RITENUTE IRPEF NEGLI APPALTI

Il 24 dicembre 2019 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la Legge 19 dicembre 2019 n. 157 che ha convertito, con modificazioni, il D.L. n. 124 del 2019 (c.d. Decreto Fiscale) il quale, all’art. 4, contiene importanti novità relative ai versamenti IRPEF negli appalti, introducendo l’art. 17-bis nel D. Lgs. n. 241/1997.

A decorrere dal 1° gennaio 2020, sono introdotti obblighi più gravosi a carico delle imprese sia committenti che appaltatrici, subappaltatrici o affidatarie di opere o servizi aventi un valore annuo superiore a € 200.000,00 e caratterizzati dal prevalente utilizzo di manodopera presso il committente, con utilizzo di beni strumentali riferibili a quest’ultimo (c.d. labour intensive).

Nello specifico le nuove disposizioni pongono:

a) in capo al committente un inedito obbligo (sanzionato col pagamento di una somma in caso d’inosservanza) di richiedere all’impresa appaltatrice e a quella subappaltatrice copia delle singole deleghe di pagamento (con la documentazione di supporto) relative al versamento di ritenute fiscali operate sui redditi di lavoro dei dipendenti impiegati nell’esecuzione dell’opera o del servizio;

b) in capo alle imprese appaltatrici/subappaltatrici l’obbligo di rilasciare le suddette deleghe di pagamento con la documentazione di supporto (elenco nominativo dei dipendenti impiegati mensilmente nell’opera, orario di lavoro osservato etc.).

Inoltre, l’impresa appaltatrice deve trasmettere al committente anche un elenco nominativo di tutti i lavoratori impiegati nel mese precedente direttamente nell’esecuzione di opere o servizi affidati dal committente. Detto elenco dovrà prevedere:

  • i lavoratori, identificati mediante codice fiscale;
  • il dettaglio delle ore di lavoro prestate da ciascun percipiente in esecuzione dell’opera o del servizio affidato;
  • l’ammontare della retribuzione corrisposta al dipendente collegata a tale prestazione;
  • il dettaglio delle ritenute fiscali eseguite nel mese precedente nei confronti di tale lavoratore, con separata indicazione di quelle relative alla prestazione affidata dal committente.

Nel caso in cui l’impresa appaltatrice non ottemperi all’obbligo di trasmettere al committente le deleghe di pagamento e le informazioni relative ai lavoratori impiegati, ovvero risulti omesso o insufficiente il versamento delle ritenute fiscali rispetto ai dati risultanti dalla documentazione trasmessa, il committente dovrà sospendere, finché perdura l’inadempimento, il pagamento dei corrispettivi maturati dall’impresa appaltatrice o affidataria sino a concorrenza del 20% del valore complessivo dell’opera o del servizio ovvero per un importo pari all’ammontare delle ritenute non versate rispetto ai dati risultanti dalla documentazione trasmessa, dandone comunicazione, entro novanta giorni, all’ufficio dell’Agenzia delle Entrate territorialmente competente nei suoi confronti. In tali casi, è preclusa all’impresa appaltatrice ogni azione esecutiva finalizzata al soddisfacimento del credito il cui pagamento è stato sospeso, fino a quando non sia stato eseguito il versamento delle ritenute.

In caso di inottemperanza a tale blocco, il committente è obbligato al pagamento di una somma pari alla sanzione irrogata all’impresa appaltatrice o affidataria o subappaltatrice per la violazione degli obblighi di corretta determinazione delle ritenute e di corretta esecuzione delle stesse, nonché di tempestivo versamento, senza possibilità di compensazione.

Alle prestazioni dei servizi in parola viene infine estesa l’eccezione alla regola vigente in materia di soggetto passivo d’IVA, per cui al relativo pagamento provvede non l’appaltatore ma il committente (c. d. inversione contabile o reverse charge).

I nuovi pesanti oneri a carico dei committenti possono, in un certo senso, essere limitati sulla base della sussistenza dei seguenti presupposti:

  • le imprese devono risultare in attività da almeno tre anni, essere in regola con gli obblighi dichiarativi e aver eseguito nel corso dei periodi di imposta alle quali si riferiscono le dichiarazioni dei redditi presentate nell’ultimo triennio, complessivi versamenti registrati nel conto fiscale per un importo non inferiore al 10% dell’ammontare dei ricavi o dei compensi risultanti dalle dichiarazioni;
  • non avere iscrizioni a ruolo o accertamenti esecutivi o avvisi di addebito affidati agli agenti della riscossione relativi all’IRPEF, all’IRAP, ed alle ritenute ed ai contributi previdenziali non superiori a 50.000 euro, per i quali i termini di pagamento siano scaduti e siano ancora dovuti o non vi siano provvedimenti di sospensione, con la sola eccezione di somme oggetto di piani di rateazione in corso.

