NEWSLETTER n. 11/2023

Novità normative e giurisprudenziali

Novità NORMATIVE

D.L. 18.10.2023, n. 145 recante “Misure urgenti in materia economica e fiscale, in favore degli enti territoriali, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili “. Vigente al 19.10.2023.

Il D.L. n. 145/2023, c.d. “decreto Anticipi” collegato alla manovra finanziaria, prevede principalmente misure di carattere fiscale, ma reca anche alcuni provvedimenti in materia di lavoro e previdenziale, che di seguito sintetizziamo:

D.L. 29.09.2023, n. 132 recante “Disposizioni urgenti in materia di proroga di termini normativi e versamenti fiscali.”. Vigente al: 30.9.2023.

Con il D.L. n. 132/2023 è stato ulteriormente prorogato fino al 31.12.2023, il diritto al lavoro agile dei dipendenti (pubblici e privati) c.d. super fragili, ovvero affetti da patologie croniche con scarso compenso clinico e con particolare connotazione di gravità, specificamente individuate nel decreto Ministero della Salute 4.02.2022.

Per questi lavoratori, il diritto non è condizionato alla compatibilità delle mansioni con il lavoro agile.

Anzi, è espressamente previsto dalla norma oggetto di proroga (articolo 1, comma 306, della L. n. 197/2022) che il datore di lavoro assicuri lo svolgimento della prestazione in modalità agile “anche attraverso l’adibizione a diversa mansione compresa nella medesima categoria o area di inquadramento, come definite dai contratti collettivi di lavoro vigenti, senza alcuna decurtazione della retribuzione in godimento”.

Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Circolare n. 9 del 9.10.2023 “Decreto-legge 4 maggio 2023, n. 48”, recante “Misure urgenti per l’inclusione sociale e l’accesso al mondo del lavoro”, convertito, con modificazioni, dalla L. 3.07.2023, n. 85. Art. 24, in materia di modifiche alla disciplina del contratto di lavoro a termine.”.

A mesi di distanza dalla pubblicazione del D. L. n. 48/2023, nonché dalla sua conversione con L. n. 85/2023, il Ministero del Lavoro fornisce prime indicazioni, condivise con l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, in merito alle novità contenute nell’art. 24 del suddetto decreto relative alla disciplina dei contratti di lavoro a tempo determinato, inclusi quelli stipulati in regime di somministrazione.

Nel ricordare che il c.d. Decreto Lavoro lascia inalterato il limite massimo di durata dei rapporti a tempo determinato, il numero massimo di proroghe consentite e il regime delle interruzioni tra un contratto e l’altro (cosiddetto stop and go), la circolare analizza le condizioni modificate dal decreto in merito a: a) disciplina delle causali; b) proroghe e rinnovi; c) neutralizzazione dei rapporti acausali antecedenti al 5 maggio 2023 ai fini del raggiungimento del limite massimo di dodici mesi; d) computo dei limiti percentuali dei lavoratori in somministrazione.

La causale.

Fino al 30.04.2024 le parti del rapporto di lavoro possono individuare “Esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva”, idonee a legittimare contratti a termine, rinnovi e proroghe oltre la franchigia di 12 mesi; tale facoltà può essere esercitata solo in assenza di condizioni pattizie previste dai CCNL applicabili; contratti e proroghe stipulati prima del 30.04.2024 sono validi anche se la loro durata supererà tale data.

I CCNL che già prevedono causali di assunzione a termine.

Le ipotesi pattizie restano valide, anche se stipulate prima dell’entrata in vigore del c.d. Decreto Lavoro, purchè non si tratti di un mero rinvio alle ipotesi legislative previste dal vecchio “Decreto Dignità”; in quest’ultimo caso, le disposizioni dei CCNL devono ritenersi decadute in ragione dell’abrogazione delle vecchie fattispecie legali.

Le Pubbliche Amministrazioni.

Per i contratti di lavoro a termine stipulati dalle pubbliche amministrazioni, da università private (incluse le filiazioni di università straniere), da istituti pubblici di ricerca, da società pubbliche che promuovono la ricerca e l’innovazione ovvero da enti privati di ricerca con lavoratori chiamati a svolgere attività di insegnamento, di ricerca scientifica o tecnologica, di trasferimento di know-how, di supporto all’innovazione, di assistenza tecnica alla stessa o di coordinamento e direzione della stessa non si applicano né il termine massimo complessivo di ventiquattro mesi, né le nuove causali indicate dal D.L. n. 48/2023, restando ferme quelle previste dall’articolo 36 del D.Lgs. n. 165/2001, che consente l’utilizzo di tale tipologia contrattuale solo in presenza di “comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale”.

Tale indicazione è pertanto sempre necessaria, indipendentemente dalla durata del contratto di lavoro.

Il regime transitorio.

