotto il profilo dell’efficientamento energetico e della sostenibilità ambientale, degli alloggi destinati a condizioni agevolate ai medesimi lavoratori, nonché euro 22.000.000 annui per ciascuno degli anni 2025, 2026 e 2027 per l’erogazione di contributi volti a sostenere i costi per la locazione degli stessi alloggi.

Le risorse sono destinate ai soggetti che, nella piena ed esclusiva disponibilità di immobili, gestiscono in forma imprenditoriale alloggi o residenze per i lavoratori del comparto turistico ricettivo, gestiscono strutture turistico ricettive ovvero gestiscono esercizi di somministrazione di alimenti e bevande.

Sempre all’interno dell’articolo 14, è stato inserito il comma 6 bis che prevede la proroga, sino al 31 dicembre 2026, della causale basata su “esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti“, che potrà essere prevista all’interno dei contratti a tempo determinato.

Contratti a termine: causale per esigenze individuate dalle parti fino al 31 dicembre 2026.

In fase di conversione del decreto legge n. 95/2025 (c.d. Decreto Economia) nella Legge n. 118/2025, pubblicata in G.U. n. 184 del 9 agosto 2025, è stato inserito, all’articolo 14, il comma  6 bis che prevede all’interno dell’articolo 19, comma 1, lettera b), del decreto legislativo, n. 81/2015 (TU sui contratti di lavoro), la modifica del termine al “31 dicembre 2026”.

Questo il nuovo articolo 19, comma 1:

Al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque non eccedente i ventiquattro mesi, solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni:

a) nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all’articolo 51;

b) in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2026, per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti;

b bis) in sostituzione di altri lavoratori.”

Anche per il 2026 sarà possibile, al superamento dei primi 12 mesi in contratti a termine, utilizzare una causale individuata dalle parti in base ad “esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva“, ma solo qualora non sia presente alcuna casistica prevista dalla contrattazione collettiva nazionale, territoriale o aziendale.

CCNL per le agenzie di somministrazione di lavoro: in vigore i testi definitivi.

Ratificati i testi dei due CCNL agenzie di somministrazione lavoro Assolavoro e Assosom e associazioni datoriali Assolavoro e Assosom e sindacali NIDIL CGIL FELSA CISL e UILTEMP che hanno firmato il 22 luglio 2025, a Roma il testo definitivo del CCNL somministrazione, per i dipendenti delle agenzie per il lavoro che occupa, in Italia, circa un milione di persone l’anno.

L’accordo precisa che alla luce del principio di ultra vigenza condiviso nei precedenti rinnovi e fermo restando quanto previsto dall’accordo sulle decorrenze sottoscritto in data 13 febbraio 2025, le parti concordano che il CCNL decorre dal 21 luglio 2025 e sarà in vigore fino al 20 luglio 2028, salvo quanto di seguito specificato: la disciplina di cui all’art. 10, par. Ebitemp lettera h) nonché dell’accordo delle parti sociali del 3 febbraio 2025 “welfare sanitario”, di cui all’allegato n. 15, decorrono dal. 1 giugno 2025.

Il comunicato stampa sindacale evidenzia in particolare il miglioramento delle condizioni economiche con aumenti superiori al 15% per l’indennità di disponibilità e aumenti del 20% sulle prestazioni erogate dalla bilateralità, l’introduzione di una specifica assicurazione sanitaria di settore.

Dal punto di vista normativo, la principale novità è costituito dall preavviso di 3 giorni in caso di proroga per i contratti a tempo determinato di durata superiore a 6 mesi con indennizzo in caso di violazione razionalizzato e potenziato lo strumento della clausola sociale per i cambi appalto.

Vengono anche migliorate le tutele individuali, con una particolare attenzione alla maternità, sia sui rapporti di lavoro a termine sia a tempo indeterminato, alle malattie ingravescenti, alle persone migranti, al contrasto alle molestie e alle donne vittime di violenza con l’introduzione di uno specifico sostegno economico.

In tema di formazione si introduce le possibilità di FAD con indennità di frequenza e formazione continua di alta specializzazione, oltre ad un rafforzamento del diritto mirato.

Introdotta, inoltre, la contrattazione di secondo livello con le agenzie per il lavoro; sul fronte delle relazioni sindacali, decentramento dei percorsi di gestione anche sui singoli siti per monitorare le condizioni di lavoro e il rispetto della parità di trattamento.

Introdotta anche la nuova procedura di ricollocazione plurima per i casi di fuoriuscite plurime dalle aziende utilizzatrici per assicurare maggiori tutele anche ai lavoratori e alle lavoratrici in somministrazione.

INPS: genitore intenzionale in una coppia di donne, diritto al congedo obbligatorio di paternità.

messaggio n. 2450 del 7 agosto 2025, recepisce la sentenza n. 115, depositata in data 21 luglio 2025, della Corte Costituzionale che ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 27 bis del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), come inserito dall’art. 2, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 30 giugno 2022, n. 105, recante «Attuazione della direttiva (UE) 2019/1158 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza e che abroga la direttiva 2010/18/UE del Consiglio», nella parte in cui non riconosce il congedo di paternità obbligatorio a una lavoratrice, genitore intenzionale, in una coppia di donne risultanti genitori nei registri dello stato civile”.

Ne consegue che, come precisato nell’ultimo comma dell’articolo 27 bis del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, anche per la madre intenzionale la comunicazione di fruizione del congedo in oggetto deve essere fatta al proprio datore di lavoro, il quale provvede all’anticipazione dell’indennità per conto dell’Istituto.

La domanda telematica di congedo deve essere presentata direttamente all’INPS solo da parte delle lavoratrici dipendenti per le quali non sia prevista l’anticipazione dell’indennità da parte del datore di lavoro (cfr. il paragrafo 2.5 della Circolare INPS n. 122/2022).

Le lavoratrici dipendenti di pubbliche Amministrazioni devono rivolgersi al proprio datore di lavoro, non avendo l’Istituto competenza per tali lavoratrici.

La fruizione del congedo e l’anticipazione della relativa indennità spetta solo al lavoratore padre che risulti tale nei registri di stato civile o sulla base di provvedimento di adozione o di affidamento collocamento. Così pure, in caso di lavoratrice madre intenzionale, la stessa, come stabilito dalla sentenza in oggetto, deve risultare genitore nei registri di stato civile oppure a seguito di provvedimento giudiziale di adozione o di affidamento collocamento.

Nuovi permessi per i malati oncologici. Viene poi prevista la possibilità di fruire di un congedo non retribuito per un periodo non superiore a 24 mesi.

È stata pubblicata la L. 18 luglio 2025 n. 106 che contiene le disposizioni concernenti la conservazione del posto di lavoro e i permessi retribuiti per esami e cure mediche in favore dei lavoratori affetti da malattie oncologiche, invalidanti e croniche.

La legge, che entra entrata in vigore il 9 agosto 2025, all’art. 1 riconosce la possibilità di fruire di un congedo, continuativo o frazionato, non superiore a 24 mesi in favore dei dipendenti sia pubblici sia privati affetti da malattie oncologiche o da malattie invalidanti o croniche, anche rare, che comportino un grado di invalidità pari o superiore al 74%.

Durante il periodo di congedo, che non è computato nell’anzianità di servizio né ai fini previdenziali (salvo riscatto da parte del lavoratore), il dipendente conserva il posto di lavoro, ma non percepisce la retribuzione, né può svolgere alcun tipo di attività lavorativa. La norma precisa che il congedo è compatibile con ulteriori eventuali benefìci, anche economici e che la sua fruizione decorre dall’esaurimento degli altri periodi di assenza giustificata, con o senza retribuzione, spettanti al dipendente a qualunque titolo.

Sono comunque fatte salve le disposizioni più favorevoli previste dalla contrattazione collettiva o dalla disciplina applicabile al rapporto di lavoro.

Decorso il periodo di congedo, il lavoratore dipendente ha diritto ad accedere prioritariamente alla modalità di lavoro agile, se la prestazione lavorativa lo consenta.

In relazione alle medesime malattie, la norma prevede poi la sospensione dell’esecuzione della prestazione dell’attività svolta in via continuativa per il committente per un periodo non superiore a 300 giorni per anno solare da parte di un lavoratore autonomo di cui all’art. 14 comma 1 della L. 81/2017 (norma che per la gravidanza, la malattia e l’infortunio dei lavoratori autonomi che prestano la loro attività in via continuativa per il committente prevede la sospensione dell’esecuzione del rapporto su richiesta del lavoratore, senza diritto al corrispettivo, per un periodo non superiore a 150 giorni per anno solare, fatto salvo il venir meno dell’interesse del committente).

Quanto ai permessi aggiuntivi, questi sono riconosciuti a decorrere dal 1 gennaio 2026.

Da tale data, l’art. 2 della legge in esame dispone il diritto dei dipendenti affetti, o con figlio minore

affetto, da malattie oncologiche in fase attiva o in follow up precoce o da malattie invalidanti o croniche, anche rare, che comportino un grado di invalidità pari o superiore al 74%, di fruire di ulteriori 10 ore annue di permesso.

Per tali permessi, che si aggiungono alle tutele previste dalla normativa vigente e dai CCNL, è riconosciuta un’indennità economica e la copertura figurativa, ma devono essere utilizzati per le specifiche esigenze individuate dalla norma,ovvero: visite; esami strumentali; analisi chimico-cliniche e microbiologiche; cure mediche frequenti. È poi richiesta la prescrizione del medico di medicina generale o di un medico specialista operante in una struttura sanitaria pubblica o privata accreditata.

L’indennità spettante è determinata nelle misure e secondo le regole previste dalla normativa vigente in materia di malattia; nel settore privato è corrisposta direttamente dai datori di lavoro, che possono successivamente recuperarla tramite conguaglio con i contributi dovuti all’ente previdenziale.

Per le ore di permesso aggiuntive si applica la disciplina prevista per i casi di gravi patologie richiedenti terapie salvavita.

Le disposizioni contenute nella L. 106/2025 sono applicabili nelle regioni a statuto speciale e nelle province autonome di Trento e di Bolzano compatibilmente con i rispettivi statuti e le relative norme di attuazione, anche con riferimento alla legge costituzionale n. 3/2001.

Sempre a tutela dei malati oncologici si ricorda infine il decreto del ministero della salute del 5 luglio 2024 che contiene la disciplina delle modalità e delle forme ai fini del rilascio del certificato di oblio oncologico, previsto dalla L. 193/2023 (si veda “Certificato di oblio oncologico da rilasciare entro 30 giorni dalla richiesta” del 3 agosto 2024).

Auto in uso promiscuo ai dipendenti chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate.

L’Agenzia delle Entrate, con la risposta ad interpello n. 192/e del 22 luglio 2025, fornisce alcuni chiarimenti in merito alla disciplina del calcolo del fringe benefit per i veicoli aziendali concessi in uso promiscuo ai dipendenti, prevedendo nuove percentuali da applicare ai contratti stipulati dal 1 gennaio 2025.

La questione sottoposta all’agenzia delle entrate erano:

  • se ai fini della determinazione del fringe benefit delle auto aziendali debba applicarsi la normativa vigente alla data di stipula del contratto di assegnazione tra il datore di lavoro e il dipendente, anche nel caso in cui la consegna effettiva del veicolo avvenga successivamente al 1 gennaio 2025;
  • se la stipula del contratto di assegnazione entro il 31 dicembre 2024 consenta di applicare la normativa precedente in materia di fringe benefit, indipendentemente dalla data di consegna del veicolo;
  • se la data di consegna del veicolo sia rilevante esclusivamente per determinare il momento di decorrenza dell’applicazione del fringe benefit al dipendente, senza influenzare la normativa di riferimento applicabile.

La risposta dell’agenzia delle entrate è stata in sintesi che nel caso prospettato, ai veicoli aziendali ordinati e concessi in uso promiscuo con contratti stipulati entro il 31 dicembre 2024, ma assegnati in data successiva al 30 giugno 2025, si applica il criterio di tassazione del fringe benefit basato sul ”valore normale”, al netto dell’utilizzo aziendale.

L’individuazione del Preposto si misura in concreto e non formalmente.

La nomina può essere valida anche per lavoratori con ridotta anzianità di servizio o assunti come apprendisti.

Anche un lavoratore con limitata anzianità di servizio ovvero assunto con contratto di apprendistato può ricoprire il ruolo di preposto.

Ciò che conta sono le effettive capacità di adempiere agli obblighi previsti dall’art. 19 del D.Lgs. 81/2008 per tale figura.

Lo ha chiarito la recente nota congiunta dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro e della conferenza delle regioni e province autonome che, in ragione di alcune scelte organizzative di imprese operanti in ambito ferroviario di individuare la figura del preposto tra lavoratori con limitata anzianità di servizio (12 mesi) o tra lavoratori in apprendistato, ha esaminato in modo approfondito il ruolo del preposto, una figura chiave nella filiera della salute e sicurezza all’interno dei luoghi di lavoro.

Già con l’interpello n. 5/2023 il Ministero del Lavoro aveva spiegato come il preposto rivesta un fondamentale ruolo di garanzia rispetto ai lavoratori, al punto che vi è sempre l’obbligo di una sua individuazione, sanzionato dall’art. 55 comma 5 lett. D) del D.Lgs. 81/2008 (norma che prevede l’arresto da due a quattro mesi o l’ammenda da 1.500 a 6.000 euro per la violazione dell’art. 18 comma 1 lett. B-bis), riferito proprio alla nomina del preposto).

Occorre ricordare che, secondo la definizione contenuta all’art. 2 comma 1 lett. E), il preposto deve sovrintendere alla attività lavorativa e garantire l’attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa.

Affinché tali compiti non restino meramente potenziali ma risultino effettivi e concretamente esercitabili, il preposto deve necessariamente avere adeguate competenze professionali. Ciò innanzitutto attraverso una specifica formazione, come previsto dall’art. 37 comma 7 del D.Lgs. 81/2008. Inoltre, il preposto deve disporre anche di poteri di iniziativa. Lo stesso art. 19 conferisce allo stesso un ruolo attivo nella misura in cui, in caso di rilevazione di comportamenti non conformi alle disposizioni e istruzioni impartite dal datore di lavoro e dai dirigenti ai fini della protezione collettiva e individuale, deve intervenire per modificare il comportamento non conforme, fornendo le necessarie indicazioni di sicurezza e, in caso di mancata attuazione delle disposizioni impartite o di persistenza dell’inosservanza, interrompere l’attività del lavoratore e informare i superiori diretti.

Tanto premesso, ci si è chiesti se lavoratori che, almeno sulla carta, sembrano avere una più limitata esperienza lavorativa, possano ugualmente svolgere i compiti che la legge affida al preposto o se, in difetto, tale nomina sia del tutto inefficace tanto da risultare tamquam non esset. La scelta operata è quella di puntare alla sostanza più che alla forma, partendo dal presupposto che non vi sono esplicite disposizioni che in modo tassativo impediscano a un lavoratore con una minima anzianità o con una particolare tipologia contrattuale come quella dell’apprendistato di essere individuato quale preposto.

Muovendo da quanto previsto dagli artt. 18 e 28 dello stesso D.Lgs. 81/2008 ma anche da quanto affermato di recente dalla stessa Cassazione (Cass. Pen. 15 febbraio 2024 n. 6790), la nota in esame spiega, quindi, come non possa esistere una regola generale che permetta di affermare che lavoratori che hanno solo 12 mesi di anzianità di servizio non abbiano le capacità di svolgere il ruolo di preposto e neppure che l’inidoneità nel ricoprire tale ruolo possa basarsi esclusivamente sulla qualifica di apprendista. Del resto, secondo quanto affermato dalla suprema Corte, una scelta aprioristica di far discendere l’inidoneità allo svolgimento dei compiti di preposto alla sicurezza dalla sola qualifica giuslavoristica rivestita dall’apprendista ma anche dalla ridotta anzianità di servizio sarebbe illegittima e irragionevole. Come detto, ciò che conta è la concreta capacità di esercitare in modo efficace i poteri impeditivi di eventi lesivi in danno dei lavoratori, in connessione con la responsabilità del datore di lavoro. Tutto questo ha una immediata ricaduta sui controlli ispettivi, volti a verificare la corretta individuazione del preposto che, quindi, non potrà fermarsi al mero dato formale ma richiederà un più attento approfondimento della figura scelta. Secondo l’ispettorato e la conferenza delle regioni e delle province autonome soprattutto nelle ipotesi di lavoratori con ridotta anzianità o assunti con contratto di apprendistato, eventualmente già qualificati per la mansione, ma che non abbiano terminato il percorso professionalizzante triennale, il personale ispettivo dovrà tenere conto del contesto nel quale il soggetto è chiamato a operare e verificare che la formazione abbia permesso al preposto di apprendere, in concreto, le conoscenze, le competenze e le abilità necessarie a svolgere il ruolo in relazione alla specifica attività lavorativa.

Novita’ giurisprudenziali

Corte costituzionale sentenza n. 118 del 21 luglio 2025: incostituzionale il limite di 6 mensilità per i licenziamenti nelle piccole imprese sotto i 15 dipendenti.

La consulta boccia il tetto massimo delle sei mensilità per l’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo.

È incostituzionale il tetto massimo delle sei mensilità previsto per l’indennizzo spettante al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo nelle imprese di piccole dimensioni.

Così si è espressa la Corte Costituzionale con la pronuncia n. 118, 21 luglio 2025, dichiarando l’illegittimità dell’art. 9 comma 1 del D.Lgs. 23/2015, limitatamente alle parole “e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”.

La questione era stata posta dal Tribunale di Livorno che, con l’ordinanza del 2 dicembre 2024 aveva rilevato come la tutela garantita dall’art. 9 comma 1 del D.Lgs. 23/2015 ai dipendenti di imprese di piccole dimensioni in caso di illegittimità del licenziamento fosse inadeguata, prevedendo un risarcimento dimezzato e comunque confinato entro un limite di sei mensilità. Tale disposizione, individuando una forbice estremamente ridotta, dalle tre alle sei mensilità, non consentirebbe al giudice di operare una “personalizzazione” del risarcimento in relazione alle circostanze del caso concreto e ciò in applicazione di un criterio quello delle dimensioni occupazionali del datore di lavoro riferito a un fattore esterno al rapporto di lavoro, criterio, peraltro, “non più idoneo, di per sé, a rilevare la reale forza economica del datore medesimo”.

La Consulta ricorda in prima battuta che tale disciplina è già stata oggetto di decisione: con la pronuncia n. 183/2022, la Corte, dichiarando la questione di costituzionalità inammissibile, aveva domandato al legislatore di intervenire, sottolineando come “un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe stato tollerabile”, specificando altresì che l’eventuale riproposizione della questione l’avrebbe indotta a “provvedere direttamente”.

Anche in considerazione del tempo decorso, la Consulta asserisce la fondatezza della questione, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 9 comma 1 del D.Lgs. 23/2015, come detto limitatamente alle parole “e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”. Nel dettaglio, il giudice delle leggi precisa che la violazione dei principi costituzionali non deve ravvisarsi nel dimezzamento degli importi delle indennità previste dagli art. 3 comma 1, 4 comma 1 e 6 comma 1 del D.Lgs. 23/2015, bensì nell’imposizione del tetto massimo delle sei mensilità: in forza di detto limite, insuperabile anche in presenza di licenziamenti viziati dalle più gravi forme di illegittimità, si realizza una tutela indennitaria incompatibile con la “necessaria personalizzazione del danno subito dal lavoratore” (cfr. Corte Cost. n. 194/2018). Contenere in tal modo le conseguenze indennitarie a carico del datore di lavoro, prosegue la Corte, rende la tutela risarcitoria in questione sostanzialmente analoga a una forma di liquidazione legale forfetizzata e standardizzata, inidonea a venir incontro alle specificità del caso concreto: così limitato, l’indennizzo non può essere tale da garantire un effettivo ristoro del pregiudizio sofferto dal lavoratore, ristoro che, pur potendo essere circoscritto, non può essere del tutto sacrificato, neppure in nome dell’esigenza di prevedibilità e di contenimento dei costi.

La Consulta conclude, quindi, dichiarando la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 9 comma 1 del D.Lgs. 23/2015 ed esprimendo al contempo l’auspicio che il legislatore intervenga sulla disciplina, nel rispetto del principio in forza del quale il criterio del numero dei dipendenti dell’impresa non può più

costituire l’esclusivo indice rivelatore della forza economica del datore di lavoro e, quindi, della sostenibilità dei costi connessi ai licenziamenti illegittimi, dovendosi considerare anche altri fattori ugualmente significativi, secondo quanto previsto dalla legislazione nazionale ed euro unitaria.

Corte Costituzionale sentenza del 21 luglio 2025 n. 115.

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Il contenuto generato dall'IA potrebbe non essere corretto.Ha diritto al congedo di paternità la lavoratrice madre intenzionale in una coppia di donne che risultano genitori nei registri dello stato civile.

È quanto stabilisce la Corte Costituzionale con la sentenza n. 115/2025 che ritiene costituzionalmente illegittimo l’articolo 27 bis del D.Lgs. n. 151 del 2001 nella parte in cui non riconosce il congedo di paternità obbligatorio a una lavoratrice, genitore intenzionale in una coppia di donne risultanti genitori nei registri dello stato civile.

Corte di Cassazione sentenza 16 luglio 2025 n. 19630.

Ai fini NASpI anche le pause imposte dal datore si considerano come giornate di lavoro effettivo.

