NEWSLETTER 8/2025

Novita’ normative

Residenza estera a rischio se il datore di lavoro concede lo smart working. Il lavoro agile può incidere sull’individuazione dello Stato con più stretto collegamento.

Nell’attuale contesto lavorativo è frequente il caso in cui le persone siano assunte da datori di lavoro esteri, i quali concedono di svolgere, per alcuni periodi, l’attività lavorativa da remoto in modalità agile nel proprio Stato di origine, dove risiedono anche i familiari o le persone con cui si hanno legami significativi. Questa situazione comporta alcuni profili di rischio legati all’individuazione della residenza fiscale.

Si pensi, ad esempio, a una lavoratrice che abbia stipulato un contratto con una società estera in cui siano previsti 10-12 giorni al mese di smart working, durante i quali la persona presta attività in Italia, presso l’abitazione di proprietà del compagno, non coniugato. La stessa ha a disposizione un immobile nello Stato estero mediante contratto di locazione mentre non possiede immobili o conti correnti in Italia.

In un caso come quello prospettato, sotto il profilo della normativa, l’art. 2 del TUIR, in vigore dal 2024, pone una prima criticità rispetto al criterio del domicilio fiscale che reca la specifica accezione di “luogo in cui si sviluppano, in via principale, le relazioni personali e familiari della persona”, privilegiando dunque le relazioni personali e familiari rispetto a quelle prettamente economiche.

Nella nozione di “relazioni personali e familiari”, secondo l’Agenzia delle Entrate, rientrano sia i rapporti tipici , sia le relazioni personali connotate da un carattere di stabilità che esprimono un radicamento con il territorio dello Stato.

Allo stesso modo, precisa l’Agenzia, può assumere rilievo la dimensione stabile dei rapporti sociali. Secondo Assonime le relazioni personali e sociali devono essere segnalate da elementi fattuali, come la presenza significativa sul territorio dell’individuo o del suo nucleo familiare, nonché attraverso l’utilizzo dei servizi e delle infrastrutture disponibili nel territorio dello Stato. Fatte queste premesse, il caso prospettato, in cui la persona presenta un legame affettivo rilevante sul territorio italiano (il compagno), potrebbe essere suscettibile di contestazioni da parte dell’Amministrazione finanziaria, la quale potrebbe ritenere configurato il domicilio fiscale in Italia.

Allo stesso modo, andrebbe attentamente monitorato il parametro della presenza fisica, laddove, unitamente al periodo di smart working, la persona, come logico, trascorresse in Italia i periodi di pausa dal lavoro; se, cumulativamente, gli stessi rappresentassero la maggior parte del periodo di imposta, sarebbe integrato un elemento ulteriore per considerare la persona residente in Italia.

Una volta verificata la residenza fiscale in Italia in base ai criteri domestici, occorre poi valutare se, in base ai criteri convenzionali, la stessa potrebbe invece essere qualificata come non residente.

Sempre facendo riferimento al caso ipotizzato, la persona disporrebbe di un’abitazione permanente in entrambi gli Stati e bisognerebbe quindi indagare il luogo in cui è stabilito il centro di interessi vitali, il quale considera sia le relazioni personali, sia le relazioni economiche.

Tale valutazione richiede di contemperare gli elementi con valenza diversa; ad esempio, avere un conto in banca, carte di credito, una patente in un determinato Stato non dovrebbe rilevare in modo incisivo per la determinazione del centro di interessi vitali, posto che si tratta di elementi che possono essere ottenuti velocemente e facilmente, mentre la casa famigliare, la presenza di figli, di un partner e di un lavoro in un certo Stato denotano un maggiore collegamento con tale territorio. In tale ottica, rileva anche l’evoluzione dei rapporti personali sul territorio, per cui un eventuale matrimonio con il partner, residente in Italia, esprimerebbe la volontà di un collegamento durevole con l’Italia e ciò anche se la persona ha spostato le proprie relazioni economiche all’estero. In questo contesto, nell’interpretazione della norma internazionale, un possibile elemento da valorizzare sarebbe legato alla riconoscibilità esterna dell’attività economica prestata; ove, infatti, vi siano interessi economici fortemente radicati sul territorio estero e riconoscibili a terzi, si potrebbe sostenere che il centro di interessi vitali è stabilito nello Stato estero, superando in questo modo la nozione di domicilio fiscale. La questione non sarebbe invece di facile risoluzione avendo riguardo a un consulente con clienti all’estero, in quanto l’attività di consulenza è soggetta a forte mobilità e quindi non in grado di determinare un forte collegamento con lo Stato estero. Ove non sia possibile stabilire il luogo del centro di interessi vitali, in virtù della sussistenza di rapporti economici e sociali all’estero, si passerebbe alla terza regola, relativa al luogo di soggiorno abituale, da stabilire in termini di frequenza, durata e regolarità.

Salvo l’elenco delle attività discontinue per il lavoro intermittente.

