NEWSLETTER STUDIO SALVALAIO N. 3/2021

NEWSLETTER n. 3/2021

Novità normative e Giurisprudenziali

NOVITA’ NORMATIVE

TRATTAMENTO DI DATI RELATIVI ALLA VACCINAZIONE ANTI COVID-19 NEL CONTESTO LAVORATIVO.

Il Garante della Privacy interviene con FAQ per fare chiarezza sul tema del trattamento dei dati relativi alle vaccinazioni anti Covid-19 in azienda, affermando la titolarità in capo al solo medico competente del trattamento dei dati sanitari dei lavoratori.

1. Il datore di lavoro può chiedere conferma ai propri dipendenti dell’avvenuta vaccinazione?

NO. Il datore di lavoro non può chiedere ai propri dipendenti di fornire informazioni sul proprio stato vaccinale o copia di documenti che comprovino l‘avvenuta vaccinazione anti Covid-19. Ciò non è consentito dalle disposizioni dell’emergenza e dalla disciplina in materia di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

Il datore di lavoro non può considerare lecito il trattamento dei dati relativi alla vaccinazione sulla base del consenso dei dipendenti, non potendo il consenso costituire in tal caso una valida condizione di liceità in ragione dello squilibrio del rapporto tra titolare e interessato nel contesto lavorativo (considerando 43 del Regolamento).

2. Il datore di lavoro può chiedere al medico competente i nominativi dei dipendenti vaccinati?

NO. Il medico competente non può comunicare al datore di lavoro i nominativi dei dipendenti vaccinati. Solo il medico competente può infatti trattare i dati sanitari dei lavoratori e tra questi, se del caso, le informazioni relative alla vaccinazione, nell’ambito della sorveglianza sanitaria e in sede di verifica dell’idoneità alla mansione specifica (artt. 25, 39, comma 5, e 41, comma 4, D.Lgs. n. 81 del 2008).

Il datore di lavoro può invece acquisire, in base al quadro normativo vigente, i soli giudizi di idoneità alla mansione specifica e le eventuali prescrizioni e/o limitazioni in essi riportati (es. art. 18 comma 1, lett. c), g) e bb) D.Lgs. n. 81 del 2008).

3. La vaccinazione anti Covid-19 dei dipendenti può essere richiesta come condizione per l’accesso ai luoghi di lavoro e per lo svolgimento di determinate mansioni (ad es. in ambito sanitario)?

Nell’attesa di un intervento del legislatore nazionale che, nel quadro della situazione epidemiologica in atto e sulla base delle evidenze scientifiche, valuti se porre la vaccinazione anti Covid-19 come requisito per lo svolgimento di determinate professioni, attività lavorative e mansioni, allo stato, nei casi di esposizione diretta ad “agenti biologici” durante il lavoro, come nel contesto sanitario che comporta livelli di rischio elevati per i lavoratori e per i pazienti, trovano applicazione le “misure speciali di protezione” previste per taluni ambienti lavorativi (art. 279 nell’ambito del Titolo X del D.Lgs. n. 81 del 2008).

In tale quadro solo il medico competente, nella sua funzione di raccordo tra il sistema sanitario nazionale/locale e lo specifico contesto lavorativo e nel rispetto delle indicazioni fornite dalle autorità sanitarie anche in merito all’efficacia e all’affidabilità medico-scientifica del vaccino, può trattare i dati personali relativi alla vaccinazione dei dipendenti e, se del caso, tenerne conto in sede di valutazione dell’idoneità alla mansione specifica.

Il datore di lavoro dovrà invece limitarsi ad attuare le misure indicate dal medico competente nei casi di giudizio di parziale o temporanea inidoneità alla mansione cui è adibito il lavoratore (art. 279, 41 e 42 del D.Lgs. n.81/ del 2008).

INFORTUNIO SUL LAVORO E MALATTIA PROFESSIONALE DI LAVORATORI AGILI E RIDERS.

INAIL comunicato del 3 febbraio 2021 – Infortuni e malattie professionali: rider e lavoratori agili.