In tema di accesso alla NASpI, ai sensi dell’art. 3 comma 1 lett. c) del D.Lgs. 22/2015, nella formulazione antecedente alle modifiche disposte dall’art. 1 comma 171 della L. 207/2024, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19630, ha ribadito che il requisito delle “trenta giornate di lavoro effettivo” risulta integrato oltre che da giornate di ferie o di riposo retribuito, anche da ogni giornata che dia luogo al diritto del lavoratore alla retribuzione e alla relativa contribuzione.

I giudici di legittimità hanno inoltre statuito come al fine del computo dei “dodici mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione” si escludano, vengano, cioè, neutralizzati, i periodi di sospensione del rapporto di lavoro per cause tutelate dalla legge, impeditive delle reciproche prestazioni (cfr. Cass. nn. 15660/2025, 13529/2025 e 13562/2025; si veda “Diritto alla Naspi anche se la prestazione lavorativa non è eseguita” del 22 maggio 2025).

Detti principi sono stati ribaditi nell’ambito di una controversia che vedeva coinvolto un lavoratore licenziato per riduzione del personale per giustificato motivo oggettivo il 16 maggio 2016; in precedenza, il datore di lavoro, dal 2 giugno 2015 e sino al licenziamento, non aveva consentito al lavoratore di rendere la prestazione, imputando a “ferie” i giorni non lavorati.

I giudici di legittimità, accogliendo il ricorso presentato dal lavoratore, evidenziano come le ferie e i riposi rappresentino dei momenti connaturali al rapporto di lavoro, durante la cui fruizione vi è piena vitalità e, quindi, effettività del lavoro stesso. La Corte quindi chiarisce come il lavoro effettivo sia sempre comprensivo di quelle pause periodiche della prestazione lavorativa che, poiché finalizzate al recupero delle energie psico fisiche del lavoratore, sono equiparabili alla concreta esecuzione delle mansioni.

Ciò vale anche nel caso di specie, in cui si verificava la sospensione del rapporto nel periodo dei “dodici mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione”, a causa del rifiuto datoriale di ricevere la prestazione; il rapporto di lavoro, dunque, doveva considerarsi effettivo ai sensi dell’art. 3 comma 1 lett. c) del D.Lgs. 22/2015.

Tribunale di Como, sentenza del 7 luglio 2025.

Ottenuta la tutela in via d’urgenza per la lavoratrice part-time cui era stata imposta una modifica di orario in assenza di una clausola elastica. Dovuto anche il risarcimento indipendentemente dalla prova del pregiudizio.

Il Tribunale accoglie il ricorso proposto in via di urgenza da una lavoratrice (vedova e madre di due

figli minori) contro la modifica dell’orario di lavoro concordato col datore di lavoro in assenza di una clausola che prevedesse tale possibilità. Il pericolo nel ritardo della tutela viene riconosciuto considerati i turni imposti anche in orari incompatibili con gli impegni di cura dei figli.

La lavoratrice ottiene anche il risarcimento del danno (liquidato in via equitativa nella misura del 25% della retribuzione per il periodo di modifica degli orari) in base alla disposizione dell’art. 10, co. 3, D.Lgs. 81/2015 la quale, parlando espressamente di “diritto” al risarcimento, riconosce tale forma di tutela indipendentemente dalla prova di un effettivo pregiudizio.

Corte di Cassazione, sentenza 3 luglio 2025, n. 18073.

Non computabile nel comporto la malattia in caso di sospensione in CIG.

Nel giudizio di impugnazione di un licenziamento per superamento del periodo di comporto (periodo massimo di tolleranza delle assenze per malattia da parte del datore di lavoro), il dipendente aveva, tra l’altro, sostenuto l’erroneità di computo in quest’ultimo di 15 giorni di malattia intervenuta mentre egli era sospeso in CIG. Accogliendo il ricorso del lavoratore avverso la sentenza d’appello che gli aveva dato torto, la Corte interpreta il principio di prevalenza della CIG sulla malattia, espresso dall’art. 3, comma 7 D. Lgs. n. 148/2015, nel senso che esso non è limitato alle indennità, ma incide sul titolo dell’assenza, per cui nel momento della CIG non può più operare il regime dell’assenza per malattia, che non va pertanto comunicata, certificata o controllata e che non è computabile nel comporto.

Corte di Cassazione, sentenza 3 luglio 2025, n. 18063.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: obbligo di repêchage rafforzato per il lavoratore che assiste un familiare disabile.

Nel giudizio di impugnazione del licenziamento per soppressione del posto promosso da un dipendente che fruiva della legge n. 104/1992 per assistere la moglie invalida all’80% e che aveva rifiutato un’alternativa perché comportante un orario di lavoro diverso da quello del passato e ritenuto più oneroso per lo svolgimento dell’assistenza, pur disponibile a ogni altra collocazione con l’orario consueto, la Corte, cassando la sentenza d’appello che aveva respinto le domande, ricorda la regola dell’onere di repêchage che grava sul datore di lavoro in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, quale espressione del principio del licenziamento come estrema ratio e afferma che, in caso di lavoratori che prestano assistenza a familiari disabili, tale obbligo assume un rilievo rafforzato: la necessità di garantire la cura del congiunto impone infatti un bilanciamento pregnante tra esigenze produttive e doveri di solidarietà. Nel caso esaminato, la Corte d’Appello aveva errato nel non rilevare che dagli atti introdotti in giudizio erano risultate assunzioni successive al licenziamento con l’orario richiesto dal ricorrente, circostanza che dimostrava che la società non aveva adempiuto all’onere su di essa gravante.

Corte d’Appello di Campobasso sentenza del 30 giugno 2025 n. 43.

È legittimo il licenziamento del dipendente sottoposto a misure interdittiva: sussiste l’ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione.

Immagine che contiene vestiti, persona, interno, Lavoro

Il contenuto generato dall'IA potrebbe non essere corretto.Nella fattispecie, un’operatrice socio sanitaria aveva impugnato il licenziamento intimatole da una casa di riposo in seguito all’applicazione nei suoi riguardi della misura cautelare dell’interdizione per sei mesi dall’esercizio dell’attività lavorativa.

Il Tribunale di Larino aveva ritenuto illegittimo il licenziamento, ma la Corte d’Appello ha riformato tale decisione. Il collegio molisano ha evidenziato che non sussistevano gli estremi del giustificato motivo soggettivo di licenziamento, dal momento che l’astensione della dipendente dal lavoro non era a lei imputabile, poiché dovuta alla predetta misura interdittiva.

Tuttavia, ha rilevato che la sottoposizione della lavoratrice a quest’ultima avrebbe potuto legittimarne il licenziamento per giustificato motivo oggettivo qualora la casa di riposo, in base a una valutazione ex ante e non ex post, non avesse avuto interesse a ricevere dalla stessa ulteriore prestazione.

Corte di Cassazione, ordinanza 28 giugno 2025, n. 17383.

Ancora sulla natura del diritto alle festività infrasettimanali.

Torna il tema della natura, derogabile o non, del diritto del dipendente a fruire del riposo nelle festività infrasettimanali, in un giudizio in cui i ricorrenti svolgevano la propria attività lavorativa in turni distribuiti su sette giorni.

La Cassazione ribadisce, in proposito che il diritto all’astensione nelle giornate di festività infrasettimanali riconosciuto dalla legge (con diritto alla retribuzione giornaliera) non è assoluto, ma disponibile e può quindi essere oggetto di rinuncia da parte del lavoratore (con diritto a un’ulteriore retribuzione giornaliera) mediante accordo individuale o per effetto di un contratto collettivo stipulato dal sindacato cui il lavoratore abbia conferito specifico mandato; a tal fine, è sufficiente che il contratto individuale richiami espressamente la disciplina collettiva di settore, qualora questa pur non negando il diritto al riposo preveda un’articolazione dell’orario di lavoro su sette giorni, includendo i festivi, frutto di una valutazione preventiva e condivisa delle esigenze di bilanciamento tra diritto individuale e continuità operativa del servizio, alla luce delle peculiarità del settore di riferimento.

Tribunale di Ravenna, 26 giugno 2025.

Cessione di attività costituente un ramo d’azienda “leggero”: la giurisprudenza della Corte di giustizia europea impone di assegnare rilevanza al dissenso dei lavoratori sulla cessione del rapporto al cessionario.

La sentenza del Tribunale ravennate ripercorre l’evoluzione della disciplina del trasferimento d’azienda, in ambito comunitario e nazionale, per rilevare come l’allargamento del campo di applicazione della Direttiva europea a rami d’azienda c.d. leggeri, non coincidenti con la disciplina civilistica ex art. 2555 c.c., avesse una finalità protettiva dei lavoratori interessati al trasferimento, ma garantendo nel contempo il diritto al dissenso alla cessione, con l’effetto di permanere alle dipendenze del cedente (diritto da regolare da parte degli ordinamenti nazionali, cosa che l’ordinamento italiano non ha fatto in modo espresso). Il Tribunale ne ricava la conseguenza che, oltre a valutare i requisiti di sussistenza oggettiva del ramo preesistente al trasferimento, assuma rilevanza anche il dissenso espresso dal lavoratore trasferito (che, quando riguarda la maggioranza degli interessati, mette in discussione l’esistenza stessa di una cessione di ramo d’azienda).

Tribunale di Vicenza sentenza n. 315 del 5 giugno 2025.

Per la competenza territoriale non rileva l’abitazione del lavoratore in smart working.

L’abitazione non è una dipendenza aziendale se rappresenta unicamente il luogo di svolgimento del lavoro agile.

Il lavoratore, avente mansioni di commerciale esterno, impugnava giudizialmente il licenziamento irrogatogli, incardinando il procedimento presso il foro competente rispetto alla propria abitazione ove svolgeva l’attività in regime di smart-working.

Nel costituirsi in giudizio, la società datrice eccepisce l’incompetenza territoriale del giudice adito. Afferma che la residenza del lavoratore che svolge la prestazione in smart-working non è un elemento che può essere valorizzato al fine della determinazione della competenza territoriale in caso di instaurazione di un giudizio.

NEWSLETTER PRIVACY 8/2025

AGOSTO 2025

Il Garante Privacy blocca la diffusione delle immagini dell’autopsia di Chiara Poggi Lesione gravissima della dignità della vittima e dei suoi familiari.

Il Garante Privacy ha disposto, d’ufficio e in via d’urgenza, con provvedimento dell’11.07.2025 il blocco nei confronti di un soggetto che sta rendendo disponibile online, a pagamento, un video contenente le immagini dell’autopsia di Chiara Poggi.

Con lo stesso provvedimento, l’Autorità avverte i media e i siti web che l’eventuale diffusione delle immagini risulterebbe illecita in quanto in contrasto con le Regole deontologiche dei giornalisti e la normativa privacy.

Il Garante invita dunque chiunque entri nella disponibilità di tali immagini, compresi i mezzi di informazione, ad astenersi dalla loro diffusione che anche in considerazione della violenza esercitata nei confronti della vittima lederebbe in modo gravissimo la sua dignità e quella dei suoi familiari.

L’Autorità si è riservata l’adozione di ulteriori provvedimenti anche di carattere sanzionatorio.

Sanzione di 420mila euro del Garante Privacy ad Autostrade per l’Italia S.p.A. per aver trattato in modo illecito i dati personali di una dipendente, poi utilizzati per giustificarne il licenziamento.

L’intervento dell’Autorità è seguito al reclamo della lavoratrice che aveva segnalato l’utilizzo, da parte della società, di contenuti estratti dal proprio profilo Facebook e da chat private su Messenger e WhatsApp per motivare i procedimenti disciplinari a proprio carico. Tra i contenuti utilizzati figuravano anche stralci virgolettati di commenti e descrizioni di foto.

Dagli accertamenti del Garante è emerso che i contenuti erano stati utilizzati dal datore di lavoro senza una base giuridica valida, attraverso screenshot forniti da alcuni colleghi e da un soggetto terzo, presenti tra gli “amici” della dipendente su Facebook e attivi nelle sue conversazioni private su Messenger e WhatsApp.

Le comunicazioni, inoltre, riguardavano opinioni e scambi avvenuti in contesti estranei al rapporto di lavoro, non rilevanti ai fini della valutazione dell’idoneità professionale. Nel motivare la sanzione, il Garante ha sottolineato che una volta accertato il carattere privato delle conversazioni e dei commenti pubblicati, tra l’altro, in ambienti digitali ad accesso limitato la società avrebbe dovuto astenersi dal farne uso.

L’impiego di tali informazioni, infatti, ha violato i principi di liceità, finalità e minimizzazione previsti dalla normativa privacy. L’Autorità ha inoltre ribadito che i dati personali presenti sui social network, o comunque accessibili online, non possono essere utilizzati liberamente e per qualunque scopo, solo perché visibili a una platea più o meno ampia di persone. Anche nell’ambito dell’attività disciplinare il datore di lavoro è tenuto a bilanciare correttamente tale potere con i diritti e le libertà fondamentali riconosciuti agli interessati.

Il principio di finalità, ha ricordato l’Autorità, impone che i dati siano raccolti per scopi specifici, espliciti e legittimi, e trattati in modo coerente con tali scopi. Pertanto, l’utilizzo nel procedimento disciplinare di messaggi scambiati su canali privati di comunicazione è avvenuto in violazione della segretezza e riservatezza della

Garante Privacy: lavoro, no alle impronte digitali per la rilevazione presenze il Garante sanziona un istituto scolastico.

Il Garante per la protezione dei dati personali, con provvedimento del 4.06.2025, ha affermato che l’uso dei dati biometrici sul posto di lavoro è consentito solo se previsto da una norma specifica che tuteli i diritti dei lavoratori.

Tale trattamento deve rispondere a un interesse pubblico e rispettare criteri di necessità e proporzionalità rispetto all’obiettivo perseguito.

Su tale presupposto, il Garante Privacy, a seguito di un reclamo, ha sanzionato un Istituto di Istruzione superiore di Tropea per 4mila euro per aver impiegato un sistema di riconoscimento biometrico che, allo scopo di rilevarne la presenza e di prevenire danneggiamenti e atti vandalici, richiedeva l’uso delle impronte digitali del personale amministrativo.

I lavoratori coinvolti erano quelli che avevano rilasciato il proprio consenso e che non intendevano ricorrere a modalità tradizionali di attestazione della propria presenza in servizio.

Nel rilevare la violazione della normativa privacy, italiana ed europea, il Garante ha ricordato quanto già espresso in un precedente parere del 2019: non può ritenersi proporzionato l’uso sistematico, generalizzato e indifferenziato per tutte le pubbliche amministrazioni di sistemi di rilevazione biometrica delle presenze, a causa dell’invasività tali forme di verifica e delle implicazioni derivanti dalla particolare natura del dato.

La mancanza di un’idonea base giuridica, in merito al trattamento dei dati biometrici, non può essere colmata neppure dal consenso dei dipendenti che non costituisce, di regola, un valido presupposto per il trattamento dei dati personali in ambito lavorativo, sia pubblico che privato, a causa dell’asimmetria tra le rispettive parti del rapporto di lavoro.

Nel definire la sanzione il Garante ha tuttavia tenuto conto sia della buona collaborazione offerta dall’Istituto nell’ambito dell’istruttoria che dell’assenza di precedenti violazioni analoghe.

Marketing: il Garante sanziona per 45 mila euro una società di rivendita auto online e – mail senza consenso e mancato controllo sulla filiera dei partner.

Il Garante Privacy con provvedimento 27.03.2025 ha accertato che una società non aveva disciplinato correttamente i rapporti con i partner pubblicitari che potevano così trattare i dati dei clienti senza alcun controllo e in violazione della normativa privacy.

Il rivenditore di auto avrebbe infatti dovuto adottare misure tecniche e organizzative adeguate a garantire, ed essere in grado di dimostrare, che i trattamenti effettuati da terzi, fossero conformi al regolamento e che l’interessato avesse prestato il proprio consenso alla ricezione di messaggi pubblicitari. a un rivenditore di auto online per trattamento illecito di dati personali ai fini di marketing.

Il procedimento trae origine dal reclamo di un cliente che lamentava la ricezione di numerose e-mail indesiderate e il mancato riscontro alle richieste di esercizio dei diritti sanciti dal Regolamento.

Nel reclamo, l’interessato precisava di aver ricevuto i messaggi da indirizzi Email sempre diversi, facenti capo a partner promozionali della società di cui ignorava l’esistenza.

Numerosi gli illeciti riscontrati.

In particolare, il Garante ha accertato che la società non aveva disciplinato correttamente i rapporti con i partner pubblicitari che potevano così trattare i dati dei clienti senza alcun controllo e in violazione della normativa privacy.

Il rivenditore di auto avrebbe infatti dovuto adottare misure tecniche e organizzative adeguate a garantire, ed essere in grado di dimostrare, che i trattamenti effettuati da terzi, fossero conformi al regolamento e che l’interessato avesse prestato il proprio consenso alla ricezione di messaggi pubblicitari.

Al riguardo, il Garante ribadisce che tra le misure minime che i titolari del trattamento devono adottare vi è l’acquisizione dei consensi in modalità double optin, un processo che richiede agli utenti di confermare due volte la propria intenzione di iscriversi a contenuti promozionali, garantendo così maggiori tutele sia per gli interessati che per i titolari.

Per quanto riguarda il mancato riscontro alle richieste di esercizio dei diritti, il Garante ha accertato che l’errata qualificazione dei ruoli ha vanificato l’opposizione manifestata dal cliente: l’inserimento in black list effettuato dalla società non aveva infatti prodotto alcun risultato sui partner che avevano continuato a inviare le comunicazioni promozionali.

Tenuto conto che la società ha rescisso i contratti con i partner e ha interrotto l’attività pubblicitaria tramite Email, il Garante non ha ingiunto misure correttive.

G7 Privacy: azioni comuni per un ambiente digitale più sicuro Concluso a Ottawa, il vertice delle Autorità di protezione dei dati dei 7 Grandi.

Promuovere la fiducia nell’economia digitale e sostenere l’innovazione nel rispetto della privacy e della protezione dei dati personali.

È questo l’impegno condiviso dalle Autorità di protezione dei dati personali con la dichiarazione approvata a conclusione del G7 Privacy che si è svolto in Canada il 17, 18, 19 e 20 giugno.

Secondo i Garanti le azioni comuni intraprese contribuiranno a creare un ambiente digitale più sicuro per il futuro.

Il trattamento dei dati dovrebbe essere progettato per servire l’umanità, per questo le Autorità incoraggiano sviluppatori e innovatori a riflettere sui contenuti della dichiarazione approvata a Ottawa.

Inoltre, dando seguito al piano d’azione adottato al G7 di Roma nel 2024, le Autorità invitano a promuovere un’innovazione responsabile e a proteggere i minori, dando priorità alla privacy.

“I bambini vogliono e hanno il diritto di essere cittadini digitali attivi sostiene la dichiarazione e meritano una protezione forte e adeguata, che tenga conto dei loro interessi e permetta loro di partecipare pienamente al mondo digitale”.

Nel corso del vertice, inoltre, è stato dato conto delle attività dei tre gruppi di lavoro del G7 privacy: libera e responsabile circolazione dei dati, Tecnologie emergenti e intelligenza artificiale e Cooperazione per l’attuazione di regole comuni.

L’obiettivo è l’adozione a dicembre, nel corso di una riunione programmata, dei restanti documenti sui temi affrontati, che riguardano tra gli altri: le procedure per rendere operativa la DFFT in un contesto globale; l’uso responsabile dei dati nei dispositivi smart home; la definizione di un modello condiviso di applicazione della normativa sulla protezione dei dati. Il Collegio del Garante Italiano, rappresentato dal presidente Pasquale Stanzione, dalla vicepresidente Ginevra Cerrina Feroni e dai componenti Agostino Ghiglia e Guido Scorza, ha partecipato attivamente a tutti i tavoli di lavori, alle discussioni collegiali, con interventi e dichiarazioni, oltre agli eventi collaterali del G7, in tema di tecnologie per il rafforzamento e il miglioramento della privacy e al Privacy Symposium finale sulle prospettive della protezione dei dati personali nell’era digitale. In particolare, la prof.ssa Cerrina Feroni, nell’ambito dell’evento svoltosi il 16 e il 17 giugno organizzato dall’OCSE, dal Governo Canadese e dall’Agenzia per l’innovazione digitale Giapponese, ha tenuto una relazione sul ruolo delle Autorità di protezione dati personali nella promozione delle PETs, alla quale si sono aggiunte le riflessioni nel dibattito presentate dal dott. Ghiglia.

Al presidente Stanzione è stato poi chiesto un intervento di apertura ai lavori del G7 volto ad evidenziare il “passaggio di testimone” rispetto all’edizione romana del 2024.

La vicepresidente ha, quindi, illustrato il volume preparato dal Garante italiano contenente i documenti e gli interventi del G7 2024, che è stato consegnato a tutti i partecipanti.

Quanto ai contenuti più specifici, tra i vari temi affrontati dal Collegio del Garante nelle varie sessioni, il dott. Ghiglia è intervenuto sulla libera e responsabile circolazione dei dati sostenendo la crucialità della cooperazione tra le giurisdizioni, in particolar modo al di fuori dello spazio economico europeo, per supportare e facilitare flussi di dati transfrontalieri sicuri, affidabili e conformi alla normativa sulla protezione dei dati personali.