L’INL, in accordo con il Ministero del Lavoro, conferma il rinvio al RD 2657/23, nonostante la sua abrogazione.L’abrogazione del RD 2657/23, contenente la tabella delle occupazioni che richiedono un lavoro discontinuo o di semplice attesa o custodia, da parte della L. 56/2025, come era già stato anticipato non comporta conseguenze sul lavoro intermittente. Lo ha chiarito l’Ispettorato nazionale del Lavoro (INL) che, con la nota n. 1180/2025, ha definitivamente risolto i dubbi sollevati da una parte degli addetti ai lavori circa l’esistenza di un potenziale vuoto normativo, che poteva incidere sulla concreta possibilità di fare ricorso al lavoro a chiamata. Come chiarito con la circolare INL n. 1/2021, ai fini della stipula di un contratto di lavoro intermittente, ai sensi dell’art. 13 del D.Lgs. 81/2015, devono sussistere alternativamente le cosiddette condizioni oggettive o quelle soggettive. Queste ultime si riferiscono al requisito anagrafico del lavoratore, previsto dal comma 2 dell’art. 13, secondo il quale il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con soggetti con meno di 24 anni di età, purché le prestazioni lavorative siano svolte entro il venticinquesimo anno, e con più di 55 anni. Le condizioni oggettive, invece, sono disciplinate dal comma 1 del medesimo art. 13, in forza del quale è possibile fare ricorso al contratto di lavoro intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi, anche con riferimento alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno. In mancanza di contratto collettivo, i casi di utilizzo del lavoro intermittente sono individuati con decreto del Ministro del Lavoro e delle politiche sociali.

Il Senato della Repubblica, con la seduta dell’8 luglio 2025, ha approvato in via definitiva il disegno di legge recante le disposizioni in materia di conservazione del posto di lavoro e permessi retribuiti per esami e cure mediche a favore dei lavoratori affetti da malattie oncologiche.

Il DdL era già stato approvato dalla Camera dei Deputati a marzo e interviene su più punti:

  • congedo biennale: periodo di congedo non retribuito fino a 24 mesi con conservazione del posto di lavoro;
  • smart working: diritto prioritario al lavoro da remoto dopo il congedo, se la mansione lo permette;
  • permessi per visite, esami e cure: ulteriori 10 ore annue di permessi indennizzati, esteso ai genitori di minori malati;
  • lavoratori autonomi: sospensione dell’attività che passa da 150 a 300 giorni per anno solare.

Il 2 luglio 2025 Min. Lavoro: firmato il Protocollo quadro per le emergenze climatiche.

Il Ministro del Lavoro e delle politiche sociali ha sottoscritto il protocollo quadro per l’adozione delle misure di contenimento dei rischi lavorativi legate alle emergenze climatiche negli ambienti di lavoro.

Nei prossimi giorni si proseguirà con la raccolta delle firme di tutte le parti sociali che intendono aderire.

INPS, messaggio n. 2130 del 3 luglio 2025.

Trattamenti di integrazione salariale per caldo eccessivo.

Tenendo conto dell’incidenza che le condizioni climatiche attuali, caratterizzate da elevate temperature notevolmente superiori alla media stagionale, hanno sullo svolgimento delle attività lavorative e sull’eventuale sospensione o riduzione delle stesse, l’INPS, con il messaggio del 3.07.2025, sintetizza le indicazioni in merito alle modalità con cui richiedere le prestazioni di integrazione salariale e ai criteri per la corretta valutazione delle istanze

Per le dimissioni di fatto serve una disposizione ad hoc nel CCNL.

Il Ministero del Lavoro ribadisce che in difetto di espressa previsione contrattuale vale il termine legale di 15 giorni di assenza ingiustificata.

Le disposizioni del CCNL sulle assenze ingiustificate, previste per il licenziamento, non possono dar luogo a dimissioni di fatto.

Lo ha chiarito il Ministero del Lavoro con una specifica FAQ con la quale è ritornato sul valore e sull’impatto reale delle attuali disposizioni del contratto collettivo in relazione alla nuova procedura di risoluzione per fatti concludenti del rapporto di lavoro, contenuta nel c.d. Collegato Lavoro, vigente dal 12 gennaio 2025.

Un intervento quanto mai necessario alla luce di una serie di interpretazioni nate dalla recente sentenza n. 87/2025 del Tribunale di Trento che, secondo alcuni commentatori, sembrava aver messo in discussione alcuni principi stabiliti dallo stesso Ministero con la circ. n. 6/2025.

L’elemento oggetto di discussione attiene alle clausole del contratto collettivo, già esistenti alla data di entrata in vigore della nuova procedura, che sanzionano con il licenziamento l’assenza ingiustificata, individuando la relativa durata.

Una parte della dottrina ha ritenuto, all’indomani della vigenza delle nuove disposizioni sulle dimissioni per assenza ingiustificata del lavoratore, di poter mutuare i termini previsti dai contratti collettivi per l’ipotesi di licenziamento, derogando così al più lungo termine legale di almeno 15 giorni, previsto, in mancanza di previsione contrattuale, dal nuovo comma 7 bis dell’art. 26 del D.Lgs. 151/2015.