Con una nota pubblicata all’interno del proprio sito web, l’INAIL comunica di aver aggiornato le procedure telematiche e la modulistica utile all’invio della denuncia d’infortunio e di malattia professionale. L’aggiornamento si è reso necessario al fine di permettere ai datori di lavoro e agli intermediari di comunicare i dati di particolari categorie di lavoratori, in favore dei quali sono state estese le tutele previste dal testo unico dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Si tratta dei lavoratori che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui (rider), dei lavoratori agili, dei lavoratori beneficiari di reddito di cittadinanza coinvolti in progetti utili alla collettività (Puc) e degli studenti coinvolti in programmi di alternanza scuola lavoro.

NOVITA’ GIURISPRUDENZIALI

LA REVOCA DEL LICENZIAMENTO.

Il Tribunale di Milano, con ordinanza del 10 dicembre 2020, si pronuncia sull’applicabilità in materia di revoca del licenziamento.

L’ordinanza tratta di un caso di pretesa revoca del licenziamento intimato a inizio 2020 e adottata in forza della previsione dell’art. 14 del d.l. 104/2020 (prima che la disposizione fosse abrogata in sede di conversione del decreto in legge): il Giudice ritiene che in ogni caso l’istituto non poteva considerarsi applicabile ai recessi adottati prima della fase di emergenza da Covid-19 e, dunque, posti in essere al di fuori della vigenza della disciplina emergenziale. Il Tribunale, accertata l’insussistenza del giustificato motivo oggettivo posto a base del licenziamento, riconosce la natura ritorsiva del recesso poiché esercitato a fronte delle assenze per malattia del dipendente.

L’emanazione della normativa in oggetto si era resa necessaria dal perdurare dell’emergenza pandemica e proprio in ciò trova la propria ratio. Ne consegue che essa non possa trovare applicazione per fattispecie come quella di cui si controverte nel caso di specie, in cui il licenziamento è stato preannunciato prima dell’emanazione della normativa emergenziale. La vicenda, pertanto, deve essere esaminata facendo riferimento agli ordinari canoni legislativi, a maggior ragione, deve darsi conto del fatto che l’art. 1 della L. 126 del 2020 ha abrogato la citata disposizione dell’art. 14 d.l. 104 del 2020.

LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO PER MANCANZA DI GIUSTA CAUSA.

Il Tribunale di Arezzo si è pronunciato con sentenza del 13 gennaio 2021, in materia di licenziamento illegittimo per mancanza di giusta causa, con riguardo al preteso rispetto delle disposizioni anti-Covid da parte del dipendente di un esercizio commerciale, nei confronti del cliente.

Il Tribunale constata che non integra giusta causa di licenziamento il fatto del lavoratore che invita l’avventore ad indossare la mascherina di protezione prescritta dalle disposizioni anti Covid. Una Società licenziava per giusta causa il dipendente di un punto vendita che, durante il turno notturno, invitava un cliente privo di mascherina a indossarla, quale condizione per avvicinarsi alla cassa e completare l’acquisto, così provocandone le lamentele. Il Tribunale ritiene il recesso illegittimo, confermando la reintegrazione nel posto di lavoro già disposta nella prima fase del giudizio: non solo per la mancanza della necessaria gravità dell’addebito, ma rilevando altresì che il lavoratore aveva esercitato il proprio diritto, costituzionalmente garantito, a svolgere la propria prestazione in condizioni di sicurezza.

In tema di giusta causa di licenziamento, è irrilevante il comportamento contestato al dipendente privo degli elementi di gravità economica e morale, e che di conseguenza, sia inidonea a ledere il vincolo fiduciario all’art. 2105 c.c. Inoltre l’esimente dello stato di necessità consente l’astensione dal lavoro, anche in assenza di una disposizione di legge, poiché l’esecuzione della prestazione, lo avrebbe esposto ad un rischio di danno alla persona. Il lavoratore si è dunque limitato all’esercizio legittimo del proprio diritto alla sicurezza delle condizioni di svolgimento del proprio lavoro.

NULLITA’ DEL LICENZIAMENTO DURANTE LA VIGENZA DELLA DISCIPLINA DI BLOCCO DEI LICENZIAMENTI.

Il Tribunale di Milano, con sentenza del 28 gennaio 2021, dichiara nullo il licenziamento intimato successivamente alla data di entrata in vigore del d.l. 18/2020.