Il presupposto per evitare i pesanti oneri è rappresentato dal rilascio da parte dell’Agenzia delle Entrate alla impresa richiedente di una certificazione, la cui validità è di 4 mesi dall’emanazione.

Tribunale di Bergamo, con sentenza n. 582 del 1° ottobre 2019 ha disposto che il contratto di somministrazione di mano d’opera non soggiace al termine massimo di 36 mesi di durata.

Il combinato disposto degli artt. 19 e 34 del D. Lgs. n. 81 del 2015 è sufficiente per escludere l’applicabilità, alla somministrazione di manodopera, del termine massimo di 36 mesi di durata del rapporto di lavoro tra lavoratore somministrato e utilizzatore, pena la conversione del rapporto di lavoro in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato alle dirette dipendenze dell’utilizzatore: se è vero che l’art. 19, comma 2, D. Lgs. n. 81 del 2015 prevede un termine massimo di durata del contratto a tempo determinato anche per l’ipotesi in cui il lavoratore venga inviato in missione in ragione di un contratto di somministrazione, l’espresso divieto di applicazione di tale clausola ai soli rapporti di somministrazione di lavoro – contenuto nell’art. 34, comma 2, della medesima disposizione – rende evidente come il caso disciplinato dall’art. 19 faccia riferimento alle ipotesi in cui il medesimo lavoratore venga assunto, per lo svolgimento delle medesime mansioni, da un datore di lavoro ora direttamente con contratto a tempo determinato ed ora indirettamente in ragione di un contratto di lavoro di somministrazione, non dovendosi invece tale norma ritenere applicabile quando il lavoratore presti la sua attività per un periodo superiore a 36 mesi in ragione di soli contratti di somministrazione a tempo determinato.

Messaggio INPS del 17.09.2019, n. 3359. Compatibilità tra la titolarità di cariche sociali nell’ambito di società di capitali e lo svolgimento di attività di lavoro subordinato.

Con il Messaggio n. 3359 del 2019 l’INPS ha fatto il punto sulla questione della compatibilità tra la titolarità di cariche sociali e l’instaurazione, tra la società e la persona fisica che la amministra, di un autonomo e diverso rapporto di lavoro subordinato.

L’Istituto, con Circolare n. 179 del 1989 “Accertamenti e valutazione della sussistenza del rapporto di lavoro subordinato”, aveva escluso in linea di massima che per “i presidenti, gli amministratori unici ed i consiglieri delegati” potesse essere riconosciuto un rapporto di lavoro subordinato valido con la medesima società. Tale orientamento era stato revisionato con messaggio n. 12441 dell’8.06.2011 dalla stessa INPS che aveva riconosciuto la possibilità di instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato tra la società cooperativa ed il presidente della stessa.

La Corte di Cassazione, a partire dagli anni ’90, si è espressa più volte sulla questione, disponendo in via di principio che la carica di presidente, in sé considerata, non è incompatibile con lo status di lavoratore subordinato, poiché anche il presidente della società può essere soggetto alle direttive, alle decisioni ed al controllo dell’organo giudiziale. Ciò anche nel caso in cui ci sia stato un eventuale conferimento di rappresentanza al presidente, purché tale delega non estenda allo stesso i diversi poteri deliberativi.

Situazione diversa nell’ipotesi dell’amministratore unico della società, in quanto detentore del potere di esprimere da solo la volontà propria dell’ente sociale, come anche dei poteri di controllo, di comando e di disciplina. La Cassazione, in questo caso, ha espresso il principio di non compatibilità tra la qualità di lavoratore dipendente di una società e la carica di amministratore unico della stessa.

Per quanto riguarda la figura dell’amministratore delegato è necessario tenere in considerazione la delega conferitagli dal consiglio di amministrazione. Se l’amministratore è munito di delega generale con facoltà di agire senza il consenso del consiglio di amministrazione ne consegue la sua incompatibilità ad intrattenere un valido rapporto di lavoro subordinato con la società. Diversamente, se ha solamente potere di rappresentanza o limitate deleghe può intrattenere con la società un rapporto di lavoro subordinato.