Sul punto, come ribadito ulteriormente dal Ministero nella FAQ in commento, la circolare ministeriale n. 6/2025 è stata netta, chiarendo che le eventuali previsioni della contrattazione collettiva devono essere espressamente riferite a questa nuova fattispecie ed, inoltre, che il termine eventualmente individuato per legittimare la risoluzione del rapporto per comportamento concludente non deve essere inferiore a quello individuato dalla legge, ossia almeno 15 giorni.

La ragione di ciò, spiega il Ministero, è data dalla circostanza per cui l’elemento essenziale della risoluzione per fatti concludenti è il silenzio del lavoratore, che non deve aver fornito alcun motivo dell’assenza.

Ciò determina la necessità di un termine più ampio rispetto ai pochi giorni già previsti dai contratti collettivi per il licenziamento, “perché in quel caso la procedura di garanzia prevista dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori consente lo scrutinio delle opposte ragioni ed il controllo di legittimità delle decisioni”.

La fattispecie delle dimissioni di fatto ha, invece, un presupposto del tutto differente. Già in passato, prima che l’istituto delle dimissioni fosse disciplinato dal citato art. 26, che ha introdotto la specifica forma telematica, la Cassazione ha più volte ribadito che, per le dimissioni per fatti concludenti, quindi, non espresse formalmente, il comportamento del lavoratore deve essere inequivocabile, ovvero tale da non lasciare spazio ad altre interpretazioni se non quella della volontà di dimettersi.

La scelta ministeriale di non creare commistione tra assenza ingiustificata con profili disciplinari, da un lato, e assenza ingiustificata con valenza dimissionaria, dall’altro, appare, quindi, quanto mai condivisibile e in linea con i citati orientamenti giurisprudenziali, che non vengono intaccati, come già

sostenuto da chi scrive, dalla tanto discussa decisione del giudice trentino.

Secondo il Ministero, infatti, la lettura fornita nella circolare n. 6/2025 non appare superata dalla sentenza n. 87/2025 del Tribunale di Trento che attenendosi al petitum della controversia ha peraltro adottato un provvedimento di reintegrazione, dichiarando l’illegittimità del licenziamento e negando completamente la configurabilità delle dimissioni di fatto nel caso concreto.

Peraltro, nel caso specifico, lo stesso Tribunale, proprio in relazione al perfezionamento del termine utile alla fattispecie dimissionaria, pur richiamando la disposizione contenuta nel CCNL a fini disciplinari, sottolinea come nessun argomento contrario è stato svolto dalla società convenuta nella propria memoria di costituzione, atteso che tale profilo, per nulla indagato dal giudice, non era oggetto di discussione tra le parti. Inoltre, il Ministero, a ulteriore conferma della propria linea interpretativa, evidenzia come la norma stessa abbia previsto un generico richiamo alle previsioni del contratto collettivo, senza fare riferimento, come avrebbe potuto, al termine contrattuale connesso al licenziamento.

Pertanto, nel silenzio del legislatore, il termine cui la norma fa riferimento non può che essere quello che la contrattazione collettiva dovrà prevedere per lo specifico caso di risoluzione di rapporto per fatti concludenti del lavoratore e, in mancanza, l’unico termine possibile è quello legale di 15 giorni.

Pubblicato il 25 Giugno 2025 Garante Privacy: Lavoro no alle impronte digitali per la rilevazione presenze.

Il Garante per la protezione dei dati personali ha affermato che l’uso dei dati biometrici sul posto di lavoro è consentito solo se previsto da una norma specifica che tuteli i diritti dei lavoratori.

Tale trattamento deve rispondere a un interesse pubblico e rispettare criteri di necessità e proporzionalità rispetto all’obiettivo perseguito.

Su tale presupposto, il Garante Privacy, a seguito di un reclamo, ha sanzionato un Istituto di Istruzione superiore di Tropea per 4mila euro per aver impiegato un sistema di riconoscimento biometrico che, allo scopo di rilevarne la presenza e di prevenire danneggiamenti e atti vandalici, richiedeva l’uso delle impronte digitali del personale amministrativo.

I lavoratori coinvolti erano quelli che avevano rilasciato il proprio consenso e che non intendevano ricorrere a modalità tradizionali di attestazione della propria presenza in servizio.

Nel rilevare la violazione della normativa privacy, italiana ed europea, il Garante ha ricordato quanto già espresso in un precedente parere del 2019: non può ritenersi proporzionato l’uso sistematico, generalizzato e indifferenziato per tutte le pubbliche amministrazioni di sistemi di rilevazione biometrica delle presenze, a causa dell’invasività di tali forme di verifica e delle implicazioni derivanti dalla particolare natura del dato.