Il Tribunale accoglie il ricorso della lavoratrice licenziata per giustificato motivo oggettivo con comunicazione inviatale dal datore di lavoro il 16 marzo 2020, ma ricevuta il 26 marzo successivo, dopo l’entrata in vigore dell’art. 46 d.l. 18 del 2020 che ha disposto il divieto dei licenziamenti per ragioni oggettive. Essendo il licenziamento un atto unilaterale recettizio, esso ha efficacia solo quando sia giunto a conoscenza del lavoratore. Il Giudice dichiara la nullità del recesso per violazione di norma imperativa, con diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro.

Il termine di sospensione di cui all’art.46 del d.l. sopra citato, non può che far riferimento al compimento dell’iter perfezionativo del licenziamento dunque, del momento in cui il lavoratore ne ha conoscenza, essendo ai sensi dell’art. 1334 c.c. Pertanto, stabilendo la disposizione dell’art. 46 un divieto di licenziamento, il recesso datoriale ricevuto a seguito dell’entrata in vigore della normativa emergenziale, ricade nel disposto dell’art. 1418 c.c. e risulta perciò stesso nullo, con applicazione delle tutele di cui all’art. 18 comma 1 dello Statuto dei Lavoratori.

Non trova applicazione l’analogia con la previsione che riguarda i lavoratori interessati da licenziamento collettivo ex L. 223 del 1991, che estende la possibilità di recesso individuale del datore, successivo al 17.03.2020, per i procedimenti iniziati ex art.7 L. 604 del 1966, prima del termine del 23.02.2020, di sospensione delle procedure collettive, non essendo configurabile in tal senso una violazione dell’art. 3 della Costituzione per discriminazione tra lavoratori interessati da licenziamento collettivo e interessati da licenziamenti individuali, ancorché plurimi.

SOSPENSIONE CAUTELARE DAL SERVIZIO E DALLA RETRIBUZIONE.

Il Tribunale di Ivrea, con sentenza del 29 gennaio 2021, dichiara illegittima la sospensione di un dipendente sottoposto a procedimento penale, ma non a misura interdittiva, in assenza di un reale interesse aziendale.

Un lavoratore soggetto a procedimento penale, ma non a misure cautelari interdittive, proponeva ricorso ex art. 700 c.p.c. per impugnare la sospensione dalla prestazione e dalla retribuzione adottata dal datore di lavoro. Il Tribunale afferma che qualora il contratto collettivo preveda la sospensione del dipendente sottoposto a procedimento penale come facoltà del datore di lavoro e non quale obbligo, la stessa possa essere esercitata legittimamente solo per fatti commessi in danno del datore di lavoro o in servizio, o dai quali emergano elementi di pregiudizio per il datore di lavoro.Il Giudice ha accolto il ricorso e condannato la società a riammettere in servizio del lavoratore.

La ratio della previsione della facoltativa sospensione del lavoratore è quella di allontanare il dipendente che si sia reso colpevole di fatti commessi in occasione di lavoro o che svelino –direttamente o indirettamente- un’attitudine delittuosa sul luogo di lavoro, pertanto il potere di sospensione del datore di lavoro non è incondizionato, bensì volto alla tutela del patrimonio aziendale e regolare svolgimento delle mansioni. Laddove non emergano elementi di pregiudizio per il datore di lavoro, l’esercizio di tale potere appare del tutto ingiustificato.

ESCLUSIVITA’ DEL MOTIVO ILLECITO PER DETERMINARE LA NULLITA’ DEL LICENZIAMENTO RITORSIVO.

La Corte di cassazione, con sentenza del 25 gennaio 2021 n. 1514, conferma che la nullità del licenziamento per motivo illecito presuppone l’esclusività del motivo.