L’Avv. Scorza ha affrontato la questione delle nuove tecnologie con riguardo alle possibilità che esse possono aprire anche per la protezione dei dati personali, la prof.ssa Cerrina Feroni ha esaminato il ruolo dell’enforcement al fine di individuare strategie comuni alla luce delle analogie e delle differenze dei vari ordinamenti giuridici.

Il Presidente ha concluso con un intervento sulle prospettive future del G7 sia sotto il profilo delle procedure che degli ambiti di azione futura.

L’Avv. Scorza ha partecipato a Ottawa al Privacy Symposium del 20 giugno, intervenendo nell’ambito della tavola rotonda fra le varie autorità presenti al G7 per sottolineare come non si possa continuare a sacrificare il best interest del minore sull’altare del mercato e degli interessi commerciali, mentre il presidente Stanzione, la vicepresidente Cerrina Feroni, il componente Ghiglia a Montreal, invitati dalla McGill University, sono stati protagonisti di un dibattito pubblico sul ruolo del Garante Italiano in ambito di intelligenza artificiale e dati sanitari e sui temi affrontati nel G7.

Privacy e AI: Meta addestra i suoi sistemi con i dati degli utenti che non si sono opposti.

A decorrere dalla fine del mese di maggio 2025, Meta ha dato avvio all’impiego dei dati personali degli utenti maggiorenni di Facebook e Instagram al fine di addestrare i propri modelli di intelligenza artificiale, a prescindere dalla legittima acquisizione del consenso.

Meta società capogruppo delle piattaforme Facebook, Instagram e WhatsApp ha comunicato di avere avviato, a partire dalla fine di maggio 2025, l’utilizzo dei dati personali degli utenti maggiorenni che non hanno esercitato il diritto di opposizione, allo scopo di alimentare e perfezionare i propri sistemi di intelligenza artificiale generativa, tra cui Meta AI e LLaMA (Large Language Model Meta AI).

L’iniziativa, formalmente giustificata dalla finalità di “miglioramento tecnologico”, ha comportato l’elaborazione di contenuti resi pubblici dagli utenti, quali testi, immagini e interazioni condivise sulle piattaforme, ad eccezione secondo le dichiarazioni ufficiali delle conversazioni private e i messaggi riservati.

L’assenza di una manifestazione espressa di dissenso da parte dell’utente è stata interpretata da Meta quale forma implicita di adesione al trattamento, fondando tale presunzione sulla base giuridica del legittimo interesse del titolare, ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, lettera f), del Regolamento (UE) 2016/679.

Tale impostazione, tuttavia, si confronta con un orientamento consolidato, sia nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sia nelle linee guida adottate dal Comitato Europeo per la Protezione dei Dati tra cui si segnalano il parere WP217 e le Linee guida 06/2020 secondo cui ogni passaggio a una finalità ulteriore rispetto a quella originaria, in particolare quando comporta forme di trattamento potenzialmente invasive, impone una verifica stringente in ordine alla compatibilità, alla proporzionalità, alla trasparenza e all’intelligibilità dell’informativa resa all’interessato, conformemente ai principi sanciti dall’articolo 5 del GDPR.

NEWSLETTER 8/2025

Novita’ normative

Residenza estera a rischio se il datore di lavoro concede lo smart working. Il lavoro agile può incidere sull’individuazione dello Stato con più stretto collegamento.

Nell’attuale contesto lavorativo è frequente il caso in cui le persone siano assunte da datori di lavoro esteri, i quali concedono di svolgere, per alcuni periodi, l’attività lavorativa da remoto in modalità agile nel proprio Stato di origine, dove risiedono anche i familiari o le persone con cui si hanno legami significativi. Questa situazione comporta alcuni profili di rischio legati all’individuazione della residenza fiscale.

Si pensi, ad esempio, a una lavoratrice che abbia stipulato un contratto con una società estera in cui siano previsti 10-12 giorni al mese di smart working, durante i quali la persona presta attività in Italia, presso l’abitazione di proprietà del compagno, non coniugato. La stessa ha a disposizione un immobile nello Stato estero mediante contratto di locazione mentre non possiede immobili o conti correnti in Italia.

In un caso come quello prospettato, sotto il profilo della normativa, l’art. 2 del TUIR, in vigore dal 2024, pone una prima criticità rispetto al criterio del domicilio fiscale che reca la specifica accezione di “luogo in cui si sviluppano, in via principale, le relazioni personali e familiari della persona”, privilegiando dunque le relazioni personali e familiari rispetto a quelle prettamente economiche.

Nella nozione di “relazioni personali e familiari”, secondo l’Agenzia delle Entrate, rientrano sia i rapporti tipici , sia le relazioni personali connotate da un carattere di stabilità che esprimono un radicamento con il territorio dello Stato.

Allo stesso modo, precisa l’Agenzia, può assumere rilievo la dimensione stabile dei rapporti sociali. Secondo Assonime le relazioni personali e sociali devono essere segnalate da elementi fattuali, come la presenza significativa sul territorio dell’individuo o del suo nucleo familiare, nonché attraverso l’utilizzo dei servizi e delle infrastrutture disponibili nel territorio dello Stato. Fatte queste premesse, il caso prospettato, in cui la persona presenta un legame affettivo rilevante sul territorio italiano (il compagno), potrebbe essere suscettibile di contestazioni da parte dell’Amministrazione finanziaria, la quale potrebbe ritenere configurato il domicilio fiscale in Italia.

Allo stesso modo, andrebbe attentamente monitorato il parametro della presenza fisica, laddove, unitamente al periodo di smart working, la persona, come logico, trascorresse in Italia i periodi di pausa dal lavoro; se, cumulativamente, gli stessi rappresentassero la maggior parte del periodo di imposta, sarebbe integrato un elemento ulteriore per considerare la persona residente in Italia.

Una volta verificata la residenza fiscale in Italia in base ai criteri domestici, occorre poi valutare se, in base ai criteri convenzionali, la stessa potrebbe invece essere qualificata come non residente.

Sempre facendo riferimento al caso ipotizzato, la persona disporrebbe di un’abitazione permanente in entrambi gli Stati e bisognerebbe quindi indagare il luogo in cui è stabilito il centro di interessi vitali, il quale considera sia le relazioni personali, sia le relazioni economiche.

Tale valutazione richiede di contemperare gli elementi con valenza diversa; ad esempio, avere un conto in banca, carte di credito, una patente in un determinato Stato non dovrebbe rilevare in modo incisivo per la determinazione del centro di interessi vitali, posto che si tratta di elementi che possono essere ottenuti velocemente e facilmente, mentre la casa famigliare, la presenza di figli, di un partner e di un lavoro in un certo Stato denotano un maggiore collegamento con tale territorio. In tale ottica, rileva anche l’evoluzione dei rapporti personali sul territorio, per cui un eventuale matrimonio con il partner, residente in Italia, esprimerebbe la volontà di un collegamento durevole con l’Italia e ciò anche se la persona ha spostato le proprie relazioni economiche all’estero. In questo contesto, nell’interpretazione della norma internazionale, un possibile elemento da valorizzare sarebbe legato alla riconoscibilità esterna dell’attività economica prestata; ove, infatti, vi siano interessi economici fortemente radicati sul territorio estero e riconoscibili a terzi, si potrebbe sostenere che il centro di interessi vitali è stabilito nello Stato estero, superando in questo modo la nozione di domicilio fiscale. La questione non sarebbe invece di facile risoluzione avendo riguardo a un consulente con clienti all’estero, in quanto l’attività di consulenza è soggetta a forte mobilità e quindi non in grado di determinare un forte collegamento con lo Stato estero. Ove non sia possibile stabilire il luogo del centro di interessi vitali, in virtù della sussistenza di rapporti economici e sociali all’estero, si passerebbe alla terza regola, relativa al luogo di soggiorno abituale, da stabilire in termini di frequenza, durata e regolarità.

Salvo l’elenco delle attività discontinue per il lavoro intermittente.

L’INL, in accordo con il Ministero del Lavoro, conferma il rinvio al RD 2657/23, nonostante la sua abrogazione.L’abrogazione del RD 2657/23, contenente la tabella delle occupazioni che richiedono un lavoro discontinuo o di semplice attesa o custodia, da parte della L. 56/2025, come era già stato anticipato non comporta conseguenze sul lavoro intermittente. Lo ha chiarito l’Ispettorato nazionale del Lavoro (INL) che, con la nota n. 1180/2025, ha definitivamente risolto i dubbi sollevati da una parte degli addetti ai lavori circa l’esistenza di un potenziale vuoto normativo, che poteva incidere sulla concreta possibilità di fare ricorso al lavoro a chiamata. Come chiarito con la circolare INL n. 1/2021, ai fini della stipula di un contratto di lavoro intermittente, ai sensi dell’art. 13 del D.Lgs. 81/2015, devono sussistere alternativamente le cosiddette condizioni oggettive o quelle soggettive. Queste ultime si riferiscono al requisito anagrafico del lavoratore, previsto dal comma 2 dell’art. 13, secondo il quale il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con soggetti con meno di 24 anni di età, purché le prestazioni lavorative siano svolte entro il venticinquesimo anno, e con più di 55 anni. Le condizioni oggettive, invece, sono disciplinate dal comma 1 del medesimo art. 13, in forza del quale è possibile fare ricorso al contratto di lavoro intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi, anche con riferimento alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno. In mancanza di contratto collettivo, i casi di utilizzo del lavoro intermittente sono individuati con decreto del Ministro del Lavoro e delle politiche sociali.

Il Senato della Repubblica, con la seduta dell’8 luglio 2025, ha approvato in via definitiva il disegno di legge recante le disposizioni in materia di conservazione del posto di lavoro e permessi retribuiti per esami e cure mediche a favore dei lavoratori affetti da malattie oncologiche.

Il DdL era già stato approvato dalla Camera dei Deputati a marzo e interviene su più punti:

  • congedo biennale: periodo di congedo non retribuito fino a 24 mesi con conservazione del posto di lavoro;
  • smart working: diritto prioritario al lavoro da remoto dopo il congedo, se la mansione lo permette;
  • permessi per visite, esami e cure: ulteriori 10 ore annue di permessi indennizzati, esteso ai genitori di minori malati;
  • lavoratori autonomi: sospensione dell’attività che passa da 150 a 300 giorni per anno solare.

Il 2 luglio 2025 Min. Lavoro: firmato il Protocollo quadro per le emergenze climatiche.

Il Ministro del Lavoro e delle politiche sociali ha sottoscritto il protocollo quadro per l’adozione delle misure di contenimento dei rischi lavorativi legate alle emergenze climatiche negli ambienti di lavoro.

Nei prossimi giorni si proseguirà con la raccolta delle firme di tutte le parti sociali che intendono aderire.

INPS, messaggio n. 2130 del 3 luglio 2025.

Trattamenti di integrazione salariale per caldo eccessivo.

Tenendo conto dell’incidenza che le condizioni climatiche attuali, caratterizzate da elevate temperature notevolmente superiori alla media stagionale, hanno sullo svolgimento delle attività lavorative e sull’eventuale sospensione o riduzione delle stesse, l’INPS, con il messaggio del 3.07.2025, sintetizza le indicazioni in merito alle modalità con cui richiedere le prestazioni di integrazione salariale e ai criteri per la corretta valutazione delle istanze

Per le dimissioni di fatto serve una disposizione ad hoc nel CCNL.

Il Ministero del Lavoro ribadisce che in difetto di espressa previsione contrattuale vale il termine legale di 15 giorni di assenza ingiustificata.

Le disposizioni del CCNL sulle assenze ingiustificate, previste per il licenziamento, non possono dar luogo a dimissioni di fatto.

Lo ha chiarito il Ministero del Lavoro con una specifica FAQ con la quale è ritornato sul valore e sull’impatto reale delle attuali disposizioni del contratto collettivo in relazione alla nuova procedura di risoluzione per fatti concludenti del rapporto di lavoro, contenuta nel c.d. Collegato Lavoro, vigente dal 12 gennaio 2025.

Un intervento quanto mai necessario alla luce di una serie di interpretazioni nate dalla recente sentenza n. 87/2025 del Tribunale di Trento che, secondo alcuni commentatori, sembrava aver messo in discussione alcuni principi stabiliti dallo stesso Ministero con la circ. n. 6/2025.

L’elemento oggetto di discussione attiene alle clausole del contratto collettivo, già esistenti alla data di entrata in vigore della nuova procedura, che sanzionano con il licenziamento l’assenza ingiustificata, individuando la relativa durata.

Una parte della dottrina ha ritenuto, all’indomani della vigenza delle nuove disposizioni sulle dimissioni per assenza ingiustificata del lavoratore, di poter mutuare i termini previsti dai contratti collettivi per l’ipotesi di licenziamento, derogando così al più lungo termine legale di almeno 15 giorni, previsto, in mancanza di previsione contrattuale, dal nuovo comma 7 bis dell’art. 26 del D.Lgs. 151/2015.

Sul punto, come ribadito ulteriormente dal Ministero nella FAQ in commento, la circolare ministeriale n. 6/2025 è stata netta, chiarendo che le eventuali previsioni della contrattazione collettiva devono essere espressamente riferite a questa nuova fattispecie ed, inoltre, che il termine eventualmente individuato per legittimare la risoluzione del rapporto per comportamento concludente non deve essere inferiore a quello individuato dalla legge, ossia almeno 15 giorni.

La ragione di ciò, spiega il Ministero, è data dalla circostanza per cui l’elemento essenziale della risoluzione per fatti concludenti è il silenzio del lavoratore, che non deve aver fornito alcun motivo dell’assenza.

Ciò determina la necessità di un termine più ampio rispetto ai pochi giorni già previsti dai contratti collettivi per il licenziamento, “perché in quel caso la procedura di garanzia prevista dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori consente lo scrutinio delle opposte ragioni ed il controllo di legittimità delle decisioni”.

La fattispecie delle dimissioni di fatto ha, invece, un presupposto del tutto differente. Già in passato, prima che l’istituto delle dimissioni fosse disciplinato dal citato art. 26, che ha introdotto la specifica forma telematica, la Cassazione ha più volte ribadito che, per le dimissioni per fatti concludenti, quindi, non espresse formalmente, il comportamento del lavoratore deve essere inequivocabile, ovvero tale da non lasciare spazio ad altre interpretazioni se non quella della volontà di dimettersi.

La scelta ministeriale di non creare commistione tra assenza ingiustificata con profili disciplinari, da un lato, e assenza ingiustificata con valenza dimissionaria, dall’altro, appare, quindi, quanto mai condivisibile e in linea con i citati orientamenti giurisprudenziali, che non vengono intaccati, come già

sostenuto da chi scrive, dalla tanto discussa decisione del giudice trentino.

Secondo il Ministero, infatti, la lettura fornita nella circolare n. 6/2025 non appare superata dalla sentenza n. 87/2025 del Tribunale di Trento che attenendosi al petitum della controversia ha peraltro adottato un provvedimento di reintegrazione, dichiarando l’illegittimità del licenziamento e negando completamente la configurabilità delle dimissioni di fatto nel caso concreto.

Peraltro, nel caso specifico, lo stesso Tribunale, proprio in relazione al perfezionamento del termine utile alla fattispecie dimissionaria, pur richiamando la disposizione contenuta nel CCNL a fini disciplinari, sottolinea come nessun argomento contrario è stato svolto dalla società convenuta nella propria memoria di costituzione, atteso che tale profilo, per nulla indagato dal giudice, non era oggetto di discussione tra le parti. Inoltre, il Ministero, a ulteriore conferma della propria linea interpretativa, evidenzia come la norma stessa abbia previsto un generico richiamo alle previsioni del contratto collettivo, senza fare riferimento, come avrebbe potuto, al termine contrattuale connesso al licenziamento.

Pertanto, nel silenzio del legislatore, il termine cui la norma fa riferimento non può che essere quello che la contrattazione collettiva dovrà prevedere per lo specifico caso di risoluzione di rapporto per fatti concludenti del lavoratore e, in mancanza, l’unico termine possibile è quello legale di 15 giorni.

Pubblicato il 25 Giugno 2025 Garante Privacy: Lavoro no alle impronte digitali per la rilevazione presenze.

Il Garante per la protezione dei dati personali ha affermato che l’uso dei dati biometrici sul posto di lavoro è consentito solo se previsto da una norma specifica che tuteli i diritti dei lavoratori.

Tale trattamento deve rispondere a un interesse pubblico e rispettare criteri di necessità e proporzionalità rispetto all’obiettivo perseguito.

Su tale presupposto, il Garante Privacy, a seguito di un reclamo, ha sanzionato un Istituto di Istruzione superiore di Tropea per 4mila euro per aver impiegato un sistema di riconoscimento biometrico che, allo scopo di rilevarne la presenza e di prevenire danneggiamenti e atti vandalici, richiedeva l’uso delle impronte digitali del personale amministrativo.

I lavoratori coinvolti erano quelli che avevano rilasciato il proprio consenso e che non intendevano ricorrere a modalità tradizionali di attestazione della propria presenza in servizio.

Nel rilevare la violazione della normativa privacy, italiana ed europea, il Garante ha ricordato quanto già espresso in un precedente parere del 2019: non può ritenersi proporzionato l’uso sistematico, generalizzato e indifferenziato per tutte le pubbliche amministrazioni di sistemi di rilevazione biometrica delle presenze, a causa dell’invasività di tali forme di verifica e delle implicazioni derivanti dalla particolare natura del dato.

La mancanza di un’idonea base giuridica, in merito al trattamento dei dati biometrici, non può essere colmata neppure dal consenso dei dipendenti che non costituisce, di regola, un valido presupposto per il trattamento dei dati personali in ambito lavorativo, sia pubblico che privato, a causa dell’asimmetria tra le rispettive parti del rapporto di lavoro.

Nel definire la sanzione il Garante ha tuttavia tenuto conto sia della buona collaborazione offerta dall’Istituto nell’ambito dell’istruttoria che dell’assenza di precedenti violazioni analoghe.

Decreto legge 17 giugno 2025, n. 84 disposizioni urgenti in materia fiscale.

Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 138 del 17 giugno 2025, il decreto legge n. 84/2025 reca, fra le varie disposizioni, novità relative alla gestione delle trasferte dei lavoratori: rispetto a quanto previsto dalla legge di Bilancio 2025 sulla tracciabilità delle spese sostenute in trasferta, si prevede ora che l’obbligo, imposto al lavoratore, di utilizzare strumenti di pagamento tracciabili ai fini dell’esenzione fiscale e previdenziale delle somme allo stesso rimborsate, valga solamente per le trasferte effettuate

sul territorio dello Stato e non, invece, per quelle all’estero.

Si evidenzia inoltre la modifica alla disciplina della c.d. maxi deduzione prevista dal D.Lgs. n. 216/2023, in quanto con riferimento alla maggiorazione del costo ammesso in deduzione per le nuove assunzioni a tempo indeterminato viene eliminato il riferimento alle società collegate.

Decreto legge 11 aprile 2025 n. 48, convertito con legge 9 giugno 2025 n. 80: sgravi contributivi e apprendistato per i detenuti che lavorano all’esterno.

Il decreto legge n. 48/2025, convertito nella legge n. 80/2025 pubblicata in G.U. il 9 giugno 2025, introduce rilevanti misure per favorire il reinserimento socio lavorativo dei detenuti.

In particolare, estende ai detenuti che lavorano all’esterno degli istituti penitenziari, compresi coloro che usufruiscono di misure alternative alla detenzione, i benefici contributivi già previsti per il lavoro intramurario.

I datori di lavoro che li assumono possono accedere agli sgravi contributivi disciplinati dalla L. n. 193/2000, incentivando così l’inserimento lavorativo dei soggetti in esecuzione penale.

Il decreto prevede inoltre che tali detenuti possano essere assunti con contratto di apprendistato professionalizzante, al pari di quanto già stabilito per i lavoratori liberi, offrendo così percorsi formativi strutturati.

Le disposizioni hanno l’obiettivo di ridurre la recidiva, promuovere la responsabilità individuale e rafforzare le opportunità di integrazione post detentiva attraverso il lavoro.

Novita’ giurisprudenziali

Corte Costituzionale, sentenza n. 118 del 21.07.2025, la

Incostituzionale il tetto di 6 mensilità per i licenziamenti nelle piccole imprese.

La Corte Costituzionale afferma che è incostituzionale il limite di 6 mensilità a titolo di indennità risarcitoria previsto dall’art. 9, comma 1, del D.Lgs. 23/2015 in caso di licenziamento illegittimo irrogato da una azienda che occupa meno di 15 dipendenti.

Nel caso di specie, la lavoratrice, assunta dopo il marzo 2015 da una azienda con meno di 15 dipendenti, impugnava giudizialmente il licenziamento irrogatole.

Il Tribunale di Livorno, investito del caso, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del D.Lgs. 23/2015, ritenendo che lo stesso non fosse idoneo né a svolgere il ruolo di deterrente, né a garantire adeguatezza e congruità.

Secondo il Giudice rimettente, infatti, detta norma, da un lato, determina una ingiustificata disparità di trattamento tra dipendenti delle piccole e grandi aziende e, dall’altro lato, prevendendo una tutela standardizzata, impedisce una necessaria personalizzazione del risarcimento a seconda dei vizi, più o meno gravi, del recesso.

La Corte rileva che la norma censurata è incostituzionale, stante l’imposizione del limite massimo di 6 mensilità di indennità risarcitoria che è fisso ed insuperabile, a prescindere dalla gravità del vizio del licenziamento.