La mancanza di un’idonea base giuridica, in merito al trattamento dei dati biometrici, non può essere colmata neppure dal consenso dei dipendenti che non costituisce, di regola, un valido presupposto per il trattamento dei dati personali in ambito lavorativo, sia pubblico che privato, a causa dell’asimmetria tra le rispettive parti del rapporto di lavoro.

Nel definire la sanzione il Garante ha tuttavia tenuto conto sia della buona collaborazione offerta dall’Istituto nell’ambito dell’istruttoria che dell’assenza di precedenti violazioni analoghe.

Decreto legge 17 giugno 2025, n. 84 disposizioni urgenti in materia fiscale.

Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 138 del 17 giugno 2025, il decreto legge n. 84/2025 reca, fra le varie disposizioni, novità relative alla gestione delle trasferte dei lavoratori: rispetto a quanto previsto dalla legge di Bilancio 2025 sulla tracciabilità delle spese sostenute in trasferta, si prevede ora che l’obbligo, imposto al lavoratore, di utilizzare strumenti di pagamento tracciabili ai fini dell’esenzione fiscale e previdenziale delle somme allo stesso rimborsate, valga solamente per le trasferte effettuate

sul territorio dello Stato e non, invece, per quelle all’estero.

Si evidenzia inoltre la modifica alla disciplina della c.d. maxi deduzione prevista dal D.Lgs. n. 216/2023, in quanto con riferimento alla maggiorazione del costo ammesso in deduzione per le nuove assunzioni a tempo indeterminato viene eliminato il riferimento alle società collegate.

Decreto legge 11 aprile 2025 n. 48, convertito con legge 9 giugno 2025 n. 80: sgravi contributivi e apprendistato per i detenuti che lavorano all’esterno.

Il decreto legge n. 48/2025, convertito nella legge n. 80/2025 pubblicata in G.U. il 9 giugno 2025, introduce rilevanti misure per favorire il reinserimento socio lavorativo dei detenuti.

In particolare, estende ai detenuti che lavorano all’esterno degli istituti penitenziari, compresi coloro che usufruiscono di misure alternative alla detenzione, i benefici contributivi già previsti per il lavoro intramurario.

I datori di lavoro che li assumono possono accedere agli sgravi contributivi disciplinati dalla L. n. 193/2000, incentivando così l’inserimento lavorativo dei soggetti in esecuzione penale.

Il decreto prevede inoltre che tali detenuti possano essere assunti con contratto di apprendistato professionalizzante, al pari di quanto già stabilito per i lavoratori liberi, offrendo così percorsi formativi strutturati.

Le disposizioni hanno l’obiettivo di ridurre la recidiva, promuovere la responsabilità individuale e rafforzare le opportunità di integrazione post detentiva attraverso il lavoro.

Novita’ giurisprudenziali

Corte Costituzionale, sentenza n. 118 del 21.07.2025, la

Incostituzionale il tetto di 6 mensilità per i licenziamenti nelle piccole imprese.

La Corte Costituzionale afferma che è incostituzionale il limite di 6 mensilità a titolo di indennità risarcitoria previsto dall’art. 9, comma 1, del D.Lgs. 23/2015 in caso di licenziamento illegittimo irrogato da una azienda che occupa meno di 15 dipendenti.

Nel caso di specie, la lavoratrice, assunta dopo il marzo 2015 da una azienda con meno di 15 dipendenti, impugnava giudizialmente il licenziamento irrogatole.

Il Tribunale di Livorno, investito del caso, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del D.Lgs. 23/2015, ritenendo che lo stesso non fosse idoneo né a svolgere il ruolo di deterrente, né a garantire adeguatezza e congruità.

Secondo il Giudice rimettente, infatti, detta norma, da un lato, determina una ingiustificata disparità di trattamento tra dipendenti delle piccole e grandi aziende e, dall’altro lato, prevendendo una tutela standardizzata, impedisce una necessaria personalizzazione del risarcimento a seconda dei vizi, più o meno gravi, del recesso.

La Corte rileva che la norma censurata è incostituzionale, stante l’imposizione del limite massimo di 6 mensilità di indennità risarcitoria che è fisso ed insuperabile, a prescindere dalla gravità del vizio del licenziamento.

Secondo i Giudici, detto dato va letto unitamente alla previsione secondo cui, in favore dei dipendenti di piccole imprese, vi è il riconoscimento di importi dimezzati rispetto a quelli indicati in favore dei lavoratori occupati in aziende più grandi, seppur destinatari di licenziamenti parimenti illegittimi.

Alla luce di ciò, per la Consulta, l’ammontare dell’indennità in questione risulta “circoscritto entro una forbice così esigua da non consentire al giudice di rispettare i criteri di personalizzazione, adeguatezza e congruità del risarcimento del danno sofferto dal lavoratore illegittimamente licenziato” né da “assicurare la funzione deterrente della stessa indennità nei confronti del datore di lavoro”.

Su tali presupposti, la Corte “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 … limitatamente alle parole «e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”.