Secondo la Corte, la verifica dei fatti che, secondo il lavoratore ricorrente, rappresentano il motivo illecito determinate del licenziamento richiede il previo accertamento della insussistenza del giustificato motivo addotto dal datore di lavoro, perché per determinare la nullità del licenziamento

il motivo illecito deve essere non solo determinante, ma anche esclusivo. (Meno perentoriamente Cass. nn. 28453, 26035 e altre precedenti ammettono la prova del motivo illecito da parte del lavoratore anche quando il datore di lavoro abbia apparentemente provato la giusta causa o il giusto motivo)

Il motivo illecito si considera esclusivo e determinante qualora esso costituisca l’unica ragione del recesso datoriale. L’esclusività può sussistere anche nella fattispecie in cui il motivo illecito concorra con un motivo lecito formalmente addotto, salvo aver dimostrato che quest’ultimo sia risultato non esistente nel riscontro giudiziale.

Essendo la verifica del giustificato motivo oggettivo preventiva rispetto all’analisi dei fatti riguardanti la possibile natura ritorsiva del licenziamento, una volta accertata la sussistenza del G.M.O., ciò sarà sufficiente, e sarà superfluo indagare ulteriormente per dimostrarne la non illegittimità, ipso facto esclusa.

OBBLIGO DI VACCINAZIONE ANTINFLUENZALE.

Il Tribunale di Messina, con ordinanza del 12 dicembre 2020, esclude dalla competenza regionale l’introduzione di un obbligo di vaccino.

Un infermiere, presentava ricorso d’urgenza, chiedendo la disapplicazione in via cautelare del decreto dell’Assessorato Regionale della salute della regione Sicilia n. 743/2020 e degli atti conseguenziali, che disponeva all’art. 10 un obbligo di vaccinazione antinfluenzale per medici, infermieri e personale sanitario, sociosanitario di assistenza e operatori di servizio nelle strutture di assistenza – anche volontario-, nell’ambito della Campagna vaccinale fissata dal 5 ottobre 2020 al 28 febbraio 2021. Il mancato rispetto di tale obbligo avrebbe comportato l’inidoneità temporanea allo svolgimento della mansione lavorativa con conseguente sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per il periodo in questione. Il giudice accoglie il ricorso, affermando l’esclusione della possibilità di introdurre un obbligo di vaccino dalla competenza regionale.

La materia della Salute rientra, infatti, tra le materie di competenza concorrente di cui all’art. 117 comma 3 della Cost., dunque, le Regioni devono rispettare i “principi fondamentali” previsti a livello statale, tra i quali rientra la previsione di cui all’art.32 co.2 della Costituzione.

Anche considerando la normativa statale emergenziale volta a contrastare la diffusione del virus Covid-19, si contata che essa non abbia introdotto alcun obbligo vaccinale per il personale sanitario, il cui mancato assolvimento determina l’inidoneità al lavoro.

ATTIVITA’ LAVORATIVA PER IL LAVORATORE COLLOCATO IN CIG.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 3116 del 2021, si esprime affermativamente sulla possibilità per il lavoratore collocato in CIG di svolgere attività lavorativa, previa comunicazione all’ente previdenziale.

Afferma la Corte, che all’art. 8, commi 4 e 5, del d.l. n. 86 del 1988, prevede il principio della parziale cumulabilità tra integrazione salariale e altre attività remunerate, nel senso che lo svolgimento di attività lavorativa remunerata durante il periodo di sospensione del lavoro con diritto all’integrazione salariale comporta non la perdita del diritto all’integrazione per l’intero periodo predetto ma una riduzione dell’integrazione medesima in proporzione ai proventi dell’altra attività lavorativa, sempre che la sede provinciale dell’Istituto nazionale di previdenza, sia informata preventivamente, (ovvero, entro 30 giorni dal rinnovo/mancato rinnovo delle abilitazioni, nel caso di cd. “periodo neutro” ossia esclusivamente devoluto all’addestramento, come previsto dalle circolari INPS nella specifica materia) dal lavoratore, dell’avvio dell’attività lavorativa presso altro datore di lavoro, pena la decadenza dal diritto all’integrazione salariale.

Tale onere di preventiva comunicazione sussiste per ogni tipologia di lavoratore, subordinato o autonomo, anche qualora l’ente previdenziale sia già stato informato dal datore di lavoro, e per ogni tipologia di attività lavorativa svolta, da intendersi nel suo significato più ampio, come ogni attività qualificabile come lavorativa, che comporti l’utilizzo di una professionalità, rilevando la sola potenziale redditività, dunque, anche se in concreto non si produce alcun reddito.

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