Secondo i Giudici, detto dato va letto unitamente alla previsione secondo cui, in favore dei dipendenti di piccole imprese, vi è il riconoscimento di importi dimezzati rispetto a quelli indicati in favore dei lavoratori occupati in aziende più grandi, seppur destinatari di licenziamenti parimenti illegittimi.

Alla luce di ciò, per la Consulta, l’ammontare dell’indennità in questione risulta “circoscritto entro una forbice così esigua da non consentire al giudice di rispettare i criteri di personalizzazione, adeguatezza e congruità del risarcimento del danno sofferto dal lavoratore illegittimamente licenziato” né da “assicurare la funzione deterrente della stessa indennità nei confronti del datore di lavoro”.

Su tali presupposti, la Corte “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 … limitatamente alle parole «e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”.

Corte di Cassazione ordinanza n. 13048 del 16 maggio 2025

Limiti all’oggetto del patto di non concorrenza. Il compenso pattuito non deve essere iniquo in relazione al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione della sua capacità di guadagno.

Il patto con il quale viene limitato lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del lavoratore e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.

La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata.

In materia si è recentemente pronunciata la Suprema Corte, con ordinanza n. 13048 del 16 maggio 2025.

Nel dettaglio, la Cassazione è stata chiamata a decidere in merito alla legittimità di un patto di non concorrenza con cui veniva imposto a una lavoratrice il divieto di prestare attività a favore di imprese operanti in tutti i settori di cui si occupava la precedente datrice di lavoro, per lo svolgimento di qualsiasi mansione.

Confermando le pronunce dei giudici di prime e di seconde cure, la cassazione ha chiarito come, nel caso di specie, dovesse ritenersi non congruo il compenso pattuito poco più di 3.000 Euro lordi, rispetto alle limitazioni subite (considerato anche l’arco temporale di estensione dell’accordo 15 mesi nel quale la lavoratrice avrebbe dovuto astenersi dal realizzare attività lavorative).

Nell’assumere tale decisione, La Corte ha fatto proprio un orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, in forza del quale, per valutare la validità di un patto di non concorrenza, in riferimento al corrispettivo dovuto, si richiede innanzitutto che, in quanto elemento distinto dalla retribuzione, lo stesso possieda i requisiti previsti in generale per l’oggetto della prestazione dall’art. 1346 c.c.; va poi verificato, ex art. 2125 c.c., che il compenso pattuito non sia meramente simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, in relazione al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione della sua capacità di guadagno.

A ben vedere, tale pronuncia limita la valutazione circa la legittimità dell’accordo in relazione all’ammontare del compenso, vagliando, in altre parole, la proporzionalità di quest’ultimo rispetto al sacrificio assunto dal lavoratore.

Ma, indipendentemente dall’ammontare del corrispettivo, ci si può chiedere fino a che punto possa essere vincolata l’attività futura del prestatore di lavoro.

Ebbene, una risposta a tale domanda viene fornita dalla recente pronuncia n. 13051/2025, con cui la Cassazione, riprendendo il principio di diritto sopracitato, aggiunge: “che il patto non sia di ampiezza tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in termini che ne compromettano ogni potenzialità reddituale”.

Viene valorizzata, quindi, la professionalità del lavoratore che, dopo aver cessato la precedente attività lavorativa, deve essere posto in condizioni tali da assicurarsi un guadagno idoneo alle sue esigenze di vita.

Tanto assunto, è fondamentale aggiungere come l’attitudine di un patto di non concorrenza a influire sulle capacità di rioccupazione del lavoratore comporti una valutazione congiunta dell’oggetto e dell’estensione territoriale dell’accordo: tanto più ampio è l’oggetto, tanto meno potrà esserlo il territorio, e viceversa.

È bene, quindi, ricordare come anche il riferimento territoriale debba essere individuato specificamente, nonché come la giurisprudenza ritenga validi patti di non concorrenza estesi a tutto il territorio nazionale ed, in determinate circostanze, anche al territorio europeo; ciò, ad esempio, nel caso in cui l’impresa stipulante abbia carattere multinazionale e l’accordo stesso presenti un oggetto molto circoscritto di attività inibite.

Infine, la valutazione di questi l’elementi non può prescindere da una considerazione rispetto ad un altro aspetto fondamentale del patto, ossia la sua durata temporale. In merito a ciò, tuttavia, già l’art. 2125 c.c. Summenzionato individua dei limiti: 3 anni per la generalità dei lavoratori, 5 anni per i dirigenti.

Per le dimissioni di fatto valide solo le giornate successive al 12 gennaio 2025.

Lo ha stabilito il Tribunale di Trento con la prima rilevante sentenza in merito alle dimissioni di fatto.

Le giornate di assenza ingiustificata, che determinano l’effetto estintivo del rapporto di lavoro per dimissioni “di fatto” sono solo quelle successive all’entrata in vigore della nuova procedura di risoluzione, contenuta nel c.d. Collegato lavoro (l. 203/2024), vigente dal 12 gennaio 2025.

Lo ha stabilito il Tribunale di Trento con la sentenza n. 87/2025, la prima pronuncia di merito che offre numerosi spunti di riflessione.

Nel caso di specie una lavoratrice, a seguito di interruzione della possibilità di lavorare mediante smart working, non si era presentata a lavoro, maturando, a decorrere dal 7 gennaio 2025, una serie di giorni di assenza.

Il datore di lavoro, rifacendosi all’art. 238 comma 4 del CCNL per i dipendenti da aziende del terziario, della distribuzione e dei servizi, che consente il licenziamento disciplinare in ragione di assenza ingiustificata oltre tre giorni nell’anno solare, ha ritenuto perfezionata la fattispecie di dimissioni per fatti concludenti, prevista dal nuovo comma 7 bis dell’art. 26 del D.Lgs. 151/2015, provvedendo in data 13 gennaio 2025 a inoltrare a mezzo PEC la prevista comunicazione al servizio lavoro della provincia autonoma di Trento.

Il primo aspetto, sul quale si incentra fondamentalmente la motivazione del giudice, attiene al momento a partire dal quale è possibile attribuire all’assenza del lavoratore una specifica valenza giuridica.

Sul punto il Tribunale, muovendo dal principio del tempus regit actum e dell’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello stato di diritto, spiega come il sostantivo actus indichi una condotta o comportamento in generale e, quindi, un qualsiasi fatto umano giuridicamente rilevante, non già soltanto un negozio giuridico ossia una manifestazione di volontà produttiva di effetti giuridici, quali le “dimissioni per fatti concludenti”.

Pertanto, le giornate di assenza antecedenti al 12 gennaio non possono essere considerate una semplice preesistente situazione di fatto che abilita, successivamente a tale data, la possibilità di attivare la procedura di risoluzione del rapporto.

In tal senso solo una condotta successiva può acquisire il valore giuridico richiesto dal comma 7 bis.

Muovendo da tale ragionamento il Tribunale ritiene non perfezionato l’istituto, accogliendo la tesi della ricorrente che ha qualificato la fattispecie come licenziamento orale attuato mediante il rifiuto di ricevere la prestazione della lavoratrice.

Innanzitutto, appare interessante evidenziare come secondo il giudice la totale assenza dei presupposti di cui all’art. 26 riconduca l’interruzione del rapporto a un licenziamento (precisamente orale, con le conseguenze normative previste dall’art. 2 del D.Lgs. 23/2015), mentre il diritto alla ricostituzione del rapporto, paventata tanto dall’INL quanto dal Ministero, per le ipotesi in cui il datore di lavoro abbia già provveduto alla trasmissione del relativo modello Unilav di cessazione, potrebbe discendere unicamente da un accertamento negativo dello stesso ispettorato, investito dalla comunicazione, ovvero da un’azione giudiziaria del lavoratore che, secondo quanto previsto proprio dall’ultimo periodo del comma 7 bis, dimostri l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza.

Altra questione attiene alla circostanza per cui il giudice, ai fini delle dimissioni di fatto, sembra attribuire valore ai giorni di assenza previsti dal CCNL ai fini disciplinari, peraltro inferiori al termine legale di 15 giorni.

Invero il Ministero, con circolare n. 6/2025, ha sostenuto la necessità che il CCNL preveda una norma che individui una durata di assenza ingiustificata con valore dimissionario, non potendo mutuare quanto stabilito al diverso fine disciplinare, sottolineando, inoltre, che il CCNL non può derogare in peius, fissando un termine inferiore ai 15 giorni.

Peraltro, proprio in relazione al perfezionamento del termine utile alla fattispecie dimissionaria, lo stesso giudice, pur richiamando la disposizione contenuta nel CCNL a fini disciplinari, sottolinea come nessun argomento contrario è stato svolto dalla società convenuta nella propria memoria di costituzione. Infine, una menzione merita anche il passaggio della sentenza nella parte in cui afferma che “il concetto di assenza in tanto può avere un senso in quanto vi sia un obbligo, contrario, di presenza: invece, sarebbe contraddittorio e privo di senso parlare di assenza dal lavoro in riferimento a giorni festivi o comunque non lavorativi”.

In tal modo, pertanto, il giudice sembra aderire a un conteggio dei giorni di assenza non di calendario ma di effettivo lavoro.

Corte di Cassazione, ordinanza 23 giugno 2025, n. 16839.

Contitolarità del rapporto di lavoro e responsabilità solidale.

La Corte d’Appello aveva accertato la contitolarità tra due società del rapporto di lavoro di un dirigente, ritenuto fraudolentemente imputato a una sola di esse e, nonostante il licenziamento intimato dalla società apparentemente datrice, aveva dichiarato la prosecuzione del rapporto con l’altra.

La Cassazione, accogliendo il ricorso della società da ultimo indicata, afferma che: la codatorialità, la quale prescinde dalla natura simulata o fraudolenta del fenomeno del collegamento tra imprese, determina la responsabilità solidale tra i diversi codatori che utilizzano contemporaneamente la prestazione dei medesimi dipendenti, ma non dà luogo ad alcuna duplicazione dell’obbligazione lavorativa, né sotto il profilo retributivo né sotto quello della titolarità del rapporto; in presenza di una pluralità di codatori il lavoratore deve impugnare il licenziamento intimato da uno di essi nei confronti di tutti i soggetti che esercitano poteri datoriali: in mancanza, non opera la solidarietà e il rapporto deve intendersi risolto; la Corte territoriale ha errato nel ritenere che il rapporto prosegua con la sola società non autrice del licenziamento, trascurando il fatto che l’impugnazione non era stata estesa a tutti i codatori.

Corte di Cassazione, sentenza 23 giugno 2025, n. 16773.

Ferie non godute nelle società in house.

Il dipendente di una società in house aveva chiesto la condanna della datrice a pagargli l’indennità sostitutiva di ferie non godute nel corso del rapporto di lavoro, ottenendola dal Tribunale, con la motivazione che le restrizioni alla monetizzazione delle ferie stabilite in Italia per i pubblici dipendenti vanno disapplicate perché in contrasto col diritto comunitario; e dalla Corte d’Appello con la motivazione che tali disposizioni non si applicano al rapporto di lavoro con le società in house, che rimane privato.

Respingendo il ricorso della società contro quest’ultima sentenza, la Cassazione chiarisce che: l’ultimo approdo della giurisprudenza in materia di indennità sostitutiva delle ferie non godute, maturata nel dialogo tra le Corti, afferma l’incomprimibilità del diritto alle ferie retribuite, cui è inscindibilmente connesso il diritto all’indennità sostitutiva in caso di mancata fruizione per cause non imputabili al lavoratore, riconoscendone la natura fondamentale e inderogabile; tale giurisprudenza si è sviluppata con riferimento a fattispecie riguardanti datori di lavoro pubblici, per i quali possono operare limiti organizzativi e vincoli di spesa pubblica: nel caso concreto, invece, la natura privatistica della società in house esclude ogni possibilità di limitare il diritto del lavoratore all’indennità; le società in house, infatti, pur sottostando a controlli pubblici e vincoli contabili, restano soggetti formalmente e sostanzialmente privati nei rapporti di lavoro: ad esse non si applicano le norme del pubblico impiego salvo specifiche deroghe previste dalla legge.

Corte di Cassazione, ordinanza 17 giugno 2025, n. 16358.

Licenziamento con più addebiti: l’infondatezza di uno non esclude di per sé la giusta causa.

Una soprano, dipendente di una Fondazione lirico sinfonica, era stata licenziata per giusta causa sulla base di due distinti addebiti disciplinari: l’allontanamento in due occasioni dal domicilio durante le fasce di reperibilità in periodo di malattia e la partecipazione, senza autorizzazione, a una cerimonia religiosa dove

aveva cantato in un coro.

La Corte d’Appello, concentrando il proprio esame esclusivamente sul secondo episodio, ne aveva escluso la rilevanza disciplinare, disponendo la reintegrazione della dipendente.

La Cassazione, cassando con rinvio la sentenza, chiarisce che: in presenza di un licenziamento per giusta causa fondato su una pluralità di condotte, ogni addebito conserva autonoma rilevanza, salvo che la parte che vi ha interesse provi che solo la loro valutazione congiunta può giustificare la cessazione del rapporto; nel caso in esame, la Corte territoriale ha omesso ogni valutazione dell’addebito pacificamente accertato relativo agli allontanamenti durante le fasce di reperibilità.

Il giudice del rinvio dovrà quindi esaminare anche questo profilo per verificare se, da solo, fosse sufficiente a legittimare il licenziamento.

Tribunale di Roma, 17 giugno 2025.

È ritorsiva la revoca delle facilitazioni di viaggio ai dipendenti che facciano valere i propri diritti nei confronti della parte datoriale.

Il Tribunale ha accolto il ricorso dei lavoratori di una compagnia aerea che si erano visti sospendere le facilitazioni di viaggio per aver intentato una causa contro il datore di lavoro.

La compagnia aveva agito in base a un proprio Regolamento che prevedeva espressamente la revoca delle agevolazioni in caso di giudizio azionato dal dipendente nei confronti della Società.

Il Giudice ha annullato la revoca delle agevolazioni di viaggio, riconoscendone la natura manifestamente ritorsiva, sorretta da motivo illecito unico e determinante; la condotta datoriale ha configurato un’ingiusta e arbitraria reazione a un comportamento dei lavoratori non solo legittimo, ma addirittura espressione di un diritto avente rango costituzionale.

È stata invece esclusa la sussistenza di una discriminazione, perché la prassi aziendale ha interessato indistintamente tutti i lavoratori che abbiano proposto un giudizio nei confronti della società, mancando un “termine di confronto”, ossia la dimostrazione che un soggetto abbia subito un trattamento difforme rispetto ad altri che si trovavano nelle medesime condizioni.

Corte di Cassazione, ordinanza 15 giugno 2025, n. 16019.

Non discriminatoria l’indennità di maternità se l’INPS applica un criterio poi superato dalla giurisprudenza.

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Il contenuto generato dall'IA potrebbe non essere corretto.La Corte d’Appello aveva ritenuto discriminatoria per la donna in gravidanza la condotta dell’INPS e del datore di lavoro relativa all’erogazione a un’assistente di volo dell’indennità di maternità in misura ridotta per il mancato computo della metà dell’indennità di volo, superando in tal modo un’eccezione di decadenza riferibile alle sole controversie previdenziali.

La Cassazione accoglie il ricorso dell’INPS e chiarisce che: il trattamento effettuato costituiva il frutto di una interpretazione della relativa legge corrente al momento dell’erogazione e solo successivamente mutato; non può configurarsi una discriminazione diretta ex art. 25, co. 2 bis, D.Lgs. n. 198/2006 in assenza di un trattamento deteriore riconoscibile come tale già al momento della sua applicazione di conseguenza, esclusa la discriminazione, la domanda della lavoratrice va ritenuta diretta alla riliquidazione di una prestazione previdenziale e, come tale, soggiace al regime di decadenza previsto dall’art. 47 D.P.R. n. 639/1970, la cui eventuale ricorrenza va accertata dal giudice di rinvio.

Cassazione, ordinanza 15 giugno 2025, n. 15987.

Comunicazione del licenziamento tra presunzione di conoscenza e prova contraria.

Un dipendente pubblico aveva impugnato tardivamente il licenziamento per inidoneità assoluta e permanente comunicatogli dal Comune datore di lavoro, sostenendo di non aver potuto rispettare il termine per l’impugnazione perché non era venuto a conoscenza della lettera di recesso, ricevuta presso la propria abitazione dalla madre convivente che, per tutelarlo psicologicamente, non gliel’aveva comunicata. Tribunale e Corte d’Appello avevano dichiarato inammissibile il ricorso per intervenuta decadenza, ritenendo perfezionata la presunzione di conoscenza legale ex art. 1335 c.c. al momento della ricezione dell’atto da parte del familiare.

La Cassazione conferma la decisione di merito ribadendo che: la presunzione di conoscenza dell’atto recettizio si fonda sull’equivalenza giuridica tra conoscenza e conoscibilità dell’atto, purché regolarmente ricevuto al domicilio del destinatario; tale presunzione può essere superata solo con prova contraria oggettiva, relativa a circostanze estranee alla volontà del destinatario che abbiano impedito l’effettiva possibilità di venire a conoscenza dell’atto; nel caso di specie, il lavoratore non ha offerto elementi istruttori sufficienti a dimostrare l’esistenza di impedimenti oggettivi alla conoscibilità della lettera di licenziamento.

Tribunale Napoli Nord, Sez. lav., sentenza 16 aprile 2025, n. 1758.

Legittimo il licenziamento con trasmissione del Modello Unilav via WhatsApp?

Il Tribunale di Napoli Nord, con la sentenza n. 1758 del 16 aprile 2025, ha affrontato la questione della validità del licenziamento comunicato tramite WhatsApp, con allegato il modello Unilav. Il giudice ha stabilito che la comunicazione del licenziamento, anche se effettuata attraverso strumenti informatici come WhatsApp, soddisfa il requisito della forma scritta previsto dall’art. 2 della L. n. 604/1966, purché la comunicazione contenga le generalità delle parti, gli estremi del rapporto di lavoro, la data e la

motivazione del recesso, e sia effettivamente portata a conoscenza del lavoratore.

La sentenza sottolinea che la ricezione e la conoscenza da parte del lavoratore sono elementi essenziali per la validità della comunicazione, e che la trasmissione del modello Unilav tramite WhatsApp, se non contestata e seguita da una reazione del lavoratore, integra pienamente i requisiti di legge.

La decisione si inserisce in un orientamento giurisprudenziale che riconosce la validità delle comunicazioni di licenziamento effettuate con mezzi informatici, purché garantiscano certezza e trasparenza nella manifestazione della volontà datoriale.

Corte d’Appello di Torino, sentenza n. 150 del 17.03.2025.

Costituisce giusta causa di licenziamento la condotta del dipendente che bacia sulla bocca una collega contro la sua volontà, anche se la stessa non si attiva immediatamente per segnalare il comportamento del molestatore.

Il dipendente impugna giudizialmente il licenziamento irrogatogli per aver abbandonato il posto di lavoro a causa dello stato di ebrezza conseguente alla partecipazione alla festa di pensionamento di un collega e per avere, nella stessa occasione, molestato fisicamente un’altra collega.

Il Tribunale accoglie la predetta domanda, non ritenendo provata la giusta causa di recesso a fronte dell’inattendibilità dei testi escussi. La Corte d’Appello di Torino, censurando l’impugnata pronuncia di merito, rileva che il comportamento tenuto da una vittima di molestie a sfondo sessuale successivamente all’evento non può in alcun modo inficiare la veridicità dello stesso. In particolare, secondo i Giudici, a nulla rileva che la vittima, come nel caso di specie, non abbia subito chiesto aiuto al personale di sorveglianza ed abbia avvisato la società qualche giorno dopo l’accaduto invece che nell’immediato.

Per la sentenza, infatti, una persona molestata può avere mille ragioni per non attivarsi (subito) contro il molestatore e per non denunciarlo penalmente, per esempio per evitare ulteriori noie o per non sopportare il rischio di non essere creduta, senza che ciò escluda la gravità dell’evento.

Su tali presupposti, la Corte d’Appello di Torio accoglie il ricorso della società, affermando la legittimità del licenziamento dalla stessa irrogato.

NEWSLETTER PRIVACY 7/2025

Diffamazione on line: internet non è una zona franca.

In caso di diffamazione commessa con il mezzo telematico, al fine di individuare l’autore del messaggio, vanno disposte ricerche sulle informazioni personali eventualmente presenti nei profili social, nonché acquisire i dati di traffico telematico.

Sempre in materia di diffamazione, il termine “nazista” non può essere considerato una forma di manifestazione di un pensiero critico che, per quanto discutibile sarebbe comunque legittimo in un dibattito democratico. Tale espressione costituisce invece uno sfregio alla verità oggettiva e rappresenta la più infamante delle offese per la reputazione di chi ha speso la propria vita per testimoniare gli orrori del regime e per coltivare la memoria dell’Olocausto. Così ha deciso il Tribunale di Milano, Ufficio indagini preliminari, con ordinanza del 28 aprile 2025.

La vicenda oggetto del provvedimento ha avuto una larga eco mediatica: con numerosi messaggi pubblicati su varie piattaforme web sono stati rivolti numerosi messaggi gravemente offensivi nei confronti di una Senatrice a vita della Repubblica Italiana.