Corte di Cassazione ordinanza n. 13048 del 16 maggio 2025

Limiti all’oggetto del patto di non concorrenza. Il compenso pattuito non deve essere iniquo in relazione al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione della sua capacità di guadagno.

Il patto con il quale viene limitato lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del lavoratore e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.

La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata.

In materia si è recentemente pronunciata la Suprema Corte, con ordinanza n. 13048 del 16 maggio 2025.

Nel dettaglio, la Cassazione è stata chiamata a decidere in merito alla legittimità di un patto di non concorrenza con cui veniva imposto a una lavoratrice il divieto di prestare attività a favore di imprese operanti in tutti i settori di cui si occupava la precedente datrice di lavoro, per lo svolgimento di qualsiasi mansione.

Confermando le pronunce dei giudici di prime e di seconde cure, la cassazione ha chiarito come, nel caso di specie, dovesse ritenersi non congruo il compenso pattuito poco più di 3.000 Euro lordi, rispetto alle limitazioni subite (considerato anche l’arco temporale di estensione dell’accordo 15 mesi nel quale la lavoratrice avrebbe dovuto astenersi dal realizzare attività lavorative).

Nell’assumere tale decisione, La Corte ha fatto proprio un orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, in forza del quale, per valutare la validità di un patto di non concorrenza, in riferimento al corrispettivo dovuto, si richiede innanzitutto che, in quanto elemento distinto dalla retribuzione, lo stesso possieda i requisiti previsti in generale per l’oggetto della prestazione dall’art. 1346 c.c.; va poi verificato, ex art. 2125 c.c., che il compenso pattuito non sia meramente simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, in relazione al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione della sua capacità di guadagno.

A ben vedere, tale pronuncia limita la valutazione circa la legittimità dell’accordo in relazione all’ammontare del compenso, vagliando, in altre parole, la proporzionalità di quest’ultimo rispetto al sacrificio assunto dal lavoratore.

Ma, indipendentemente dall’ammontare del corrispettivo, ci si può chiedere fino a che punto possa essere vincolata l’attività futura del prestatore di lavoro.

Ebbene, una risposta a tale domanda viene fornita dalla recente pronuncia n. 13051/2025, con cui la Cassazione, riprendendo il principio di diritto sopracitato, aggiunge: “che il patto non sia di ampiezza tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in termini che ne compromettano ogni potenzialità reddituale”.

Viene valorizzata, quindi, la professionalità del lavoratore che, dopo aver cessato la precedente attività lavorativa, deve essere posto in condizioni tali da assicurarsi un guadagno idoneo alle sue esigenze di vita.

Tanto assunto, è fondamentale aggiungere come l’attitudine di un patto di non concorrenza a influire sulle capacità di rioccupazione del lavoratore comporti una valutazione congiunta dell’oggetto e dell’estensione territoriale dell’accordo: tanto più ampio è l’oggetto, tanto meno potrà esserlo il territorio, e viceversa.

È bene, quindi, ricordare come anche il riferimento territoriale debba essere individuato specificamente, nonché come la giurisprudenza ritenga validi patti di non concorrenza estesi a tutto il territorio nazionale ed, in determinate circostanze, anche al territorio europeo; ciò, ad esempio, nel caso in cui l’impresa stipulante abbia carattere multinazionale e l’accordo stesso presenti un oggetto molto circoscritto di attività inibite.

Infine, la valutazione di questi l’elementi non può prescindere da una considerazione rispetto ad un altro aspetto fondamentale del patto, ossia la sua durata temporale. In merito a ciò, tuttavia, già l’art. 2125 c.c. Summenzionato individua dei limiti: 3 anni per la generalità dei lavoratori, 5 anni per i dirigenti.

Per le dimissioni di fatto valide solo le giornate successive al 12 gennaio 2025.

Lo ha stabilito il Tribunale di Trento con la prima rilevante sentenza in merito alle dimissioni di fatto.

Le giornate di assenza ingiustificata, che determinano l’effetto estintivo del rapporto di lavoro per dimissioni “di fatto” sono solo quelle successive all’entrata in vigore della nuova procedura di risoluzione, contenuta nel c.d. Collegato lavoro (l. 203/2024), vigente dal 12 gennaio 2025.

Lo ha stabilito il Tribunale di Trento con la sentenza n. 87/2025, la prima pronuncia di merito che offre numerosi spunti di riflessione.

Nel caso di specie una lavoratrice, a seguito di interruzione della possibilità di lavorare mediante smart working, non si era presentata a lavoro, maturando, a decorrere dal 7 gennaio 2025, una serie di giorni di assenza.

Il datore di lavoro, rifacendosi all’art. 238 comma 4 del CCNL per i dipendenti da aziende del terziario, della distribuzione e dei servizi, che consente il licenziamento disciplinare in ragione di assenza ingiustificata oltre tre giorni nell’anno solare, ha ritenuto perfezionata la fattispecie di dimissioni per fatti concludenti, prevista dal nuovo comma 7 bis dell’art. 26 del D.Lgs. 151/2015, provvedendo in data 13 gennaio 2025 a inoltrare a mezzo PEC la prevista comunicazione al servizio lavoro della provincia autonoma di Trento.