La configurazione di un rapporto di lavoro subordinato è, inoltre, da escludere con riferimento al socio unico.

Una volta stabilita l’astratta possibilità di instaurazione, tra la società e la persona fisica che la rappresenta e la gestisce, di un autonomo rapporto di lavoro subordinato, si dovrà accertare in concreto lo svolgimento di attività estranee alle funzioni inerenti al rapporto organico e se tali attività siano contraddistinte dai caratteri tipici della subordinazione.

La Cassazione ha inoltre individuato, in capo al soggetto che intende far valere il rapporto di lavoro subordinato, l’obbligo di fornire la prova del vincolo di subordinazione, ovverosia l’assoggettamento al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione della società.

L’INPS conclude affermando che la valutazione della compatibilità dello status di amministratore di società di capitali (il riferimento è alle sole tipologie di cariche ritenute in astratto ammissibili) con lo svolgimento di attività di lavoro subordinato presuppone l’accertamento in concreto, caso per caso, della sussistenza delle seguenti condizioni:

  • che il potere deliberativo (come regolato dall’atto costitutivo e dallo statuto), diretto a formare la volontà dell’ente, sia affidato all’organo (collegiale) di amministrazione della società nel suo complesso e/o ad un altro organo sociale espressione della volontà imprenditoriale il quale esplichi un potere esterno;
  • che sia fornita la rigorosa prova della sussistenza del vincolo della subordinazione (anche, eventualmente, nella forma attenuata del lavoro dirigenziale), ovverosia dell’assoggettamento del lavoratore interessato, nonostante la carica sociale, all’effettivo potere di supremazia gerarchica (potere direttivo, organizzativo, disciplinare, di vigilanza e di controllo) di un altro soggetto ovvero degli altri componenti dell’organismo sociale a cui appartiene;
  • che il soggetto svolga, in concreto, mansioni estranee al rapporto organico con la società; in particolare, deve trattarsi di attività che esulino e che pertanto non siano ricomprese nei poteri di gestione che discendono dalla carica ricoperta o dalle deleghe che gli siano state conferite.

D.L. n. 101 del 2019 “Disposizioni urgenti per la tutela del lavoro e per la risoluzione di crisi aziendali” – tutele economiche e normative per i riders.

Il 4 settembre 2019 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Decreto Legge n. 101 del 2019 recante “Disposizioni urgenti per la tutela del lavoro e per la risoluzioni di crisi aziendali”.

Il provvedimento era già stato approvato il 6 agosto 2019 (salvo intese) da parte del Consiglio dei Ministri.

L’art. 1 del Decreto in commento, andando a modificare il D. Lgs. n. 81 del 2015, pone l’obiettivo di garantire adeguate tutele economiche e normative per la categoria dei riders.

La legge definisce i riders come i lavoratori impiegati nelle attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di veicoli a due ruote o assimilabili, anche attraverso piattaforme digitali. Le piattaforme digitali sono i programmi e le procedure informatiche delle imprese che, indipendentemente dal luogo di stabilimento, mettono in relazione a distanza, per via elettronica, le persone per le attività di consegna di beni, determinando le caratteristiche della prestazione o del servizio che sarà fornito e fissandone il prezzo.

La nuova normativa prevede che il rider abbia diritto di essere retribuito:

  • in base alle consegne effettuate purché in misura non prevalente;
  • su base oraria, a condizione che, per ciascuna ora lavorativa, il lavoratore accetti almeno una chiamata.

I riders sono soggetti alla copertura assicurativa obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, che è a totale carico dell’impresa, così come gli adempimenti ai fini dell’assicurazione INAIL. Il premio di assicurazione INAIL è determinato in base al tasso di rischio corrispondente all’attività svolta. Ai fini del calcolo del premio assicurativo si assume come retribuzione imponibile la retribuzione convenzionale giornaliera di importo corrispondente alla misura del limite minimo di retribuzione giornaliera in vigore per tutte le contribuzioni dovute in materia di previdenza e assistenza sociale, rapportata ai giorni di effettiva attività.

Ai fini del monitoraggio viene istituito un Osservatorio presso il Ministero del Lavoro, presieduto dal ministro stesso o da un suo delegato, e composto dai rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori. L’Osservatorio verificherà, in base ai dati forniti da INPS, INAIL e ISTAT, gli effetti delle nuove tutele e proporrà eventuali revisioni alla normativa.