Il procedimento trae origine da 27 querele, successivamente riunite, con cui sono stati portati all’attenzione dell’Autorità Giudiziaria 246 messaggi diffamatori, pubblicati su vari social media. Il pubblico ministero, tuttavia, ha presentato la richiesta di archiviazione fondata su alcune osservazioni che possono essere riassunte nei

seguenti termini:

  1. per un gruppo di messaggi è stato possibile identificare l’autore e gli scritti sono stati ritenuti offensivi, ma non diffamatori;
  2. per alcuni post non è stato possibile individuare l’autore, in quanto l’Internet Service Provider che regola il social media, in cui è stato pubblicato il messaggio, non ha comunicato, benché richiesto, all’Autorità Giudiziaria, l’IP da cui sono stati inviati i messaggi.

Il giudice per le indagini preliminari, con il provvedimento in esame, ha fornito le coordinate entro cui iscrivere i diversi messaggi, adottando i conseguenti provvedimenti, che spaziano dall’archiviazione per quei messaggi diffamatori i cui autori sono rimasti ignoti, alla disposizione di ulteriori indagini al fine di identificare gli autori dei post diffamatori, all’ordine di formulare l’imputazione, laddove sia possibile attribuire il messaggio diffamatorio ad un autore. Va registrato il rilievo fondamentale su cui poggia l’intero provvedimento: il web non può rappresentare «un terreno franco dove ogni insulto e dove la reputazione egli individui può essere calpestata impunemente». Alla luce di tale osservazione, quindi, il giudice ha ordinato al pubblico ministero di completare le indagini, individuando l’autore dei messaggi che si risolvono in gratuiti attacchi personali alla persona offesa, anche attraverso l’epiteto “nazista”. Se tale espressione – ha osservato il giudice – può essere considerata una forma di manifestazione di un pensiero critico che, per quanto discutibile, sarebbe comunque legittimo nel dibattito democratico, costituisce invece «uno sfregio alla verità oggettiva e rappresenta la più infamante delle offese per la reputazione» della persona offesa che ha speso la propria vita per testimoniare gli orrori del regime e per coltivare la memoria dell’Olocausto.

La seconda parte del provvedimento che merita attenzione da parte dell’interprete riguarda i messaggi diffamatori che provengono dalle piattaforme quali Facebook, Instagram, Google, Twitter e Telegram, per i quali non è stato possibile individuare l’autore, in quanto gli Internet Service Provider non hanno risposto all’Autorità Giudiziaria. Come infatti osservato nelle motivazioni del provvedimento in esame, questi Internet Service Provider, avendo la sede legale Oltreoceano, non ritengono di essere assoggettati alla disciplina continentale di discovery e di data retention dei file di log.

Il giudice non ha ritenuto percorribile neppure la strada della cooperazione giudiziaria tramite il sistema delle rogatorie, rilevando che il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti d’America (DOJ) non presta la richiesta di collaborazione per l’identificazione degli autori del reato di diffamazione, ma solo per fatti configurabili come grave espressione di minaccia reale o come istigazione o propositi di un’azione illegale imminente. Ed infatti, qualora i messaggi pubblicati nel web abbiano contenuto diffamatorio, il DOJ, di regola, ritiene prevalente la libertà di manifestazione di pensiero e la libertà di stampa garantiti dal Primo Emendamento della Costituzione

americana, con la conseguente rigetto della richiesta di assistenza giudiziaria.

Il giudice, quindi, ha ordinato lo svolgimento di indagini finalizzate ad acquisire informazioni personali per quelle piattaforme, come Facebook, Twitter e Instagram, dove l’utente registra il proprio profilo come reale, inserendo altresì numerose informazioni personali, escludendo invece Telegram, dove tali informazioni non sono reperibili.

Ecosistema Dati Sanitari (EDS): innovazione digitale nel rispetto della privacy .

L’Ecosistema Dati Sanitari (EDS) rappresenta un sostegno del processo di digitalizzazione del sistema sanitario nazionale e si configura come un sistema integrato che raccoglie, elabora e rende disponibili dati sanitari provenienti da diverse fonti in modo strutturato e sicuro. L’EDS è parte del più ampio sistema del Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE) e ne completa le funzionalità, consentendo l’utilizzo dei dati sanitari per diverse finalità predeterminate.

L’EDS è stato istituito con il Decreto del Ministero della Salute del 31 dicembre 2024, in attuazione dell’articolo 12, comma15 quater del D.L. 179/2012 (convertito con la L. 221/2012).

E prevede la realizzazione di un ecosistema di dati finalizzato a garantire il coordinamento informatico e assicurare servizi omogenei sul territorio nazionale.

Il Ministero della Salute, d’intesa con la struttura della Presidenza del Consiglio competente per l’innovazione tecnologica, cura la realizzazione dell’EDS, mentre la gestione operativa è affidata all’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (Agenas).

Gli obiettivi principali dell’EDS sono:

  • garantire un coordinamento informatico dei dati sanitari a livello nazionale, assicurando servizi omogenei su tutto il territorio;
  • consentire l’elaborazione dei dati per diverse finalità (cura, prevenzione, profilassi internazionale, governo, ricerca scientifica);
  • supportare il processo decisionale clinico e amministrativo, migliorando contestualmente la qualità delle cure e l’efficienza del sistema sanitario.

Nel contesto descritto è importante comprendere la differenza che sussiste tra il Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE) e l’Ecosistema Dati Sanitari (EDS).

Mentre il FSE raccoglie e conserva i documenti sanitari agli assistiti (quali possono essere referti, lettere di dimissione e prescrizioni), l’EDS estrae, valida ed elabora i dati contenuti in questi documenti, consentendone un utilizzo più avanzato e granulare.

L’EDS non duplica, quindi, i documenti presenti nel FSE, ma ne estrae le informazioni rilevanti, garantendo la tracciabilità del dato al documento originale.

Le unità di archiviazione per dati in chiaro contengono dati identificabili degli assistiti.

È previsto che tali unità siano create una per ciascuna regione e provincia autonoma e una per i Servizi di Assistenza Sanitaria al personale Navigante (SASN).

L’unità di archiviazione per dati pseudonimizzati conserva dati codificati, privi di elementi identificativi diretti, sostituiti da codici. L’unità di archiviazione per dati anonimi registra dati completamente anonimizzati utilizzabili per ricerca e analisi statistica.

Il flusso di informazioni che alimenta l’EDS prevede che le strutture sanitarie e sociosanitarie del SSN trasmettano i dati attraverso le soluzioni tecnologiche fornite da Agenas, che garantiscono la validazione e standardizzazione dei medesimi.

L’impianto dell’EDS è strutturato, infatti, in maniera che i dati condivisi con l’ecosistema mantengano sempre la riconducibilità al documento originale presente nel FSE, garantendo il pieno allineamento con quest’ultimo.

Ogni operazione compiuta sul FSE (quale oscuramento, rettifica o cancellazione di un documento) si riflette anche nei dati da questo estratti e condivisi mediante EDS.

I dati conservati sull’EDS sono cancellati trascorsi trent’anni dal decesso dell’assistito ad opera del Ministero della salute che provvede, a tale operazione, con periodicità annuale.

Il sistema EDS è stato progettato per supportare diverse finalità, ciascuna caratterizzata da specifiche modalità di accesso e tipologie di dati disponibili, garantendo, in tal modo, la tutela dei dati personali degli interessati.

Nel contesto della cura del paziente, l’EDS si rivela uno strumento di supporto all’attività di cura per i professionisti. Medici convenzionati, strutture sanitarie e sociosanitarie del SSN, nonché tutti gli esercenti le professioni sanitarie possono accedere ai dati in chiaro, previa acquisizione del consenso dell’assistito. Tale accesso, subordinato alla dichiarazione che il processo di cura è in corso, permette di consultare dati di sintesi, il dossier farmaceutico e visualizzare l’andamento dei parametri clinici.

Un valore aggiunto è rappresentato dal supporto alla compilazione del Profilo Sanitario Sintetico, strumento essenziale per la continuità assistenziale.

La prevenzione costituisce un altro ambito di applicazione fondamentale dell’EDS.

Gli attori coinvolti dai soggetti del Servizio Sanitario Nazionale agli uffici regionali competenti in materia di prevenzione sanitaria possono, sempre previo consenso dell’interessato, estrarre e analizzare dati per pianificare attività preventive, identificare andamenti anomali e valutare casi sospetti di patologie infettive, contribuendo così a una gestione proattiva della salute pubblica.

Sul fronte della profilassi internazionale, il Ministero della Salute, attraverso la Direzione generale competente, può accedere ai dati in chiaro per monitorare l’emergere di nuovi patogeni, sintomatologie sconosciute, fattori di rischio e fenomeni di farmacoresistenza.

Anche in questo caso, il consenso dell’assistito rappresenta la base giuridica per l’accesso ai dati.

Infine, nel campo della ricerca scientifica, l’EDS offre la possibilità di accedere al patrimonio informativo dei dati sanitari in forma anonima.

Tale facoltà è prevista per il Ministero della Salute, l’Agenas, le regioni e gli enti di ricerca, sia pubblici che privati. A quest’ultimi, la possibilità di accesso è subordinata all’autorizzazione dell’Agenas, a cui deve essere presentata una richiesta di estrazione di dati anonimizzati, corredata da un relativo progetto di ricerca redatto conformemente alle regole metodologiche, etiche e deontologiche per trattamenti compiuti per fini statistici e di ricerca scientifica.

La normativa rinvia, poi, a successivo decreto del Ministero della salute l’adozione di specifiche disposizioni per l’attivazione di appositi servizi dell’EDS che consentono trattamenti dei dati personali per le finalità di studio e ricerca scientifica in campo medico, biomedico ed epidemiologico, nel rispetto delle garanzie di cui all’art. 89 del regolamento.

L’EDS opera nel rispetto della normativa sulla protezione dei dati personali, indicando il consenso quale base giuridica del trattamento per i dati accessibili in chiaro e prevedendo, in ottemperanza di ciò, meccanismi per la gestione dei consensi.

Gli interessati devono, infatti, esprimere un consenso esplicito, libero e informato per autorizzare l’elaborazione dei propri dati mediante l’EDS.

Per assicurare una comunicazione omogenea dell’informativa al trattamento dati per EDS, il Ministero della Salute, in collaborazione con le regioni e le province autonome, ha il compito di integrare il modello di informativa relativo al FSE (già definito dall’articolo 7, comma 4 del decreto ministeriale del 7 settembre 2023) con i trattamenti compiuti attraverso l’ecosistema.

I consensi al trattamento dati possono essere espressi in modo disgiunto dagli assistiti in riferimento alle singole finalità, garantendo così un controllo granulare sui propri dati sanitari.

L’eventuale revoca comporta, quindi, la disabilitazione allo specifico servizio dell’EDS per cui si nega il trattamento.

Gli assistiti possono esprimere i propri consensi per via telematica, accedendo al FSE.

Parallelamente, le regioni e le province autonome sono tenute a garantire e comunicare agli assistiti ulteriori modalità di espressione dei consensi, in base alle proprie strutture organizzative.

L’architettura dell’EDS regola, in ogni caso, meccanismi di tutela degli interessati in contesti di emergenza, ammettendo la possibilità agli operatori del SSN, dei servizi sociosanitari regionali e gli esercenti le professioni sanitarie di accedere ai dati anche in assenza di consenso esplicito per il tempo strettamente necessario alla cura dell’assistito.

L’EDS prevede, inoltre, che i servizi di accesso ai dati sanitari debbano garantire la trasparenza dei medesimi offrendo indicazioni dettagliate su chi e per quale ragione ha avuto accesso ai dati, in ottemperanza ai principi sanciti dal Regolamento UE 679/2016 (GDPR).

Tramite l’EDS gli interessati possono, infatti, visualizzare l’elenco degli accessi compiuti e ricevere notifiche in caso di consultazione dei propri dati.

Gli assistiti possono esercitare i propri diritti in materia di privacy (quali il diritto di rettifica, cancellazione e limitazione ai dati) accedendo al FSE e operando sui documenti ivi conservati.

Le azioni compiute vengono, così, automaticamente riportate sui dati presenti nell’ecosistema.

I servizi dell’Eds saranno attivi entro il 31 marzo 2026 e, comunque, non prima della completa attuazione della disciplina sul FSE 2.0.

Dati sensibili usati per fini personali: scatta il licenziamento per giusta causa.

La Corte d’appello di Milano, con la sentenza n. 302 del 24 aprile 2025, conferma la sentenza del Giudice di prime cure confermando la legittimità del licenziamento per giusta causa comminato ad un dipendente, addetto allo smistamento della posta interna aziendale che, approfittando del proprio ruolo, si era appropriato del numero di telefono indicato nel curriculum vitae di una candidata per contattarla per scopi del tutto estranei all’attività lavorativa.

Nell’ottobre del 2023 un dipendente di una Società, addetto alla ricezione e smistamento della posta interna aziendale, riceveva una lettera di contestazione disciplinare per aver acquisito illecitamente, dal curriculum vitae consegnato da una giovane donna presso una delle sedi aziendali per candidarsi all’assunzione, il numero di telefono cellulare privato della suddetta, poi contattata via whatsapp veniva quindi contestata al lavoratore la violazione delle norme di legge, di contratto, di regolamento in materia di privacy e delle disposizioni aziendali in relazione al comportamento da tenere sul luogo di lavoro, oltre che di aver tenuto condotte lesive dell’immagine e reputazione aziendale. Il lavoratore nella propria lettera di giustificazioni confermava il fatto storico contestato, ma respingeva ogni addebito, ritenendo il proprio comportamento privo di rilievo disciplinare. All’esito del procedimento disciplinare l’azienda procedeva al licenziamento per giusta causa del lavoratore. Il Lavoratore impugnava pertanto il licenziamento, contestando la sproporzione tra la condotta contestata, a sua detta priva di disvalore tale da giustificare il recesso. Il Giudice di prime cure respingeva il ricorso, ritenendo che la condotta tenuta dal lavoratore sottoposte alla sua valutazione fosse “del tutto idonea a concretizzare una grave violazione degli obblighi di diligenza”. Concludeva pertanto il Tribunale di Milano la propria motivazione in questi termini un siffatto uso dei dati personali della candidata, da parte di un soggetto adeguatamente formato in materia di privacy nonché consapevole del trattamento da riservare agli stessi, non può che avere una significativa valenza negativa, traducendosi in lesione irreparabile del vincolo fiduciario.

La Corte d’appello di Milano, all’esito del giudizio di appello, rigetta il ricorso confermando le motivazioni del giudice di prime cure, ritenendo sussistente la giusta causa di licenziamento e la sanzione espulsiva adottata dall’azienda proporzionata rispetto alla gravità dei fatti contestati e non contestati nella loro materialità dal ricorrente. La Corte d’appello fonda in particolare la propria decisione su tre argomentazioni principali, conformi ai più recenti e maggioritari orientamenti giurisprudenziali in tema di licenziamento disciplinare: in particolare infatti in questa sentenza la Corte ritiene necessario valutare con attenzione l’elemento soggettivo della fattispecie, pertanto le peculiarità proprie del lavoratore, le mansioni in concreto svolte, il ruolo rivestito, le sue conoscenze e la sua formazione, le responsabilità a lui affidate dalla Società. Inoltre la Corte, nel valutare se il comportamento del lavoratore potesse essere qualificato, secondo la declaratoria contrattuale, quale giusta causa di recesso, applica il principio, più volte ribadito dalla giurisprudenza della Suprema corte, dell’autonomia del Giudice del merito nel determinare la gravità del comportamento illecito sottoposto al suo apprezzamento, anche al di fuori dell’elencazione delle ipotesi previste dalla contrattazione collettiva quale giusta causa, elencazione che deve ritenersi meramente esemplificativa (contrariamente a quanto invece è previsto per le sanzioni conservative). Infine, ricorda la Corte d’appello che ai fini della valutazione della proporzionalità tra la sanzione adottata e il comportamento contestato al lavoratore il Giudice del merito, anche in assenza di apposita contestazione da parte del datore di lavoro della recidiva di comportamento, abbia comunque facoltà di considerare anche i precedenti procedimenti disciplinari condotti nei confronti del lavoratore da cui il datore di lavoro avrebbe potuto desumere elementi importati in relazione alla futura affidabilità del dipendente. Afferma quindi in primo luogo la Corte meneghina che, ai fini della valutazione della sussistenza dei requisiti della giusta causa di licenziamento, la condotta tenuta dal lavoratore debba essere necessariamente valutata nel suo complesso. Così operando, osserva la Corte che nel caso di specie i motivi di particolare gravità, tali da ritenere fondata l’intimata giusta causa di recesso, possano desumersi da diversi elementi: in primo luogo, dal fatto che in considerazione delle mansioni svolte (e non contestate) il lavoratore aveva libero accesso a molteplici informazioni e dati personali; dalle svariate violazioni della normativa in tema di trattamento dei dati personali e delle precise disposizioni aziendali ricevute sul tema nel 2020; dalla formazione specifica che la Società aveva assegnato al lavoratore in materia di privacy, inviato a partecipare a periodici corsi di aggiornamento; dalla conseguente consapevolezza che il lavoratore doveva necessariamente avere dell’illiceità della condotta tenuta. La Corte d’appello, aderendo integralmente alla decisione assunta dal Tribunale di Milano nell’impugnata sentenza, ritiene inoltre che il lavoratore, utilizzando il numero di telefono personale della candidata a scopi esclusivamente personali, avesse anche palesemente violato le disposizioni aziendali che imponevano che i dati personali da lui acquisiti nell’esercizio delle proprie mansioni venissero utilizzati esclusivamente al fine di compiere i compiti attribuitigli dal datore di lavoro, quali la gestione e smistamento della posta. Il fatto che proprio un lavoratore adeguatamente formato in materia di privacy avesse fatto un uso così improprio di dati personali di una candidata non poteva quindi che rivestire una valenza particolarmente negativa, tradotta in una lesione grave ed irreparabile del vincolo fiduciario. Argomenta quindi la Corte meneghina “la specificità della mansione e la durata ultraventennale del rapporto di lavoro alle dipendenze della società rendono ancor più intollerabile la condotta posta in essere dal dipendente la violazione degli obblighi del lavoratore si è infatti realizzata nel momento in cui ha utilizzato il numero di telefono per finalità diverse da quelle per le quale era stato comunicato dalla candidata e assolutamente estranee alle esigenze aziendali. La datrice di lavoro ha reputato la gravità della condotta sia in considerazione del peculiare elemento soggettivo, rapportato alla funzione ed al grado di fiducia attribuito al dipendente con la nomina a persona autorizzata al trattamento dei dati personali, sia in relazione al danno all’immagine ed alla reputazione della società”. In ragione pertanto delle suddette argomentazioni, conformi a consolidati e più recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di licenziamento disciplinare, la Corte d’appello di Milano conferma la sentenza del Tribunale di Milano e rigetta il ricorso.

L’Intelligenza Artificiale sbaglia, l’avvocato paga

La recente pronuncia resa nel Regno Unito dalla High Court of Justice rappresenta l’occasione per riflettere sui rapporti tra avvocatura e tecnologie, su come l’intelligenza artificiale potrà cambiare la professione forense.

Il provvedimento è stato pronunciato dalla High Court of Justice King’s Bench Division, Administrative Court nella causa promossa dal signor F. A. contro il London Borough of Haringey. L’Alta Corte ha accertato che nel ricorso per “judicial review” proposto dal signor Ayinde erano stati inseriti cinque precedenti giurisprudenziali inesistenti, non verificati da parte dei difensori che li avevano citati. Il giudice inglese ha qualificato tale condotta come impropria, irragionevole e negligente, ipotizzando un uso non controllato di strumenti di intelligenza artificiale e disponendo un “wasted costs order” per l’importo complessivo di 4.000 sterline, oltre alla trasmissione della sentenza agli organi disciplinari competenti (Bar Standards Board e Solicitors Regulation Authority).

Il giudice inglese rileva, quindi, che sebbene non sia stato possibile acquisire la prova circa un effettivo utilizzo di strumenti basati sull’intelligenza artificiale nella redazione dell’atto è stato accertato in fatto che l’autrice dell’atto ha inserito riferimenti a precedenti giurisprudenziali la cui esistenza non è stata verificata con la dovuta diligenza, o che sono stati utilizzati con consapevole indifferenza rispetto alla loro veridicità. Ciò comporta una responsabilità personale piena e diretta, indipendentemente dallo strumento eventualmente impiegato nella redazione. Il punto centrale correttamente evidenziato dalla Corte non consiste nell’utilizzo o meno di uno strumento di intelligenza artificiale, che rappresenta una circostanza in sé neutra, ma nel fatto che sono stati citati dei casi giudiziari (inesistenti) senza averne verificato la fonte con la necessaria diligenza.

Al riguardo, si richiama l’attenzione alla “Carta dei Principi per un uso consapevole di strumenti di intelligenza artificiale in ambito forense”, recentemente adottata da parte dell’Ordine degli Avvocati di Milano, la quale prescrive il rispetto dei principi di legalità, correttezza, trasparenza e responsabilità.

In una prospettiva più ampia, anche la Commissione europea con la recente pubblicazione delle FAQ sull’AI Literacy in attuazione dell’art. 4 dell’AI Act ha chiarito gli obblighi per le società che sviluppano o utilizzano sistemi di intelligenza artificiale di garantire un adeguato livello di competenza in materia di AI a tutto il personale (dipendenti e collaboratori coinvolti nell’uso e nella gestione di tali tecnologie).