Il primo aspetto, sul quale si incentra fondamentalmente la motivazione del giudice, attiene al momento a partire dal quale è possibile attribuire all’assenza del lavoratore una specifica valenza giuridica.

Sul punto il Tribunale, muovendo dal principio del tempus regit actum e dell’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello stato di diritto, spiega come il sostantivo actus indichi una condotta o comportamento in generale e, quindi, un qualsiasi fatto umano giuridicamente rilevante, non già soltanto un negozio giuridico ossia una manifestazione di volontà produttiva di effetti giuridici, quali le “dimissioni per fatti concludenti”.

Pertanto, le giornate di assenza antecedenti al 12 gennaio non possono essere considerate una semplice preesistente situazione di fatto che abilita, successivamente a tale data, la possibilità di attivare la procedura di risoluzione del rapporto.

In tal senso solo una condotta successiva può acquisire il valore giuridico richiesto dal comma 7 bis.

Muovendo da tale ragionamento il Tribunale ritiene non perfezionato l’istituto, accogliendo la tesi della ricorrente che ha qualificato la fattispecie come licenziamento orale attuato mediante il rifiuto di ricevere la prestazione della lavoratrice.

Innanzitutto, appare interessante evidenziare come secondo il giudice la totale assenza dei presupposti di cui all’art. 26 riconduca l’interruzione del rapporto a un licenziamento (precisamente orale, con le conseguenze normative previste dall’art. 2 del D.Lgs. 23/2015), mentre il diritto alla ricostituzione del rapporto, paventata tanto dall’INL quanto dal Ministero, per le ipotesi in cui il datore di lavoro abbia già provveduto alla trasmissione del relativo modello Unilav di cessazione, potrebbe discendere unicamente da un accertamento negativo dello stesso ispettorato, investito dalla comunicazione, ovvero da un’azione giudiziaria del lavoratore che, secondo quanto previsto proprio dall’ultimo periodo del comma 7 bis, dimostri l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza.

Altra questione attiene alla circostanza per cui il giudice, ai fini delle dimissioni di fatto, sembra attribuire valore ai giorni di assenza previsti dal CCNL ai fini disciplinari, peraltro inferiori al termine legale di 15 giorni.

Invero il Ministero, con circolare n. 6/2025, ha sostenuto la necessità che il CCNL preveda una norma che individui una durata di assenza ingiustificata con valore dimissionario, non potendo mutuare quanto stabilito al diverso fine disciplinare, sottolineando, inoltre, che il CCNL non può derogare in peius, fissando un termine inferiore ai 15 giorni.

Peraltro, proprio in relazione al perfezionamento del termine utile alla fattispecie dimissionaria, lo stesso giudice, pur richiamando la disposizione contenuta nel CCNL a fini disciplinari, sottolinea come nessun argomento contrario è stato svolto dalla società convenuta nella propria memoria di costituzione. Infine, una menzione merita anche il passaggio della sentenza nella parte in cui afferma che “il concetto di assenza in tanto può avere un senso in quanto vi sia un obbligo, contrario, di presenza: invece, sarebbe contraddittorio e privo di senso parlare di assenza dal lavoro in riferimento a giorni festivi o comunque non lavorativi”.

In tal modo, pertanto, il giudice sembra aderire a un conteggio dei giorni di assenza non di calendario ma di effettivo lavoro.

Corte di Cassazione, ordinanza 23 giugno 2025, n. 16839.

Contitolarità del rapporto di lavoro e responsabilità solidale.

La Corte d’Appello aveva accertato la contitolarità tra due società del rapporto di lavoro di un dirigente, ritenuto fraudolentemente imputato a una sola di esse e, nonostante il licenziamento intimato dalla società apparentemente datrice, aveva dichiarato la prosecuzione del rapporto con l’altra.

La Cassazione, accogliendo il ricorso della società da ultimo indicata, afferma che: la codatorialità, la quale prescinde dalla natura simulata o fraudolenta del fenomeno del collegamento tra imprese, determina la responsabilità solidale tra i diversi codatori che utilizzano contemporaneamente la prestazione dei medesimi dipendenti, ma non dà luogo ad alcuna duplicazione dell’obbligazione lavorativa, né sotto il profilo retributivo né sotto quello della titolarità del rapporto; in presenza di una pluralità di codatori il lavoratore deve impugnare il licenziamento intimato da uno di essi nei confronti di tutti i soggetti che esercitano poteri datoriali: in mancanza, non opera la solidarietà e il rapporto deve intendersi risolto; la Corte territoriale ha errato nel ritenere che il rapporto prosegua con la sola società non autrice del licenziamento, trascurando il fatto che l’impugnazione non era stata estesa a tutti i codatori.

Corte di Cassazione, sentenza 23 giugno 2025, n. 16773.

Ferie non godute nelle società in house.

