Legittimo l’uso dei contenuti delle chat private dei lavoratori per fini disciplinari

La Corte di Appello di Venezia (sentenza 27 luglio 2020, n. 258), pur considerando illegittimo il licenziamento di una lavoratrice che aveva postato in una chat privata di WhatsApp un video in cui era ripreso il suo superiore mentre usciva dal bagno in mutande con una bottiglia di apparenti urine in mano, ha ritenuto comunque utilizzabile il filmato a scopi disciplinari.

Nella causa decisa dalla Corte di Appello di Venezia, ad una lavoratrice era stato contestato dal datore di lavoro di avere inviato a tutti i dipendenti addetti al punto vendita di una catena di abbigliamentoa mezzo WhatsApp all’interno di una chat privata, un filmato effettuato nei locali del negozio in cui era ripreso il responsabile mentre usciva dal bagno in mutande con una bottiglia di (apparenti) urine in mano e, per tale motivo, era stata licenziata per giusta causa.

A dire della dipendente, non si trattava comunque di urina ma di the e l’episodio, per quanto fuori dalle righe, si inseriva in un contesto goliardico diffuso nel punto vendita al quale non risultava estraneo nemmeno il responsabile del negozio ripreso nel filmato.

Il Tribunale del lavoro di Venezia, all’esito della fase sommaria, aveva accolto il ricorso della lavoratrice disponendone, con ordinanza, la reintegrazione nel posto di lavoro.

Il Giudice aveva ritenuto che lo scambio di messaggi nel gruppo privato a cui appartenevano i colleghi della lavoratrice costituisse corrispondenza privata e, come tale, fosse garantito dalla segretezza, diritto inviolabile, con la conseguenza che il filmato non poteva essere utilizzato in sede disciplinare.

A seguito dell’opposizione della società, il Tribunale confermava l’illegittimità del licenziamento. Ritenuto che il video proveniva sicuramente dalla lavoratrice e che la stessa non ne aveva comunque contestato la provenienza, il Giudice ha affermato la piena utilizzabilità del filmato, puntualizzando che l’acquisizione da parte della Società non era avvenuta a seguito di intrusione di un terzo non iscritto al gruppo, con violazione dunque della libertà e segretezza della corrispondenza, ma a seguito di consegna da parte di un dipendente iscritto al gruppo, come tale destinatario della corrispondenza in questione.

Il Tribunale confermava l’ordinanza della fase sommaria, che aveva disposto la reintegrazione della lavoratrice, in quanto il suo comportamento non era stato ritenuto tale da violare i doveri di ufficio ed era comunque avvenuto in ambito privato, senza alcuna frase offensiva o condotte denigratorie nei confronti della società e della clientela.

Il datore appellava la sentenza, sul presupposto che sarebbe stata fatta un’errata valutazione dell’episodio sotto il profilo disciplinare, considerato che il video ridicolizzava l’ambiente di lavoro ed aveva un contenuto altamente denigratorio ed offensivo nei confronti dell’immagine della società.

La Corte di Appello di Venezia ha in parte accolto l’appello della società datrice di lavoro, ritenendo la valenza disciplinare del fatto addebitato ma escludendo che tale condotta assumesse gravità tale da giustificare il licenziamento.

In luogo della reintegrazione nel posto di lavoro, la Corte, ai sensi dell’art. 18, comma 5 della legge n. 300/1970, dichiarava risolto il rapporto alla data del licenziamento assegnando alla lavoratrice un’indennità risarcitoria pari a 17 mensilità dell’ultima retribuzione e disponendo la restituzione delle somme pagate alla stessa in esecuzione dell’ordinanza che aveva definito il rito sommario.

La Corte veneziana ha ritenuto accertato che la comunicazione all’esterno del filmato era stata effettuata da uno dei partecipanti, dovendosi dunque escludere che la diffusione fosse avvenuta ad opera di soggetti estranei che avevano avuto accesso alla chat in maniera abusiva.

A sua volta, il delatore (di cui peraltro si conosceva l’identità) aveva interloquito con un soggetto istituzionale nell’ambito dell’organizzazione aziendale (il call center dell’azienda deputato a ricevere segnalazioni su comportamenti non adeguati da parte dei dipendenti) e, conseguentemente, il datore di lavoro aveva potuto legittimamente utilizzare il video incriminato posto che, una volta che la comunicazione è stata inoltrata, il destinatario è libero di farne l’uso che ritiene e quindi anche di divulgarla a terzi, ferma restando, naturalmente, la responsabilità per l’eventuale diffamazione insita nella divulgazione (Cass. pen., Sez. V, 10 luglio 2014, n. 40022); sempre la giurisprudenza penale ha inoltre precisato che la natura riservata o confidenziale di una comunicazione non ne esclude la rilevanza penale (Cass. pen., Sez. V, 28 maggio 1985, n. 5267).

Sul punto è intervenuto anche il Garante per la protezione dei dati personali, dopo avere ricordato che i messaggi che circolano via internet, nelle liste di posta elettronica e nei newsgroup ad accesso limitato devono essere considerati come corrispondenza privata e in quanto tali non possono essere violati, ha comunque ritenuto che, analogamente a quanto avviene per la normale corrispondenza, un soggetto terzo non viola la disciplina in materia di privacy ove prenda visione di una e-mail per iniziativa di uno dei destinatari della comunicazione (parere del 12 luglio 1999).

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