NEWSLETTER 7/2025

Novita’ normative

AEC 4 giugno 2025 Agenti e Rappresentanti di Commercio.

È stata sottoscritta l’ipotesi di rinnovo dell’Accordo Economico Collettivo (AEC) per gli Agenti e Rappresentanti di Commercio nel settore del commercio. L’accordo è stato firmato da Confesercenti e dalle principali organizzazioni di categoria, tra cui FNAARC, USARCI, FISASCAT, CISL, UILTUCS, UIL e FILCAMS, CGIL. L’intesa entrerà in vigore dal 1 luglio 2025 fino al 30 giugno 2029.

È stato inoltre chiarito che, per l’Agente di Commercio, il compenso previsto dal patto di non concorrenza come definito dal Codice Civile ha natura complementare rispetto alle indennità previste dalla normativa e dall’AEC, e non può essere da esse assorbito.

Tra i punti qualificanti dell’intesa, segnaliamo:

  • il rafforzamento della tutela degli agenti in caso di modifiche unilaterali da parte della casa mandante, relativamente a provvigioni, prodotti e clientela;
  • l’azienda mandante è inoltre tenuta a comunicare all’Agente tutte le informazioni utili allo svolgimento del mandato;
  • le modifiche alle disposizioni sul periodo di comporto e sugli anticipi provvisionali;
  • il compenso previsto per l’Agente di Commercio dal patto di non concorrenza ha natura complementare rispetto alle indennità previste dalla normativa e dall’AEC, e non può essere da esse assorbito;
  • il riconoscimento delle provvigioni anche sulle vendite di prodotti o servizi effettuate a consumatori privati attraverso il commercio elettronico;
  • al termine del mandato tutte le somme corrisposte dalla casa mandante in aggiunta alle provvigioni saranno computabili ai fini dei vari istituti contrattuali e legali: variazioni contrattuali, FIRR, indennità suppletiva di clientela, indennità meritocratica, indennità sostitutiva del preavviso e indennità per il patto di non concorrenza post contrattuale;
  • qualora il contratto di agenzia sia stipulato con una società di persone, l’indennità di fine rapporto sarà corrisposta anche nel caso venga meno la pluralità dei soci per scioglimento della società, pensionamento, invalidità o decesso;
  • l’aumento dei massimali per il calcolo del FIRR, migliorando sensibilmente l’importo riconosciuto al termine del mandato; dall’1 gennaio 2026 i limiti provvigionali per il calcolo delle indennità in caso di scioglimento del contratto saranno innalzati fino a 18mila euro per gli agenti senza esclusiva e fino a 36mila euro per quelli con esclusiva;
  • l’aggiornamento della normativa sulla gestione delle controversie, prevedendo l’intervento di apposite commissioni sindacali per la composizione delle vertenze tra agente e mandante. Per le controversie sulle indennità di fine rapporto, la conciliazione in sede sindacale potrà essere effettuata esclusivamente dalle associazioni di categoria firmatarie dell’AEC, anche attraverso le Commissioni Paritetiche Territoriali;
  • il riconoscimento al padre Agente di Commercio della facoltà di astenersi dall’attività fino a un massimo di 20 giorni entro cinque mesi dalla nascita o adozione del figlio, escludendo la possibilità per la casa mandante di procedere alla risoluzione del contratto, che resterà comunque sospeso.

Legge 15 maggio 2025, n. 76.

Partecipazione dei lavoratori agli utili d’impresa.

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Il contenuto generato dall'IA potrebbe non essere corretto.È stata pubblicata, nella Gazzetta Ufficiale n. 120 del 26 maggio 2025 la legge n. 76/2025.Si tratta di un provvedimento volto a disciplinare la partecipazione finanziaria, organizzativa e consultiva dei lavoratori alla gestione, all’organizzazione, ai profitti e ai risultati nonché alla proprietà delle aziende. In particolare, oltre ad individuare le modalità di partecipazione gestionale e di distribuzione degli utili, la legge prevede delle forme di incentivo fiscale per i lavoratori dipendenti privati, elevando a 5.000 euro lordi il limite dell’importo complessivo soggetto all’imposta sostitutiva nel caso di distribuzione di una quota degli utili di impresa non inferiore al 10% degli utili complessivi, effettuata in esecuzione di contratti collettivi aziendali o territoriali.

Il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti ha pubblicato, sulla Gazzetta Ufficiale n.125 del 31 maggio 2025, il Decreto 22 aprile 2025, tempi di guida e di riposo, con l’esenzione dall’obbligo di rispetto dei tempi di guida e di riposo nel settore dei trasporti stradali e dall’obbligo di dotazione ed uso dell’apparecchio di controllo.

Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 125 del 31 maggio 2025, il decreto 22 aprile 2025 del Ministero

delle Infrastrutture e dei Trasporti introduce deroghe ed esenzioni, in alcuni specifici settori lavorativi

che comportano l’intensivo utilizzo di automezzi per il trasporto stradale di beni e prodotti, dall’obbligo

di rispetto di limiti ai tempi di guida e di riposo e dall’obbligo di dotazione ed uso di apparecchi di controllo dei tempi e degli itinerari effettuati, previsto dal regolamento (UE) n. 165/2014.

Nello specifico, l’esenzione dal rispetto dei tempi di guida e di riposo e dell’utilizzo del tachigrafo riguarda:

  • i veicoli adibiti a scuola guida per l’ottenimento della patente di guida;
  • i veicoli speciali adibiti al trasporto di denaro o valori;
  • i veicoli utilizzati per il trasporto di animali vivi dalle fattorie ai mercati locali o viceversa, o dai mercati ai macelli locali, entro un raggio fino a 100 chilometri.

In particolare nel settore del trasporto valori, in cui operano dipendenti degli istituti di vigilanza, il decreto concede ai veicoli blindati adibiti al trasporto di denaro deroghe complete rispetto a due aspetti fondamentali della citata normativa europea (tempi di guida e riposo, cronotachigrafo), con il dichiarato obiettivo di potenziare la sicurezza e la rapidità nel servizio, adattando la regolamentazione alle esigenze operative reali del settore e rendendola coerente con la normativa speciale a cui sono soggette le guardie particolari giurate che espletano il servizio (DM 269/2010, Allegato D), che vieta soste intermedie diverse dalla destinazione di ritiro consegna dei valori.

Legge 7 aprile 2025 n. 56, in Gazzetta Ufficiale n. 95 del 24 aprile 2025

Lavoro intermittente: abrogato il regio decreto con l’elenco dei cd. lavori discontinui

Entrata in vigore lo scorso 9 maggio, la legge n. 56/2025 ha disposto l’abrogazione di oltre 30mila atti normativi prerepubblicani, relativi al periodo dal 1861 al 1946.

Tra i provvedimenti abrogati rientra anche il regio decreto n. 2567 del 6 dicembre 1923, che conteneva in allegato la tabella indicante le occupazioni che richiedono un lavoro discontinuo o di semplice attesa o custodia, alle quali non è applicabile la limitazione dell’orario sancita dall’articolo 1

del decreto legge n. 692/1923.

Come disposto dal decreto del Ministero del Lavoro 23 ottobre 2004, la stipulazione di contratti di lavoro intermittente è ammessa con riferimento alle tipologie di attività indicate nella tabella allegata al citato regio decreto, salvo diversa previsione della contrattazione collettiva e in attesa delle determinazioni ivi contemplate.

Pertanto alla luce dell’abrogazione del regio decreto 2657/1923 non può più ritenersi valida la tabella ad esso allegata e, con essa, le relative attività che consentono la stipula del contratto di lavoro intermittente al di fuori delle ipotesi identificate dalla contrattazione collettiva e dei soggetti di cui al comma 2, articolo 13, del decreto legislativo n. 81/2015, ovvero lavoratori con meno di 24 anni di età, purché le prestazioni lavorative siano svolte entro il venticinquesimo anno, e con più di 55 anni.

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la nota n.616 del 3 aprile 2025 anticipo del TFR.

L’INL Ispettorato Nazionale del Lavoro ha recentemente emanato una nota, con la quale ha fornito alcuni chiarimenti in merito alla legittimità della prassi, riscontrata dal personale ispettivo, di anticipo mensile del TFR in busta paga.

Nello specifico, l’Ispettorato, dopo aver ricordato che l’ultimo comma dell’art. 2120 c.c. rimanda alla contrattazione collettiva o ai patti individuali l’introduzione di condizioni di miglior favore relative all’accoglimento delle richieste di anticipazione dell’accantonamento maturato del TFR, evidenzia che ciò non può avere ad oggetto un mero automatico trasferimento in busta paga del rateo mensile che, a questo punto, costituirebbe una mera integrazione retributiva con conseguenti ricadute anche sul piano contributivo.

Tale operazione, peraltro, sembrerebbe contrastare con la stessa ratio dell’istituto del TFR che è quella di assicurare al lavoratore un supporto economico al termine del rapporto di lavoro.

Laddove si ravvisino le descritte ipotesi di anticipazione, il personale ispettivo dovrà intimare al datore di lavoro di accantonare le quote di TFR illegittimamente anticipate

Novita’ GIURISPRUDENZIALI

Corte di cassazione ordinanza n. 15549/2025.

È legittima la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione del lavoratore che, in un unico episodio, abbia rivolto molestie sessuali verbali nei riguardi di una collega sul posto di lavoro, arrecando a quest’ultima un pesante disagio.

Nel caso in questione, il dipendente aveva rivolto in modo intenzionale delle frasi a sfondo sessuale ad una lavoratrice, confermate da altri lavoratori: come conseguenza, l’azienda aveva irrogato contro di lui la sanzione disciplinare della sospensione da lavoro e retribuzione per otto giorni.

Corte di cassazione, sentenza 10 giugno 2025, n. 15513.

Efficacia del licenziamento per G.M.O. nella legge Fornero.

Un dipendente aveva presentato domanda di congedo straordinario biennale per assistere la madre disabile in data 8 febbraio 2019, lo stesso giorno in cui si era conclusa con esito negativo la procedura di tentativo di conciliazione avviata dal datore di lavoro in vista del suo licenziamento per giustificato motivo oggettivo, comunicato a far data dall’8 febbraio con esonero dal preavviso, al lavoratore a mezzo lettera del 9, ricevuta l’11.

Avendo l’INPS respinto la domanda per inesistenza del rapporto di lavoro, cessato il 7, il lavoratore aveva promosso causa al datore, sostenendo che il rapporto era cessato l’11. La cassazione, procedendo ex professo all’interpretazione della norma di cui al comma 41 dell’art. 1 della legge n.

92/12, rileva come alla stregua della stessa occorra distinguere il momento della rilevanza giuridica del licenziamento, stabilito nel giorno della comunicazione iniziale dell’intenzione di recedere, dal momento dell’effetto estintivo del rapporto, che è influenzato dalle eventuali determinazioni del datore di lavoro, relative, come indicato dalla stessa legge, alla concessione di ferie durante la procedura o alla lavorazione del preavviso.

Nel caso in giudizio, emerge dagli atti che il datore aveva collocato il lavoratore in ferie fino alla data del’8 febbraio, alla quale pertanto il rapporto era ancora in essere e la domanda di congedo straordinario era da considerarsi tempestiva.

Corte di cassazione, ordinanza 9 giugno 2025, n. 15326.

Patto di prova e specificità delle mansioni: è sufficiente il richiamo al profilo del CCNL?

Una lavoratrice aveva impugnato il licenziamento per mancato superamento del periodo di prova, sostenendo l’invalidità del patto per difetto di specifica indicazione delle mansioni nel contratto di lavoro. La cassazione, respingendo il ricorso della dipendente avverso il rigetto delle domande, ribadisce i principi elaborati nella materia, osservando che: il patto di prova è valido solo se contiene la specifica indicazione, anche per relationem, delle mansioni oggetto dell’esperimento; l’indicazione può validamente avvenire anche tramite il rinvio al profilo professionale previsto dal contratto collettivo, purché sufficientemente dettagliato e non limitato alla generica descrizione della categoria; nel caso di specie, la corte d’appello ha ritenuto, in maniera incensurabile in sede di legittimità, che il riferimento al profilo contrattuale fosse specifico, essendo riconducibile a un mansionario preciso e noto alle parti.

Corte di Cassazione, ordinanza 5 giugno 2025 n. 15054.

Il pagamento tardivo della retribuzione non proroga l’obbligo contributivo.

In un giudizio a tre parti, un ex dipendente aveva chiesto al datore il risarcimento danno pensionistico per il mancato versamento dei contributi relativi a un premio di produzione del 2004, da riscuotere nel maggio 2005, ma riconosciutogli solo con sentenza del 2012; mentre il datore aveva chiesto che l’INPS fosse dichiarato obbligato a ricevere i contributi relativi a tale premio, negati dall’ente nel 2013 per pretesa intervenuta prescrizione quinquennale.

La corte, cassando la decisione di merito, che aveva respinto le domande, ribadisce il principio generale secondo cui il sistema di prelievo contributivo fa perno sulla retribuzione dovuta (sistema di competenza) e non su quella corrisposta (sistema di cassa), il che assume rilevanza anche ai fini della prescrizione, nel caso in esame pertanto già maturata al momento dell’offerta di pagamento.

La regola, secondo la Corte, vale anche per i premi di produzione, menzionati, insieme alle gratifiche

annuali, all’art 6 del d. Lgs n.314/1997 come “assoggettati a contribuzione nel mese di corresponsione”, in quanto quest’ultima espressione è stata costantemente interpretata come relativa al mese stabilito dalla legge o dal contratto (quindi sistema di competenza).

Corte di Cassazione, ordinanza 4 giugno 2025, n. 15006.

Senza convalida, provvisoriamente inefficace la risoluzione consensuale del rapporto.

Come è noto, l’art. 4 comma 17 della legge n. 92/2012 (applicabile al tempo dei fatti) subordina l’efficacia delle dimissioni e della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro alla convalida delle stesse secondo le forme stabilite nei commi successivi.

Nel giudizio in cui una giornalista aveva sostenuto l’attualità del proprio rapporto di lavoro con una

società, i giudici di merito avevano respinto la domanda, ritenendo ormai intervenuta la risoluzione consensuale tacita del rapporto, non impedita dalle norme indicate, che, in particolare, al comma 22 non menzionano la risoluzione consensuale.

La cassazione cassa con rinvio la sentenza d’appello, osservando che la risoluzione consensuale del contratto di lavoro può avvenire anche in forma tacita, con comportamenti concludenti, salvo che una norma richieda espressamente la forma scritta ad substantiam; tuttavia, l’art. 4, co. 17-22, L. 92/12 ha introdotto specifiche formalità per l’efficacia sia delle dimissioni che delle risoluzioni consensuali; è vero che il co. 22 citato dalla corte d’appello disciplina la perdita definitiva di efficacia delle sole dimissioni non convalidate, ma ciò non esclude che, secondo i commi precedenti, anche l’efficacia della risoluzione consensuale sia subordinata alle procedure di convalida. Deve pertanto concludersi che in mancanza di convalida, l’accordo di risoluzione pur perfezionato tra le parti non produce effetti immediati, ma si trova in una fase temporanea di quiescenza, in attesa della necessaria formalizzazione della convalida; l’errore dei giudici di merito consiste dunque nell’aver escluso tale effetto sospensivo.

Tribunale di Pisa sentenza n. 192/2025.

Risarcimento del danno anche in assenza di mobbing. Il datore di lavoro deve impedire che si crei un ambiente stressogeno per i dipendenti.

In tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, anche nel caso in cui non sia configurabile una condotta di mobbing per l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo

In tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, anche nel caso in cui non sia configurabile una condotta di mobbing per l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo

a unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, è ravvisabile la violazione dell’art. 2087 c.c. nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno, fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti anche non illegittimi in sé, ma tali da poter generare disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti. il

La controversia traeva origine dalla domanda di una lavoratrice volta ad ottenere l’accertamento della nullità del proprio contratto di apprendistato, per non aver svolto la necessaria attività formativa, nonché finalizzata ad accertare l’illegittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto: l’assenza per malattia, secondo la ricostruzione offerta dalla prestatrice di lavoro, doveva ritenersi imputabile alla responsabilità del datore il quale, con la sua condotta, aveva generato un disturbo dell’ansia nella dipendente. Veniva chiesto, infine, che la condotta datoriale venisse ricondotta alla fattispecie di mobbing, con conseguente condanna al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti.

Ebbene, con riferimento al primo aspetto, il Tribunale di Pisa, dopo aver riepilogato i principi in materia di apprendistato fatti propri dalla più recente giurisprudenza di legittimità e di merito, statuisce come l’onere probatorio inerente all’effettivo svolgimento di un percorso formativo funzionale al conseguimento delle competenze professionali proprie della qualifica finale incomba sul datore di lavoro. Nel caso di specie, una tale prova non veniva fornita, non essendo stata prodotta alcuna documentazione volta ad attestare i contenuti della formazione impartita, con conseguente nullità dell’apprendistato e conversione dello stesso ab origine in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Invece, con riferimento ai comportamenti asseritamente lesivi posti in essere ai danni della

lavoratrice, emergeva dall’istruttoria come il datore avesse manifestato un atteggiamento effettivamente ostile. Ad esempio, dalle chat di WhatsApp spiccavano le seguenti frasi, scritte dal datore e trasmesse alla lavoratrice: “mi stai antipatica da sempre, sei entrata per tua madre e se c’era anche lei per te e basta”, oppure “t’ho detto che ti devo far litigare con tua mamma, ma arrivando a un certo punto, per arrivare a sti livelli che siete”.

E ancora, il datore scriveva: “sei proprio simpatica. Al primo sbaglio sei fuori. Da oggi in poi se fai quattro ore va bene” e anche “io a tempo indeterminato non ti ci passerò mai, a costo che morirò”. Il giudice Pisano, a fronte di queste invettive mosse dal datore, rileva come, ad emergere, sia un

atteggiamento sicuramente astioso nei confronti della lavoratrice, non sufficiente, però, ad integrare la fattispecie di mobbing. In tal senso, chiarisce il Tribunale, non è sufficiente l’accertata esistenza di plurime condotte datoriali illegittime, essendo invece necessario l’accertamento di una reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso il lavoratore e preordinati alla sua mortificazione e isolamento lavorativo.

Secondo il giudice di merito, la lavoratrice, nel caso in esame, non aveva provato che i comportamenti

del datore fossero il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione, non sussistendo, da parte di quest’ultimo, “un’intenzione psicologica di arrecare un danno alla lavoratrice quanto, piuttosto, un’antipatia e un atteggiamento pubblicamente ostile”. Tuttavia, come sopra accennato, pur non ritenendo integrata la fattispecie del mobbing, il giudice di Pisa rileva come, comunque, sia ravvisabile una violazione dell’art. 2087 c.c., avendo, il datore di lavoro, consentito il mantenersi di un ambiente stressogeno, fonte di danno alla salute della lavoratrice. Il datore sarebbe cioè venuto meno all’obbligo di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale della dipendente.

Tribunale di Verona, 22 maggio 2025.

Le Stock Options previste dal contratto di lavoro sono retribuzione a tutti gli effetti.

Il Tribunale ha accolto integralmente il ricorso presentato da un dirigente contro la ex datrice di lavoro, riconoscendo l’inadempimento contrattuale da parte della società in merito all’assegnazione di 395 azioni, previste come parte della retribuzione nell’ambito di un piano di incentivazione a lungo termine. Le azioni, inizialmente accreditate su un conto titoli del dirigente presso una piattaforma statunitense, erano state rimosse senza il suo consenso a seguito di istruzioni impartite dal legale della società. Accertata la natura retributiva dell’incentivo sulla base, tra gli altri, del fatto che il piano fosse inserito nel contratto di lavoro e che i prospetti paga mostravano come il valore delle azioni fosse stato assoggettato a ritenuta fiscale da parte del datore, il Giudice ha ordinato il deposito delle azioni sul conto del ricorrente e l’adempimento dei relativi obblighi fiscali.

Corte di cassazione, ordinanza 22 maggio 2025, n. 13748.

Sui parametri di valutazione della giusta causa in un caso di molestie nel lavoro.

Giudicando del licenziamento per giusta causa di una dipendente, accusata di molestie nei confronti di un collega, ripetutamente apostrofato sul luogo di lavoro e alla presenza di altri dipendenti con frasi a sfondo sessuale e oggetto di attenzioni indesiderate, la Corte d’appello, pur ritenendo provati i fatti, aveva ritenuto non sussistente la giusta causa, per sproporzione, in assenza di precedenti disciplinari e di significativi danni all’azienda.

La Corte cassa con rinvio la sentenza, censurandola per avere, nell’applicazione dei parametri valutativi della giusta causa, omesso la necessaria integrazione della generica indicazione codicistica con elementi conformi a valori anche costituzionali dell’ordinamento, quali la dignità umana, la parità di genere, l’importanza fondamentale del lavoro per la crescita personale e sociale nonché, sul piano soggettivo, la piena consapevolezza, il dolo specifico etc.; valori rispetto ai quali sono certamente recessivi parametri quali la mancanza di precedenti disciplinari o di danni organizzativi.

Tribunale di Roma, 21 maggio 2025.

Trasferimento d’azienda in cambio appalto “labour intensive” e diritto al precedente inquadramento del lavoratore.