Il dipendente di una società in house aveva chiesto la condanna della datrice a pagargli l’indennità sostitutiva di ferie non godute nel corso del rapporto di lavoro, ottenendola dal Tribunale, con la motivazione che le restrizioni alla monetizzazione delle ferie stabilite in Italia per i pubblici dipendenti vanno disapplicate perché in contrasto col diritto comunitario; e dalla Corte d’Appello con la motivazione che tali disposizioni non si applicano al rapporto di lavoro con le società in house, che rimane privato.

Respingendo il ricorso della società contro quest’ultima sentenza, la Cassazione chiarisce che: l’ultimo approdo della giurisprudenza in materia di indennità sostitutiva delle ferie non godute, maturata nel dialogo tra le Corti, afferma l’incomprimibilità del diritto alle ferie retribuite, cui è inscindibilmente connesso il diritto all’indennità sostitutiva in caso di mancata fruizione per cause non imputabili al lavoratore, riconoscendone la natura fondamentale e inderogabile; tale giurisprudenza si è sviluppata con riferimento a fattispecie riguardanti datori di lavoro pubblici, per i quali possono operare limiti organizzativi e vincoli di spesa pubblica: nel caso concreto, invece, la natura privatistica della società in house esclude ogni possibilità di limitare il diritto del lavoratore all’indennità; le società in house, infatti, pur sottostando a controlli pubblici e vincoli contabili, restano soggetti formalmente e sostanzialmente privati nei rapporti di lavoro: ad esse non si applicano le norme del pubblico impiego salvo specifiche deroghe previste dalla legge.

Corte di Cassazione, ordinanza 17 giugno 2025, n. 16358.

Licenziamento con più addebiti: l’infondatezza di uno non esclude di per sé la giusta causa.

Una soprano, dipendente di una Fondazione lirico sinfonica, era stata licenziata per giusta causa sulla base di due distinti addebiti disciplinari: l’allontanamento in due occasioni dal domicilio durante le fasce di reperibilità in periodo di malattia e la partecipazione, senza autorizzazione, a una cerimonia religiosa dove

aveva cantato in un coro.

La Corte d’Appello, concentrando il proprio esame esclusivamente sul secondo episodio, ne aveva escluso la rilevanza disciplinare, disponendo la reintegrazione della dipendente.

La Cassazione, cassando con rinvio la sentenza, chiarisce che: in presenza di un licenziamento per giusta causa fondato su una pluralità di condotte, ogni addebito conserva autonoma rilevanza, salvo che la parte che vi ha interesse provi che solo la loro valutazione congiunta può giustificare la cessazione del rapporto; nel caso in esame, la Corte territoriale ha omesso ogni valutazione dell’addebito pacificamente accertato relativo agli allontanamenti durante le fasce di reperibilità.

Il giudice del rinvio dovrà quindi esaminare anche questo profilo per verificare se, da solo, fosse sufficiente a legittimare il licenziamento.

Tribunale di Roma, 17 giugno 2025.

È ritorsiva la revoca delle facilitazioni di viaggio ai dipendenti che facciano valere i propri diritti nei confronti della parte datoriale.

Il Tribunale ha accolto il ricorso dei lavoratori di una compagnia aerea che si erano visti sospendere le facilitazioni di viaggio per aver intentato una causa contro il datore di lavoro.

La compagnia aveva agito in base a un proprio Regolamento che prevedeva espressamente la revoca delle agevolazioni in caso di giudizio azionato dal dipendente nei confronti della Società.

Il Giudice ha annullato la revoca delle agevolazioni di viaggio, riconoscendone la natura manifestamente ritorsiva, sorretta da motivo illecito unico e determinante; la condotta datoriale ha configurato un’ingiusta e arbitraria reazione a un comportamento dei lavoratori non solo legittimo, ma addirittura espressione di un diritto avente rango costituzionale.

È stata invece esclusa la sussistenza di una discriminazione, perché la prassi aziendale ha interessato indistintamente tutti i lavoratori che abbiano proposto un giudizio nei confronti della società, mancando un “termine di confronto”, ossia la dimostrazione che un soggetto abbia subito un trattamento difforme rispetto ad altri che si trovavano nelle medesime condizioni.

Corte di Cassazione, ordinanza 15 giugno 2025, n. 16019.

Non discriminatoria l’indennità di maternità se l’INPS applica un criterio poi superato dalla giurisprudenza.

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Il contenuto generato dall'IA potrebbe non essere corretto.La Corte d’Appello aveva ritenuto discriminatoria per la donna in gravidanza la condotta dell’INPS e del datore di lavoro relativa all’erogazione a un’assistente di volo dell’indennità di maternità in misura ridotta per il mancato computo della metà dell’indennità di volo, superando in tal modo un’eccezione di decadenza riferibile alle sole controversie previdenziali.