Controllo sui dipendenti dell’appaltatore tramite sistemi automatizzati di gestione del magazzino.

Tribunale di Padova, sentenza 16.07.2019, n. 550.


La nozione di subordinazione risente dell’evoluzione tecnologica che, specie nei settori “labour intensive“, ha rimesso alle macchine la guida intelligente del processo produttivo.

Nella specie, versandosi in un caso di appalto dei servizi di logistica, le istruzioni di lavoro pervenivano agli addetti tramite messaggi video o vocali governati da software della committente, rimettendo ai preposti della cooperativa appaltatrice forme di controllo non dissimili da quelle di un capo reparto, senza alcuna discrezionalità organizzativa.

La raccolta dei dati inerenti le operazioni compiute dai singoli lavoratori, traducendosi in un potenziale controllo a distanza degli stessi, ancorché non siano specificate le modalità di conservazione e gli scopi della raccolta, costituisce ulteriore manifestazione di un potere datoriale.

Ne consegue che i ricorrenti devono considerarsi dipendenti della società committente.

Privacy, nel rapporto di lavoro vanno trattati solo i dati necessari.

Il Garante per la protezione dei dati personali ha pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 176 del 29 luglio 2019 un provvedimento che raccoglie ed aggiorna prescrizioni sul trattamento di particolari categorie di dati.

Di sicuro interesse sono le “Prescrizioni relative al trattamento di categorie particolari di dati nei rapporti di lavoro”: in primo luogo, perché i rapporti di lavoro sono un ambito in cui le novità in materia di privacy rivestono un’importanza maggiore, in secondo luogo perché i poteri dell’Autorità garante e dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro in materia di verifiche e sanzioni hanno aperto nuovi fronti e questioni nella gestione dei dati Hr.

Se si è in presenza di un dato personale (capace di identificare una persona fisica) e di un rapporto di lavoro (subordinato, autonomo, libero-professionale di amministrazione o collaborazione comunque declinata) allora trovano applicazione le prescrizioni del provvedimento.

Inoltre, il Garante indica le finalità del trattamento dei dati, con particolare riferimento alla “instaurazione, gestione ed estinzione del rapporto di lavoro” e alla difesa di un diritto “in sede giudiziaria, nonché in sede amministrativa o nelle procedure di arbitrato e di conciliazione”.

Nel provvedimento il perimetro del dato relativo ai rapporti di lavoro è individuato in ogni passaggio: dal colloquio pre-assuntivo alla definizione della possibile causa relativa alla cessazione del rapporto stesso. Il Garante ripercorre queste fasi prescrivendo specifiche tutele ed obbligazioni per ognuna.

La fase pre-assuntiva deve comportare trattamento dei dati “strettamente pertinenti” con la ricerca del candidato. Tale principio va applicato alle mansioni ed ai profili professionali per i quali la ricerca è effettuata; i dati esuberanti tale ambito non potranno essere oggetto di valutazione al fine dell’idoneità del candidato, con espressa esclusione dei “dati genetici”, il cui trattamento è definito illegittimo ai fini di valutare l’idoneità professionale, anche ove il candidato abbia prestato il suo consenso.

Una volta assunto il lavoratore fornisce al datore di lavoro i dati necessari all’esecuzione del rapporto. Tali dati non comprendono quelli relativi alle convinzioni religiose, alle idee politiche o all’esercizio di funzioni pubbliche e sindacali.

In linea con le prescrizioni dello Statuto dei Lavoratori, tali ultimi dati sono lecitamente trattati solo per finalità specifiche e previste dall’ordinamento e non per valutare il dipendente.

LICENZIAMENTO, CONFLITTO INTERESSI.

CONFLITTO DI INTERESSI CON IL PROPRIO DATORE DI LAVORO: SÍ SE C’È COMPENSO.

La Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di un licenziamento intimato per giusta causa ad un dipendente che, mentre era impiegato presso l’Agenzia delle Entrate, forniva consulenza fiscale a terzi in conflitto di interessi, a fronte di pagamenti in denaro per una somma pari ad Euro 5.000,00.
E ciò veniva fatto in violazione dell’obbligo di fedeltà ed esclusività della prestazione lavorativa e del divieto di svolgimento di attività in conflitto di interessi.
La Corte d’Appello rilevava che la condotta del dipendente aveva “violato in modo plateale e macroscopico gli obblighi contrattuali e legali imposti al pubblico dipendente dalle disposizioni di cui alla contestazione così da ledere in modo irreversibile il necessario vincolo fiduciario tra l’amministrazione e il proprio dipendente e a legittimare il licenziamento”.
La Corte di Cassazione, confermando la decisione resa dai giudici di appello, ha rilevato che “nello specifico è palese la violazione degli obblighi di cui alle norme contestate al dipendente e risulta correttamente formulato il giudizio di proporzionalità ai sensi dell’art. 67 C.C.N.L. in relazione alla gravità della mancanza e in conformità di quanto previsto dall’art. 54 della Cost., dall’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, all’art. 4 del d.P.R. n. 18 del 2002 avendo la Corte territoriale considerato tutti gli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, alla portata soggettiva dei fatti stessi in rapporto ai delicati compiti svolti dal dipendente”.
Alla luce di quanto sopra, si può dunque ritenere che chi svolge attività in conflitto di interessi con il proprio datore può essere licenziato in tronco se l’attività non è a mero titolo di favore ma viene fatta dietro compenso.

Conversione del contratto a tempo determinato acausale.

TRIBUNALE DI TRENTO, 4 DICEMBRE 2018

CONVERSIONE DEL CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO ACAUSALE IN CONTRATTO A TEMPO INDETERMINATO SE LA SUCCESSIONE DEI CONTRATTI HA SODDISFATTO ESIGENZE DI CARATTERE PERMANENTE

Successione di contratti a tempo determinato acausali: conversione in contratto di lavoro a tempo indeterminato se il lavoratore offre la prova che la successione dei contratti, pur rispettosi dei limiti di durata massima, siano stati diretti a soddisfare esigenze di carattere permanente o comunque non temporanee. Il Tribunale di Trento si pronuncia in materia di successione di contratti a tempo determinato (ante L. 96/2018), interpretando la normativa interna (art. 19 co. 2 e 3 D.Lgs. n. 81/2015) in conformità alla normativa europea (Direttiva n. 1999/70/CE) che, come noto, ha la finalità di prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti a tempo determinato. Secondo il Giudice, in particolare, in conformità ai principi espressi dal diritto europeo, la norma interna deve essere interpretata nel senso di riconoscere alla parte che abbia interesse (il lavoratore) la facoltà di offrire prova che la successione dei contratti a tempo determinato sia stata determinata da esigenze non temporanee e, dunque, ottenere la conversione in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Licenziamento G.M.O. Efficienza Azienda

CASSAZIONE CIVILE, SEZIONE LAVORO, 18 GENNAIO 2019 N. 1377

LEGITTIMO IL GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO VOLTO A MIGLIORARE L’EFFICIENZA GESTIONALE DELL’AZIENDA.

Affinché risulti legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, poiché risulta sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo. Tale mutamento deve avvenire attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa e non con una generica riduzione di personale con mansioni fungibili; se sussistono i suddetti requisiti il recesso della neo-mamma non è affatto discriminatorio, ma legittimato dal giustificato motivo oggettivo.
Il Tribunale in primo grado aveva dichiarato la nullità del licenziamento intimato dalla società alla lavoratrice in quanto discriminatorio, essendo stato irrogato dalla società a meno di un mese dal compimento di un anno di età del figlio della lavoratrice. Il Tribunale condannava la società datrice di lavoro alla reintegra ed al risarcimento del danno in misura delle retribuzioni mensili, pari all’ultima globale di fatto, maturate dalla data di recesso sino a quella di riammissione in servizio, detratto l’aliunde perceptum. Al contrario, la Corte d’Appello adita dalla Società escludeva la prova di una discriminazione di genere nei confronti della lavoratrice, accertando la concreta sussistenza del giustificato motivo oggettivo – consistente nella soppressione della posizione di direttore generale di cui la lavoratrice era segretaria – e accertando altresì l’assoluzione dell’onere datoriale di repechage, sia pure attuato con una offerta a mansioni inferiori rifiutata, peraltro, dalla lavoratrice. Di qui il ricorso in Cassazione da parte della neo-mamma. I giudici di legittimità, riprendendo un orientamento costante e recente della Corte, sostengono che, ai fini della legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa. La scelta imprenditoriale che ha comportato la soppressione del posto di lavoro della ricorrente, non è sindacabile in ossequio al disposto dell’art. 41 Cost. Alla luce di tale ragionamento, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.