Nel contesto di un cambio di appalto si configura un ai sensi dell’art. 2112 c.c. qualora il passaggio dei lavoratori non determini una significativa

discontinuità dell’impresa. In particolare, l’assenza di beni materiali trasferiti non è decisiva per

escludere il trasferimento d’azienda, poiché l’identità dell’impresa è integrata quando viene essenzialmente conservato il complesso dei beni materiali e immateriali comprensivi del personale e delle sue competenze necessari e imprescindibili all’esercizio dell’attività.

Dall’inquadramento del passaggio di appalto come trasferimento d’azienda discende il diritto del lavoratore al mantenimento delle condizioni economiche e normative precedentemente riconosciute dall’impresa uscente, motivo per cui il giudice capitolino ha riconosciuto il diritto del ricorrente al livello di inquadramento precedentemente attribuitogli.

Corte di cassazione, sentenza 21 maggio 2025, n. 13558.

Naspi: ai fini del requisito delle 30 giornate vale anche il lavoro “non svolto” ma retribuito.

Come è noto, ai fini della concessione dell’indennità di disoccupazione Naspi, il D.Lgs. n. 22/2015 richiede, tra l’altro, il requisito di “30 giornate di lavoro effettivo” nei 12 mesi precedenti la disoccupazione dell’interessato.

Sorto in un giudizio il problema dell’interpretazione di tale requisito, la cassazione chiarisce che ai fini indicati, le “30 giornate di lavoro effettivo” sono integrate anche da quelle di ferie o riposi retribuiti e da ogni altra giornata che dia luogo al diritto del dipendente alla retribuzione e al pagamento dei contributi. Diversa è la regola in caso di sospensione legale del rapporto di lavoro comportante l’interruzione delle reciproche obbligazioni principali come in presenza di maternità, malattia, cassa integrazione o contratti di solidarietà a zero ore: in queste circostanze, il lavoro non può considerarsi “effettivo”. Tale sospensione, tuttavia, non penalizza il lavoratore: si applica infatti il principio della neutralizzazione, in forza del quale i periodi di sospensione per cause tutelate dalla legge sono esclusi dal computo dei dodici mesi utili per individuare le 30 giornate di lavoro effettivo.

Corte di cassazione, sentenza 20 maggio 2025, n. 13525.

L’anticipazione del TFR non può essere mensile e priva di causale.

Nel giudizio in cui una società aveva contestato la pretesa dell’Inps di assoggettare a contribuzione l’anticipo del T.F.R. Corrisposto mensilmente ai propri dipendenti, la cassazione afferma che: il meccanismo legale dell’anticipazione del T.F.R., delineato dall’art. 2120 c.c., è fondato su determinati precisi presupposti (una tantum, causale specifica, tetto del 70%, otto anni di anzianità etc.).

Modificabili dall’autonomia privata a vantaggio dei dipendenti in limiti compatibili con la portata eccezionale dell’istituto (es. Prevedendo causali aggiuntive o importi superiori), senza sovvertire la struttura stessa dell’anticipazione; l’erogazione mensile e continuativa del T.F.R., priva di causale, svuota la funzione dell’anticipazione e si pone in contrasto con il principio dell’accantonamento progressivo; per effetto di tale distorsione, le somme così corrisposte non possono considerarsi anticipazioni in senso tecnico, ma retribuzione ordinaria soggetta a contribuzione previdenziale.

Tribunale di Roma, 15 maggio 2025.

La critica anche severa tra sindacati non è diffamazione: rigettato il ricorso presentato dalla Cisal per un volantino in cui si criticava il contratto pirata.

Il Tribunale rigetta il ricorso d’urgenza presentato contro la SLCCGIL Roma e Lazio, con cui la Cisal Comunicazione aveva chiesto di ingiungere la rimozione immediata di un volantino intitolato “Quei bravi ragazzi, ovvero contratto pirata Cisal per i call center” e di inibire future diffusioni di comunicati analoghi, sostenendone la natura gravemente diffamatoria per l’assimilazione dell’associazione a contesti malavitosi e denigratoria dell’accordo da essa sottoscritto. L’ordinanza sottolinea come nel caso la critica sindacale, anche se aspra, non abbia travalicato i limiti della legittima manifestazione del dissenso: il testo del volantino si limitava a esprimere una ferma disapprovazione sul contratto collettivo sottoscritto dalla ricorrente, ritenuto iniquo e pregiudizievole per i lavoratori.

Corte di cassazione, sentenza 14 maggio 2025 n.12973.

Maggiorazione contributiva per invalidità anche in aspettativa sindacale.

La legge n. 388/2000 prevede all’art. 80, una maggiorazione contributiva di 2 mesi per ogni anno di servizio (utile ai soli fini dell’anzianità contributiva pensionistica) per i lavoratori sordomuti e per gli altri invalidi in misura superiore al 74%. Sorta in un giudizio la questione dell’applicabilità della

disposizione anche nel caso in cui l’interessato fruisca dell’aspettativa sindacale di cui all’art. 31 L. 300/1970 (in quanto chiamato a ricoprire cariche sindacali provinciali e nazionali), la Cassazione la risolve in senso positivo.

In proposito, rileva che il legislatore attribuisce la maggiorazione contributiva solo in presenza di un servizio effettivamente svolto, pertanto, per il personale indicato, in condizioni di particolare sacrificio. Ma la medesima ratio ricorre nel caso del dipendente in aspettativa per ricoprire cariche sindacali, il quale continua a svolgere attività nella diversa veste sindacale, equiparata al lavoro effettivo dallo Statuto dei lavoratori.

Tribunale di Vicenza, sentenza 13 maggio 2025, n. 251.

Lavoratore esposto a PFAS: accertato l’origine professionale della malattia non tabellata.

Per la prima volta in Italia, riconosce il nesso causale tra l’esposizione lavorativa a sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) e l’insorgenza di una patologia oncologica, accogliendo la domanda degli eredi di un ex dipendente.

Il Tribunale di Vicenza condanna l’INAIL a riconoscere la rendita ai superstiti, aprendo scenari rilevanti sul piano probatorio, medico-legale e della responsabilità previdenziale.

Corte di cassazione, ordinanza 11 maggio 2025 n. 12473.

Disdetta dell’uso aziendale e obbligo di motivazione.

La Corte d’appello aveva respinto le domande di alcuni dipendenti di una società, titolari da tempo di superminimi individuali dichiarati assorbibili, ma di fatto non assorbiti in occasione di successivi numerosi rinnovi contrattuali, i quali lamentavano che, all’ultimo rinnovo, l’impresa avesse proceduto unilateralmente e quindi illegittimamente all’assorbimento.

In proposito, la Corte, pur avendo accertato la formazione di un uso aziendale relativo al non assorbimento dei superminimi, aveva osservato che il relativo impegno per la società non poteva ritenersi eterno e, pertanto, aveva ritenuto legittimo l’atto aziendale di ripristino dell’originaria assorbibilità.La Cassazione annulla la sentenza, affermando che all’uso aziendale, come ad ogni atto avente una durata indeterminata, si applica il principio della recedibilità unilaterale, ma precisando che, per evitare che la disdetta si confonda con l’inadempimento aziendale, essa deve essere giustificata dal sostanziale mutamento di circostanze e va formalizzata in una dichiarazione motivata.

Corte di Cassazione, sentenza 9 maggio 2025, n. 12270.

Ancora sul licenziamento per inidoneità fisica e sull’onere di accomodamenti ragionevoli.

I giudici di merito avevano annullato il licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica di un lavoratore, rilevando l’assenza di un effettivo tentativo aziendale di adottare “accomodamenti ragionevoli” idonei a salvaguardare il posto di lavoro. Il ricorso della società avverso tale decisione è stato respinto dalla Cassazione, che osserva: la nozione di handicap, rilevante ai fini dell’obbligo di adottare adattamenti ragionevoli proviene dal diritto eurounitario e consiste in una situazione patologica duratura fisica, mentale o psichica che, interagendo con barriere ambientali o organizzative, ostacola la piena ed effettiva partecipazione alla vita lavorativa su base di uguaglianza (Direttiva 2000/78/CE); in tali casi, il datore di lavoro, al fine di giustificare il licenziamento, non può limitarsi a provare l’assenza di posti disponibili (come nel repechage tradizionale), ma ha l’onere di dedurre e provare di aver concretamente ricercato soluzioni organizzative ragionevoli, alternative all’ineluttabilità del licenziamento.

Corte di cassazione, ordinanza 7 maggio 2025 n. 12097.

Ragionevoli accomodamenti per il disabile anche nel licenziamento disciplinare.

Nel giudizio di impugnazione del licenziamento disciplinare di un lavoratore disabile che aveva rifiutato il trasferimento di sede, la Corte estende al licenziamento disciplinare (e implicitamente anche al trasferimento) la regola dettata in materia di licenziamento per inidoneità fisica del dipendente portatore di handicap, secondo cui prima di attivare il recesso occorre procedere alla “necessaria attivazione della procedura diretta all’individuazione di possibili accomodamenti ragionevoli” che non comportino oneri finanziari sproporzionati.

Corte di cassazione, ordinanza 7 maggio 2025 n. 12060.

Nullo, durante la maternità, il licenziamento per superamento del comporto.

Come è noto, la legge vieta il licenziamento della lavoratrice durante il periodo che va dall’inizio della gravidanza al compimento di un anno di età del figlio, salvo che ricorra una giusta causa oppure il licenziamento sia causato dalla cessazione dell’azienda o avvenga per scadenza del termine o della prova.

Invocando tale disciplina, una lavoratrice aveva impugnato il licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia intimatole mentre era in gravidanza.

Il suo ricorso viene accolto in tutti i gradi di giudizio, respingendosi il richiamo effettuato dalla società alla diversa disciplina di cui all’art. 2110 cod. civ., la cui disposizione in materia di gravidanza è stata pertanto ritenuta superata dalla successiva specifica normativa riguardante la lavoratrice madre.

Tribunale di Pavia sentenza del 29 aprile 2025.

L’agenzia per il lavoro non è responsabile in solido per i crediti che il lavoratore ha maturato come conseguenza di un inquadramento errato, assegnato dall’impresa utilizzatrice.

Il Tribunale di Pavia ha stabilito che l’agenzia di somministrazione non è responsabile in solido per le differenze retributive derivanti da mansioni superiori svolte dal lavoratore, se queste sono state assegnate dall’impresa utilizzatrice. In pratica, se un’azienda utilizza un lavoratore in una posizione superiore a quella per cui è stato contrattualmente assunto, ma non provvede ad adeguare la sua retribuzione, il lavoratore non potrà rivalersi sull’agenzia di somministrazione per ottenere le differenze retributive. La sentenza sottolinea che la responsabilità della corretta inquadratura e retribuzione del lavoratore, anche in caso di mansioni superiori, ricade sull’impresa utilizzatrice e non sull’agenzia di somministrazione.

Corte d’Appello di Milano, Sez. Lav., sentenza 24 aprile 2025, n. 302.

Dati sensibili usati per fini personali: scatta il licenziamento per giusta causa.

La Corte d’appello di Milano conferma la sentenza del Giudice di prime cure quanto alla legittimità del licenziamento per giusta causa comminato ad un dipendente, addetto allo smistamento della posta interna aziendale che, approfittando del proprio ruolo, si era appropriato del numero di telefono indicato nel curriculum vitae di una candidata per contattarla per scopi del tutto estranei all’attività lavorativa.

Tribunale di Napoli, 8 aprile 2025.

È nullo il licenziamento intimato per il presunto superamento del comporto, quando alcune assenze non erano computabili.

Il Tribunale ha ritenuto non condivisibile quanto sostenuto dal datore di lavoro, secondo cui la genericità dei certificati medici non avrebbe reso conoscibili le condizioni di salute del lavoratore. Smentita tale tesi dalla documentazione agli atti, è stato precisato che ai fini del godimento del comporto non rileva tanto la comunicazione dettagliata della natura della patologia, quanto l’obiettivo stato di salute. Il Giudice ha verificato che tra le assenze non computabili rientravano quelle causate da ricoveri ospedalieri e day hospital, per le quali non grava sul dipendente alcun onere di comunicazione specifica. Il licenziamento è stato ritenuto nullo, pur se ricondotto ai sensi dell’art. 18, 4 comma, Stat. Lav., al regime della reintegrazione attenuata.

Tribunale di Trento, sentenza 1 aprile 2025, n. 47.

Tempo tuta e obblighi datoriali: quando il tempo non è denaro.

Il Tribunale del Lavoro di Trento si esprime in merito alla retribuibilità del tempo speso dal lavoratore per vestizione svestizione della divisa, DPI, passaggi di consegne e doccia post-turno.

Il giudice nega la natura di orario di lavoro al tempo tuta e alla doccia, accogliendo solo parzialmente le richieste relative ai DPI, escludendole tuttavia per l’irrilevanza temporale. Centrali nella decisione le nozioni di “eterodirezione” e la definizione normativa ed euro unitaria di “orario di lavoro”.

Tribunale di Roma, 20 marzo 2025.

La contestazione disciplinare deve indicare il motivo per cui i fatti indicati sono considerati disciplinarmente rilevanti, pena la nullità della successiva sanzione.

Il Tribunale capitolino annulla la sanzione disciplinare inflitta a una docente dal Ministero dell’Istruzione, evidenziando come nella contestazione degli addebiti la condotta ascritta alla lavoratrice non fosse in alcun modo qualificata come violazione di alcuna norma o dovere della dipendente.

Alla mancata specificazione degli addebiti si è aggiunta la totale omissione di motivazione, non compensabile con i richiami normativi effettuati successivamente nel provvedimento sanzionatorio.

Corte di cassazione sentenza n. 6874/2025.

Nullità del licenziamento e periodo di comporto.

L’azienda, pur a fronte del superamento del relativo periodo di comporto, concluso il periodo di assenza per malattia aveva riammesso il lavoratore in servizio, per più mesi, tra le altre cose assegnandolo a diverse mansioni; il lavoratore, successivamente, ricadeva però in malattia e, così risperando per sommatoria il relativo periodo di comporto come previsto dal CCNL applicato, veniva licenziato.

Ebbene, la Corte di cassazione ha dichiarato nullo il licenziamento in questione sostenendo che l’azienda, avendo riammesso in servizio il lavoratore ed essendosi impegnata nel reperire soluzioni organizzative per impiegare utilmente lo stesso nel contesto aziendale, avrebbe ingenerato nel lavoratore una legittima aspettativa circa il prolungamento del rapporto e quindi palesato una rinuncia a far valere il superamento del periodo di comporto.

Ma, soprattutto considerato il generarsi di tale affidamento, la Corte di cassazione ha stabilito che i giorni di malattia successivi alla ripresa lavorativa sono privi di rilevanza, dovendo così il calcolo del periodo di comporto ripartire “da zero” una volta che l’azienda abbia nei fatti “rinunciato” a far valere il superamento del precedente periodo di comporto.

Una rondine non fa primavera”, certo, ma è indubbio che questa sentenza, se collocata nell’ambito di un più ampio e recente filone (ad esempio Cass. n. 9095/2023, la quale, in breve, aveva ravvisato profili discriminatori nella previsione di un periodo di conservazione del posto uguale per lavoratori con disabilità e non), contribuisce a rendere i licenziamenti per comporto una tematica sempre più delicata.

NEWSLETTER 6/2025

Novita’ normative

Dimissioni per fatti concludenti – Modello di comunicazione all’ITL.

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha emanato la nota prot. n. 3984 del 29 aprile 2025, con la quale, tenendo conto delle indicazioni fornite dal Ministero del Lavoro con la circolare n. 6 del 27 marzo 2025, aggiorna il modello di comunicazione all’Ispettorato Territoriale del Lavoro, riguardante l’informativa circa l’assenza ingiustificata commessa dal lavoratore, prevista dall’articolo 26, comma 7-bis, del decreto legislativo n. 151/2015, introdotto dall’articolo 19 della Legge n. 203/2024.

Donazione sangue – Rimborso ai datori di lavoro del settore privato | ADLABOR.

L’INPS, con la circolare n. 96 del 26 maggio 2025, fornisce indicazioni per il rimborso ai datori di lavoro privati delle retribuzioni corrisposte per le giornate o le ore di riposo fruite dai lavoratori dipendenti donatori di sangue o giudicati non idonei alla donazione stessa.

Il datore di lavoro, entro e non oltre il mese successivo a quello in cui il lavoratore ha donato il sangue, o è risultato non idoneo alla donazione, può ottenere il rimborso dell’importo della retribuzione pagata direttamente al lavoratore, avendo cura di conservare per dieci anni la seguente documentazione:

•        certificati medici e dichiarazioni dei donatori per i lavoratori che hanno effettuato la donazione di sangue;

•        certificati di inidoneità per i lavoratori giudicati inidonei alla donazione di sangue.

La normativa prevede che i datori di lavoro che anticipano le retribuzioni ai donatori di sangue possono procedere al conguaglio con i contributi o altre somme dovute all’INPS.

A tale fine, il datore di lavoro deve compilare il flusso UNIEMENS, specificando i dati informativi relativi alla tipologia di assenza intervenuta nel mese in cui si verifica l’evento, nonché quelli specificamente riferiti al conguaglio della retribuzione anticipata.

Classificazione e tutele del lavoro dei ciclo-fattorini delle piattaforme digitali: i chiarimenti del Ministro del Lavoro.

Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, circolare n. 9 del 18 aprile 2025.

In attesa del recepimento, entro il 2 dicembre 2026, della recente Direttiva (UE) 2024/2831 il

Ministero del Lavoro con la circolare n. 9/2025 esamina le modalità di svolgimento delle prestazioni rese dai ciclo-fattorini delle piattaforme digitali fornendo alcune indicazioni che, a legislazione vigente, possano risultare utili per una ricognizione quanto più possibile puntuale delle effettive modalità attraverso le quali è resa l’attività lavorativa nel settore.

Si evidenzia in particolare la necessità di garantire, in ogni caso, un adeguato contenuto di tutela per il lavoro dei riders, a prescindere dalla tipologia contrattuale (lavoro autonomo, subordinato e parasubordinato) impiegata, nella consapevolezza della insufficienza dei tentativi di esclusiva riconduzione forzosa al rapporto di lavoro subordinato.

Datori di lavoro, formazione obbligatoria in materia di salute e sicurezza.

Viene finalmente introdotto anche per i datori di lavoro l’obbligo di formazione in materia di salute e sicurezza, per una durata di almeno sedici ore. Lo prevede l’accordo sottoscritto il 17 aprile dalla Conferenza permanente per i rapporti tra Stato, Regioni e Province autonome di Trento e di Bolzano che ha recepito le importanti modifiche all’art. 37 del Testo unico salute e sicurezza sui luoghi di lavoro in materia di formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti, previste dal decreto-legge n. 146/2021.

Secondo quanto stabilito dal decreto, la Conferenza Stato-Regioni-Province autonome avrebbe dovuto adottare l’accordo entro il 30 giugno 2022, per provvedere, tra l’altro, all’accorpamento, alla rivisitazione e alla modifica degli accordi attuativi del D.Lgs n. 81/2008 in materia di formazione, in modo da garantire l’individuazione della durata, dei contenuti minimi della formazione obbligatoria a carico del datore di lavoro, nonché l’individuazione delle modalità della verifica finale di apprendimento dei discenti di tutti i percorsi formativi e di aggiornamento obbligatori in materia di salute e sicurezza e relative verifiche.

Erogazione mensile del TFR in busta paga: inammissibile per l’Ispettorato del Lavoro.

Nel chiarimento fornito con la nota n. 616/2025 l’Ispettorato Nazionale del Lavoro affronta la controversa questione della possibilità di erogare il TFR mensilmente in busta paga a titolo di anticipazione, molto frequente nell’ambito del lavoro a tempo determinato e stagionale.

L’INL ritiene che la pattuizione collettiva o individuale possa avere ad oggetto una mera anticipazione dell’accantonamento maturato al momento della pattuizione, ma non un automatico trasferimento in busta paga del rateo mensile di TFR: questa operazione contrasterebbe infatti con la ratio dell’istituto, ovvero assicurare al lavoratore un supporto economico al termine del rapporto di lavoro.

Il pagamento mensile del rateo di TFR maturato finirebbe per costituire, oltretutto, una integrazione alla normale retribuzione, con conseguenti ricadute sul piano sia contributivo che fiscale. Il trattamento di fine rapporto è difatti, per definizione, un elemento retributivo differito costituito dagli accantonamenti effettuati annualmente e dalla rivalutazione periodica calcolata sugli importi già accantonati. Proprio per questo motivo, al momento della sua liquidazione, non è soggetto a contribuzione previdenziale e tassazione ordinaria, ma solamente a tassazione separata.

Pertanto, nel caso in cui il personale ispettivo dovesse ravvisare irregolarità, dovrà intimare al datore di lavoro di accantonare le quote di TFR illegittimamente anticipate.

Novita’ GIURISPRUDENZIALI

Corte di cassazione ordinanza n. 7825/2025.

Afferma che il licenziamento di un lavoratore per aver utilizzato il computer aziendale per scopi privati è illegittimo se non sussiste una condotta di particolare gravità.

L’uso improprio dello strumento di lavoro non giustifica il recesso se non c’è un intento lesivo verso l’azienda. La decisione deve basarsi su alcuni criteri come la limitata entità delle violazioni e l’assenza di un danno concreto o di un pregiudizio per il datore.

Corte di Cassazione, ordinanza 23 aprile 2025, n. 10648.