La Cassazione accoglie il ricorso dell’INPS e chiarisce che: il trattamento effettuato costituiva il frutto di una interpretazione della relativa legge corrente al momento dell’erogazione e solo successivamente mutato; non può configurarsi una discriminazione diretta ex art. 25, co. 2 bis, D.Lgs. n. 198/2006 in assenza di un trattamento deteriore riconoscibile come tale già al momento della sua applicazione di conseguenza, esclusa la discriminazione, la domanda della lavoratrice va ritenuta diretta alla riliquidazione di una prestazione previdenziale e, come tale, soggiace al regime di decadenza previsto dall’art. 47 D.P.R. n. 639/1970, la cui eventuale ricorrenza va accertata dal giudice di rinvio.

Cassazione, ordinanza 15 giugno 2025, n. 15987.

Comunicazione del licenziamento tra presunzione di conoscenza e prova contraria.

Un dipendente pubblico aveva impugnato tardivamente il licenziamento per inidoneità assoluta e permanente comunicatogli dal Comune datore di lavoro, sostenendo di non aver potuto rispettare il termine per l’impugnazione perché non era venuto a conoscenza della lettera di recesso, ricevuta presso la propria abitazione dalla madre convivente che, per tutelarlo psicologicamente, non gliel’aveva comunicata. Tribunale e Corte d’Appello avevano dichiarato inammissibile il ricorso per intervenuta decadenza, ritenendo perfezionata la presunzione di conoscenza legale ex art. 1335 c.c. al momento della ricezione dell’atto da parte del familiare.

La Cassazione conferma la decisione di merito ribadendo che: la presunzione di conoscenza dell’atto recettizio si fonda sull’equivalenza giuridica tra conoscenza e conoscibilità dell’atto, purché regolarmente ricevuto al domicilio del destinatario; tale presunzione può essere superata solo con prova contraria oggettiva, relativa a circostanze estranee alla volontà del destinatario che abbiano impedito l’effettiva possibilità di venire a conoscenza dell’atto; nel caso di specie, il lavoratore non ha offerto elementi istruttori sufficienti a dimostrare l’esistenza di impedimenti oggettivi alla conoscibilità della lettera di licenziamento.

Tribunale Napoli Nord, Sez. lav., sentenza 16 aprile 2025, n. 1758.

Legittimo il licenziamento con trasmissione del Modello Unilav via WhatsApp?

Il Tribunale di Napoli Nord, con la sentenza n. 1758 del 16 aprile 2025, ha affrontato la questione della validità del licenziamento comunicato tramite WhatsApp, con allegato il modello Unilav. Il giudice ha stabilito che la comunicazione del licenziamento, anche se effettuata attraverso strumenti informatici come WhatsApp, soddisfa il requisito della forma scritta previsto dall’art. 2 della L. n. 604/1966, purché la comunicazione contenga le generalità delle parti, gli estremi del rapporto di lavoro, la data e la

motivazione del recesso, e sia effettivamente portata a conoscenza del lavoratore.

La sentenza sottolinea che la ricezione e la conoscenza da parte del lavoratore sono elementi essenziali per la validità della comunicazione, e che la trasmissione del modello Unilav tramite WhatsApp, se non contestata e seguita da una reazione del lavoratore, integra pienamente i requisiti di legge.

La decisione si inserisce in un orientamento giurisprudenziale che riconosce la validità delle comunicazioni di licenziamento effettuate con mezzi informatici, purché garantiscano certezza e trasparenza nella manifestazione della volontà datoriale.

Corte d’Appello di Torino, sentenza n. 150 del 17.03.2025.

Costituisce giusta causa di licenziamento la condotta del dipendente che bacia sulla bocca una collega contro la sua volontà, anche se la stessa non si attiva immediatamente per segnalare il comportamento del molestatore.

Il dipendente impugna giudizialmente il licenziamento irrogatogli per aver abbandonato il posto di lavoro a causa dello stato di ebrezza conseguente alla partecipazione alla festa di pensionamento di un collega e per avere, nella stessa occasione, molestato fisicamente un’altra collega.

Il Tribunale accoglie la predetta domanda, non ritenendo provata la giusta causa di recesso a fronte dell’inattendibilità dei testi escussi. La Corte d’Appello di Torino, censurando l’impugnata pronuncia di merito, rileva che il comportamento tenuto da una vittima di molestie a sfondo sessuale successivamente all’evento non può in alcun modo inficiare la veridicità dello stesso. In particolare, secondo i Giudici, a nulla rileva che la vittima, come nel caso di specie, non abbia subito chiesto aiuto al personale di sorveglianza ed abbia avvisato la società qualche giorno dopo l’accaduto invece che nell’immediato.

Per la sentenza, infatti, una persona molestata può avere mille ragioni per non attivarsi (subito) contro il molestatore e per non denunciarlo penalmente, per esempio per evitare ulteriori noie o per non sopportare il rischio di non essere creduta, senza che ciò escluda la gravità dell’evento.

Su tali presupposti, la Corte d’Appello di Torio accoglie il ricorso della società, affermando la legittimità del licenziamento dalla stessa irrogato.

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