La reperibilità con pernottamento in azienda costituisce “orario di lavoro” da retribuire adeguatamente.

La Corte cassa la sentenza dei giudici dell’appello che avevano respinto la domanda di pagamento di ore di straordinario notturno svolte dal ricorrente in regime di reperibilità con pernottamento in azienda, ritenendo applicabile la norma collettiva che prevedeva al riguardo un’indennità mensile di poche decine di euro. Accogliendo il ricorso del lavoratore, la Corte osserva che: in base alla normativa UE (Direttiva 2003/88/CE) e alla giurisprudenza della Corte di giustizia, il tempo di reperibilità con obbligo di presenza fisica presso il luogo di lavoro è da considerare a tutti gli effetti orario di lavoro, pertanto da retribuire, anche se non implichi attività lavorativa effettiva, pur non derivandone automaticamente il diritto alla retribuzione prevista per il lavoro straordinario, il trattamento economico per tali periodi deve rispettare i principi di proporzionalità e sufficienza sanciti dall’art. 36 Cost., con possibile non applicazione della diversa disciplina nazionale di legge o collettiva.

Corte di cassazione, ordinanza interlocutoria, 12 maggio 2025, n. 12572.

Rinvio pregiudiziale alla Corte UE sulle tutele anti-abusi nei contratti a termine del settore agricolo.

La vicenda trae origine dai ricorsi di due operai utilizzati per anni con una pluralità di contratti a termine dalla medesima azienda agricola. Le loro domande di conversione in rapporti a tempo indeterminato erano state respinte dalla Corte d’appello, secondo cui l’esclusione del lavoro agricolo a termine dalla disciplina generale sul contratto a tempo determinato (art. 10, co. 2, d.lgs. 368/01, oggi art. 29, co. 1, lett. b, d.lgs. 81/15), sarebbe compensata da una norma di fonte collettiva (art. 20 CCNL operai agricoli) che, riconoscendo il diritto alla trasformazione per chi abbia prestato almeno 180 giornate di lavoro effettivo in 12 mesi, garantirebbe un adeguato presidio contro gli abusi nella successione dei contratti a tempo determinato. La Cassazione dubita tuttavia della conformità di tale assetto con la clausola 5 dell’Accordo quadro europeo, che impone agli Stati membri l’adozione di misure efficaci e vincolanti per prevenire l’abuso dei contratti a termine e, all’esito di un’analitica ricostruzione della normativa e della prassi nazionale ed eurounitaria, chiede l’intervento della Corte di Giustizia UE al fine di chiarire (i) se la clausola 5 osta all’esclusione, disposta dal diritto nazionale, dei rapporti di lavoro tra datori agricoli e operai a termine dall’ambito di applicazione delle norme generali sul contratto a termine attuative della direttiva; (ii) se la misura prevista dal CCNL (trasformazione automatica al superamento delle 180 giornate, esercitabile entro sei mesi) possa considerarsi equivalente, alla luce delle peculiarità del settore, alle garanzie richieste dalla direttiva.

Garante per la Protezione dei dati personali, provvedimento n. 135.

Illegittimo geolocalizzare i dipendenti in smart working

Con provvedimento n. 135/2025 il Garante della Privacy ha irrogato una sanzione di 50.000 euro a un ente che si è avvalso di una app per accedere alla posizione geografica dei dipendenti nelle giornate di lavoro agile. Nel caso valutato il personale veniva scelto a campione e contattato telefonicamente con la richiesta di attivare il sistema di geolocalizzazione mediante la timbratura in entrata e in uscita e con ulteriore richiesta di inviare al responsabile in azienda una e-mail con indicato il luogo in cui si trovava in quel preciso momento. A seguito di verifiche, se avesse riscontrato un’incongruenza nei dati, l’ente avrebbe dato impulso a un’azione disciplinare. Da una di queste ha avuto origine la decisione di una dipendente di presentare reclamo.

Il Garante ha ritenuto sanzionabile questa condotta, stabilendo che il datore di lavoro che utilizza il sistema di geolocalizzazione per identificare la posizione dei dipendenti che svolgono lavoro agile si espone alla violazione dell’articolo 4 della legge n. 300/1970, perché anche nei giorni di smart working l’impiego di strumenti elettronici dai quali possa derivare il controllo a distanza dell’attività lavorativa presuppone una specifica finalità (tutela del patrimonio aziendale, ragioni

di sicurezza, etc.). A parere del Garante l’esigenza di geolocalizzare i lavoratori durante la fascia

di reperibilità, consentendo in tal modo di verificare che il luogo di svolgimento della prestazione da remoto coincida con una delle sedi previste nell’accordo individuale di smart working, esula da queste finalità e costituisce quindi un controllo vietato.

Il provvedimento pone inoltre un tema centrale rispetto alla protezione dei dati personali, perché il monitoraggio realizzato attraverso l’applicazione sullo smartphone o notebook in uso ai dipendenti costituisce un trattamento sprovvisto di idonea base giuridica, ponendosi in contrasto con i principi di liceità, correttezza e trasparenza alla base del regolamento Ue 2016/679.

In questo ambito è irrilevante che sia stato raggiunto un accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, perché l’uso datoriale dell’applicazione che geolocalizza i lavoratori in smart working costituisce un trattamento finalizzato a controllare direttamente l’attività lavorativa, in evidente contrasto con il principio di limitazione della finalità previsto dal regolamento stesso. Il Garante inoltre sottolinea che il lavoro agile presenta margini di libertà nello sviluppo della vita privata superiori rispetto al tradizionale svolgimento della prestazione lavorativa in presenza: in quest’ottica l’utilizzo della geolocalizzazione per verificare la posizione dei dipendenti può comportare “una disparità di trattamento a svantaggio dei soli dipendenti che fruiscono del lavoro agile”. È altrettanto irrilevante che l’applicazione richieda il consenso ai lavoratori per poter accedere alla loro posizione, perché esso non costituisce, in tale contesto, un valido presupposto di liceità per il trattamento dei dati personali.

Corte d’Appello di Milano, 24 aprile 2025.

l lavoratore non può utilizzare i dati di cui viene in possesso nell’esercizio delle sue mansioni per fini diversi da quelli richiesti dal datore.

Il dipendente non può utilizzare i dati personali di terzi acquisiti durante lo svolgimento delle proprie mansioni per finalità diverse da quelle aziendali, ad esempio per fini personali. L’utilizzo improprio dei dati, secondo la Corte, viola infatti gli obblighi di diligenza e fedeltà del dipendente, compromettendo il vincolo fiduciario con il datore di lavoro. Nella valutazione della proporzionalità del licenziamento devono essere considerate la gravità oggettiva e soggettiva del fatto, le mansioni svolte, il grado di fiducia richiesto, e l’impatto sull’immagine e sulla reputazione aziendale. Nel caso di specie, riguardante il caso di un dipendente che aveva estratto i dati di una candidata dal curriculum inviato da quest’ultima al fine di contattarla per scopi personali, il Collegio ha confermato la legittimità del licenziamento.

Corte di cassazione, ordinanza 15 aprile 2025, n. 9831.

Non si interrompe il comporto se il dipendente non è in malattia quando chiede le ferie.

Una dipendente, rientrata in servizio da un lungo periodo di malattia, aveva chiesto alcuni giorni di ferie, negati dal datore, cadendo successivamente di nuovo in malattia nei giorni per i quali aveva inutilmente chiesto le ferie. Impugnando il successivo licenziamento per superamento del periodo di comporto, maturato proprio per effetto di quei giorni di ferie negate, la lavoratrice aveva contestato il rifiuto delle ferie e sostenuto l’avvenuta conversione della malattia di quei giorni in ferie, con la conseguenza del mancato superamento del comporto. La Cassazione, confermando la decisione di merito – che aveva ritenuto giustificato il rifiuto delle ferie e computabile la malattia in questione nel comporto –, precisa che: la conversione dell’assenza da malattia a ferie (o viceversa) richiede l’effettiva presenza dello stato di  malattia al momento della richiesta; quest’ultima non può quindi avvenire prima, quando non vi è malattia, o dopo, a comporto ormai superato, nel tentativo di imputare retroattivamente l’assenza a ferie il datore di lavoro può legittimamente negare la fruizione delle ferie in presenza di esigenze organizzative ostative concrete ed effettive, tenuto anche conto degli interessi del dipendente.

Corte di cassazione, sentenza 11 aprile 2025 n. 9544.

Un altro passo avanti della tutela reintegratoria: si applica anche in caso di radicale assenza di motivazione del licenziamento.

Avendo accertato l’esistenza tra le parti di un rapporto di co.co.co. dal 2014, cessato su iniziativa del committente, la Corte d’appello, applicando l’art. 69 D. Lgs. n. 276(2003), aveva dichiarato la conversione del contratto, in quanto privo di progetto, in lavoro subordinato e dichiarato inefficace il licenziamento, perché senza motivazione, applicando la tutela indennitaria stabilita dal 6* comma art. 18 S.L. (come modificato dalla legge Fornero). Cassando la sentenza dei giudici dell’appello, la Corte, nel caso di imprese con più di 15 dipendenti, distingue, per ragioni di coerenza di sistema, dalla mancanza di specificazione di motivi comunque addotti, che dà luogo alla tutela indennitaria di cui al comma 6*, l’ipotesi in cui manchi del tutto o sia assolutamente generica tale indicazione, alla quale, come e a maggior ragione del caso di insussistenza del fatto contestato o costituente motivo oggettivo di licenziamento, va applicata la tutela reintegratoria con indennizzo c.d. minore.

Corte di cassazione, ordinanza 8 aprile 2025 n. 9257.

Diniego di originale e contestazione di conformità della copia di un documento prodotta in giudizio.

Nella causa per risarcimento danni promossa da una società nei confronti di due ex dipendenti per violazione dell’obbligo di fedeltà, il motivo di ricorso per cassazione di questi ultimi di nullità della sentenza di appello per aver ritenuto prova legale riproduzioni meccaniche oggetto di disconoscimento, senza effettuare gli accertamenti tecnici richiesti in questo caso -, dà modo alla Corte di ribadire la distinzione tra contestazione dell’esistenza stessa di un documento, che richiede necessariamente la querela di falso, proponibile anche avverso la copia prodotta in giudizio e disconoscimento di conformità all’originale, che attiene invece al contenuto del documento prodotto in copia, la cui non conformità all’originale può essere accertata dal giudice anche attraverso testimonianze o addirittura mediante presunzioni, come correttamente avvenuto nel caso esaminato, in assenza di una querela di falso.

Tribunale di Milano, 4 febbraio 2025.

Un caso di dequalificazione alla luce dell’art. 2103 c.c. come modificato nel 2015: risarcimento del danno.

Una sentenza ben motivata che ripercorre il quadro dei limiti all’esercizio da parte del datore di lavoro del potere di modifica delle mansioni del lavoratore, col passaggio, a seguito della riforma del 2015, dalla tutela dinamica professionale alla tutela statica nell’ambito della categoria di appartenenza. Affermato l’onere in capo al datore di lavoro della prova della legittimità delle nuove mansioni, il Tribunale a seguito di istruttoria riconosce il carattere dequalificante del ruolo assegnato da anni al ricorrente: ritenuto il diritto al ripristino di mansioni in linea con l’inquadramento del lavoratore, la Società è condannata al risarcimento del danno alla professionalità, basato su presunzioni e per il quale non osta il fatto che per lungo tempo il lavoratore non abbia contestato la dequalificazione, condotta che dato il carattere imperativo dell’art. 2103 (con la previsione della nullità di patti contrari) non può essere considerata di acquiescenza.

NEWSLETTER PRIVACY MAGGIO 2025

1 maggio 2025
 
Privacy e rettifica dati sull’identità di genere: no alla prova dell’operazione chirurgica
La Corte Ue di Giustizia Ue ha innanzitutto ricordato l’importanza del “principio di esattezza” previsto dall’art. 5, par. 1, lett. d) del GDPR, secondo cui l’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento, senza ingiustificato ritardo, la rettifica dei dati personali che lo riguardano se questi sono inesatti. In questo modo il Regolamento Privacy concretizza il diritto fondamentale, sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, secondo il quale ogni persona ha il diritto di accedere ai dati raccolti che la riguardano e di ottenerne la rettifica. A tal riguardo, la Corte Ue ricorda che secondo la giurisprudenza il carattere esatto e completo dei dati personali deve essere valutato alla luce della finalità per la quale essi sono stati raccolti.  Riguardo al caso di specie, la Corte ribadisce che l’informazione relativa all’identità di genere può essere qualificata come «dato personale», in quanto si riferisce a una persona fisica identificata o identificabile e oggetto di un «trattamento», perché è stato raccolto e registrato dall’autorità competente. Di conseguenza, il trattamento, che verte su dati contenuti o destinati a figurare in un archivio, rientra nell’ambito di applicazione ratione materiae del GDPR. Pertanto, la Corte Ue ribadisce che spetta al giudice ungherese verificare l’esattezza del dato alla luce della finalità per la quale esso è stato raccolto. Se la raccolta di tale dato aveva lo scopo di identificare la persona interessata, sembrerebbe riguardare l’identità di genere vissuta da tale persona, e non quella che le sarebbe stata assegnata alla nascita.    La rettifica dei dati relativi all’identità di genere non può essere subordinata alla prova di un trattamento chirurgico di riassegnazione del sesso. Lo ha sancito la Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza del 13 marzo 2025 (C-247/23): tale pronuncia rappresenta un importante precedente sulla tematica della transidentità, in quanto i giudici di Lussemburgo riconoscono il diritto alla rettifica dei dati personali, affermando che uno Stato membro non possa invocare l’assenza, nel proprio diritto nazionale, di una procedura di riconoscimento giuridico della transidentità per ostacolare l’esercizio di tale diritto.   In definitiva, quindi, e più precisamente, per la rettifica dei dati personali relativi all’identità di genere di una persona fisica, contenuti in un registro pubblico, se da un lato uno Stato membro può imporre alla persona di fornire gli elementi di prova pertinenti e sufficienti che si possono ragionevolmente richiedere per dimostrare l’inesattezza di questi dati, dall’altro lato però, esso non può in alcun caso subordinare, mediante una prassi amministrativa, l’esercizio del “diritto alla rettifica” alla produzione di prove di un trattamento chirurgico di riassegnazione sessuale.
          La Corte di Giustizia precisa che uno Stato membro non può invocare l’assenza, nel proprio diritto nazionale, di una procedura di riconoscimento giuridico della transidentità per ostacolare l’esercizio del diritto di rettifica. In particolare, la Corte Ue ricorda che sebbene il diritto dell’Unione non pregiudichi la competenza degli Stati membri in materia di stato civile delle persone e di riconoscimento giuridico della loro identità di genere, tuttavia devono rispettare il diritto dell’Unione compreso il GDPR, letto alla luce della Carta. Di conseguenza, la Corte europea conclude che il GDPR deve essere interpretato nel senso che esso impone a un’autorità nazionale incaricata della tenuta di un registro pubblico di rettificare i dati personali relativi all’identità di genere di una persona fisica qualora tali dati non siano esatti, ai sensi di tale regolamento. Diritto di rettifica dei dati ai fini della “riassegnazione del sesso” La Corte Ue constata che, ai fini dell’esercizio del suo diritto di rettifica, tale persona può essere tenuta a fornire gli elementi di prova pertinenti e sufficienti che possono ragionevolmente essere richiesti per dimostrare l’inesattezza di detti dati Tuttavia, l’art. 16 del GDPR non precisa quali siano gli elementi di prova che possono essere richiesti. Tali obblighi possono essere limitati dal diritto dell’Unione o degli Stati membri purché sia rispettata l’essenza dei diritti e delle libertà fondamentali e costituisca una misura necessaria e proporzionata in una società democratica per garantire taluni obiettivi di interesse pubblico generale, in particolare l’affidabilità e la coerenza dei registri pubblici. Nel caso di specie, risulta che l’Ungheria ha adottato una prassi amministrativa che subordina l’esercizio del diritto di rettifica alla presentazione di prove di un trattamento chirurgico di riassegnazione sessuale. Una tale prassi comporta, secondo la Corte Ue, una limitazione del diritto di rettifica e lede l’essenza del diritto all’integrità della persona e del diritto al rispetto della vita privata, tutelati dalla Carta. Inoltre, un siffatto requisito non è, in ogni caso, necessario né proporzionato al fine di garantire l’affidabilità e la coerenza di un registro pubblico, quale il registro dell’asilo, in quanto un certificato medico può costituire un elemento di prova pertinente e sufficiente.        
         AI: le ultime decisioni delle corti comparate sulla produzione di immagini
 Nel Regno Unito la Chancery Division della England and Wales High Court ha deciso una controversia di rilevanza internazionale in materia di intelligenza artificiale generativa relativa all’utilizzo senza consenso di 12 milioni di immagini, video e illustrazioni di proprietà di Getty Images da parte di Stability AI. L’utilizzo di tali immagini serviva per addestrare “Stable Diffusion”, cioè un modello GenAI “text-toimage”. La Getty Images lamenta la violazione del copyright sia per ciò che concerne l’utilizzo illecito in via generale sia per la riproduzione di parti sostanziali delle opere originali. Stability AI ha ammesso parzialmente l’utilizzo di tali immagini, ma senza specificare quali. La decisione del 14 gennaio 2025 ha natura procedimentale, ma fissa alcuni principi che potrebbero diventare rilevanti in particolare nell’ambito dell’udienza di Case Management (svoltasi in novembre) ove è stata rigettata l’istanza di altri titolari di copyright di venire rappresentati nella causa come se fosse una azione di classe. Siffatta istanza non è stata ritenuta ammissibile perché non erano stati assicurati i requisiti richiesti dalla legge. La Corte ha quindi invitato le parti non ammesse a ripresentare l’azione con prove più solide o una classe più circoscritta. Si osserva che analoga causa intercorrente tra le medesime         biometrico erano ancora concetti appartenenti alla fantascienza. In vent’anni il panorama tecnologico si è grandemente sviluppato, mentre i servizi di archiviazione fotografica non sono più attrattivi per il mercato né remunerativi per gli investitori. Pertanto, Photobucket si trova ad avere un archivio oltre 13 miliardi di immagini, che si propone di vendere ad aziende che sviluppano IA, senza però che gli utenti abbiano espresso esplicitamente il loro consenso. Ciò ha portato alla presentazione di una class action federale i cui primi aderenti sono una madre il cui figlio all’epoca minorenne, appariva nelle foto e un fotografo professionista. La causa intende rappresentare la quota più ampia possibile dei 100 milioni di iscritti che hanno affidato a Photobucket le proprie immagini e che negli ultimi anni hanno trascurato i loro account. Il cuore dell’azione giudiziaria concerne il tentativo di monetizzare l’archivio di foto a terzi per lo sviluppo di GenAI biometrica. In questo contesto verrebbe pure discussa la policy aziendale di inviare email in cui gli utenti venivano invitati a cancellare ovvero mantenere l’account attraverso l’indirizzamento ad una pagina che li obbligava ad accetare nuovi termini d’uso, comprensivo quello biometrico delle immagini. Inoltre, l’azienda avrebbe considerato automaticamente consenzienti gli utenti rimasti silenti nei 45 giorni concessi da Photobucket per effettuare siffatta scelta.      parti e avente il medesimo oggetto è pendente di fronte alla United States District Court of Delaware. Negli Stati Uniti, la United States District Court, Central District of California ha parzialmente accolto le richieste di Tesla e Warner Bros. Discovery, in una controversia avente ad oggetto l’uso abusivo di marchi e la violazione del copyright in merito all’uso non autorizzato di immagini del film Blade Runner 2049 per promuovere il cybercab autonomo di Tesla. Sotto il primo profilo, la Corte federale ha rigettato la domanda respingendo le accuse mosse dalla Alcon Entertainment affermando che considerati i differenti ambiti delle rispettive attività (intrattenimento cinematografico e automotive innovativo) non vi potesse essere confusione, mentre ha accolto l’istanza sulla violazione del copyright in relazione all’uso non autorizzato per la generazione con AI di immagini per la promozione del nuovo prodotto Tesla. Il giudice ha poi ordinato il rinvio della causa a una fase di mediazione. Sempre negli Stati Uniti, di fronte alla United States District Court, District of Colorado è pendente di una causa in relazione all’utilizzo dell’archivio fotografico di Photobucket, creato nel 2003 come servizio online per utenti di MySpace, in un’epoca in cui il trattamento massivo dei dati a scopo di machine learning e il riconoscimento facciale  Questa rassegna mensile di diritto della tecnologia è focalizzata sulle controversie concluse ovvero in corso inerenti gli strumenti di AI Generativa applicati alla creazione di immagini, sia per quel che concerne la violazione del diritto d’autore sia per ciò che riguarda del consenso all’uso dei dati inerenti l’immagine stessa.                              
    PRIVACY: L’OBBLIGO DI FORNIRE RISPOSTA A FRONTE DI UN’ISTANZA DI ACCESSO AGLI ATTI  
In materia di trattamento dei dati personali, il soggetto onerato dell’obbligo di fornire risposta in ordine al possesso (o meno) dei dati sensibili è il destinatario dell’istanza di accesso e non l’istante, dovendo il primo sempre riscontrare l’istanza dell’interessato, anche in termini negativi, dichiarando espressamente di essere, o meno, in possesso dei dati di cui si richiede l’ostensione. In questo modo si espresso il Tribunale di Spoleto con la sentenza n. 112 del 5 marzo 2025.