In particolare in merito al regime transitorio introdotto in sede di conversione, che prevede la possibilità per i datori di lavoro di utilizzare il contratto a termine per un ulteriore periodo di 12 mesi senza ricorrere alle causali per “contratti stipulati” a decorrere dal 5.05.2023 (data di entrata in vigore del decreto), la circolare specifica che il riferimento ai contratti stipulati si riferisce sia al rinnovo di precedenti contratti che alle proroghe di contratti in essere, sempre nel rispetto della durata massima prevista dalla legge o dalla contrattazione collettiva.

La somministrazione di lavoro a tempo indeterminato.

In primo luogo, viene adesso previsto che ai fini del rispetto del limite del 20 per cento nelle nuove assunzioni, non rilevano i lavoratori somministrati assunti dall’agenzia di somministrazione con contratto di apprendistato.

Inoltre, viene esclusa espressamente l’applicabilità di limiti quantitativi per la somministrazione a tempo indeterminato di alcune categorie di lavoratori, tassativamente individuate, tra cui i soggetti disoccupati che fruiscono da almeno sei mesi di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali, i lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati ai sensi dell’articolo 2, numeri 4 e 99, del Regolamento (UE) n. 651/2014, come individuati dal decreto ministeriale del 17 ottobre 2017.

INPS, messaggio n. 3510 del 6 ottobre 2023 “Gestione delle prestazioni del Reddito di cittadinanza sospese per completata fruizione delle sette mensilità ai sensi dell’articolo 13, comma 5, del decreto-legge n. 48/2023.

Con Messaggio n. 3510 del 6.10.2023 l’INPS torna a fornire chiarimenti in merito alla fruizione del reddito di cittadinanza. Si ricorda infatti che dal mese di luglio 2023 l’Istituto sta procedendo, mensilmente, a sospendere l’erogazione del beneficio per i nuclei che non hanno i requisiti per continuare a fruire della misura nel 2023 oltre le 7 mensilità. Per proseguire la fruizione del beneficio, senza incorrere nella sospensione, i nuclei familiari devono avere al loro interno uno dei seguenti componenti: a) persone con disabilità; b) minorenni; c) persone con almeno 60 anni; d) percettori che risultino presi in carico dai servizi sociali in quanto non attivabili al lavoro.

Novità GIURISPRUDENZIALI

Corte di Giustizia UE, sentenza 12 ottobre 2023, in causa n. C-57/22.

Il lavoratore ha diritto alle ferie maturate dalla data del licenziamento annullato fino alla reintegra.

Un cittadino ceco, illegittimamente licenziato e successivamente reintegrato nel posto di lavoro a seguito dell’annullamento in sede giudiziale del provvedimento espulsivo, si era visto negare dal proprio datore di lavoro la fruizione delle ferie annuali non godute nel periodo compreso tra la data del licenziamento e quella della sua reintegrazione, in quanto, in tale periodo, non aveva lavorato.

Nel giudizio conseguentemente istaurato dal dipendente, il giudice aveva chiesto l’intervento incidentale della Corte di giustizia, la quale, nel formulare il principio sopra riportato, osserva che: (i) il diritto alle ferie annuali retribuite persegue la finalità di consentire al lavoratore sia di riposare in relazione all’esecuzione dei compiti che gli incombono in forza del contratto di lavoro, sia di beneficiare di un periodo di distensione e di ricreazione; (ii) tale finalità è certamente fondata sulla premessa che il lavoratore abbia effettivamente lavorato durante il periodo di riferimento, ma se egli non è stato posto nelle condizioni di svolgere la propria attività, il diritto alle ferie annuali retribuite non può essere subordinato all’effettivo espletamento della prestazione lavorativa; (iii) ciò vale tanto più nelle ipotesi in cui l’impossibilità di svolgere il proprio lavoro sia conseguenza di un atto illegittimo del datore di lavoro – come nel caso di specie.

Corte di Cassazione, ordinanza 23 ottobre 2023, n. 29337

Il rifiuto di passare al full time è giustificato motivo di licenziamento se il lavoro parziale è insufficiente.

Con l’ordinanza n. 29337 del 23.10.2023, la Cassazione afferma che il lavoratore che non accetta di trasformare il suo rapporto da tempo parziale a tempo pieno può essere licenziato, ma non a causa di detto rifiuto, bensì a causa della impossibilità di utilizzo della prestazione part-time.

La dipendente impugnava giudizialmente il licenziamento irrogatole per soppressione della propria posizione lavorativa. A fondamento della predetta domanda, la medesima deduce che la vera ragione sottesa al recesso era da individuarsi nel suo rifiuto alla proposta della società di trasformare il rapporto da part-time a full-time, considerando anche che, poco prima del licenziamento, era stato assunto un dipendente con mansioni analoghe.

La Corte d’Appello accoglie il ricorso, ritenendo pretestuosa la motivazione formalmente addotta da parte datoriale e, conseguentemente, illegittimo il licenziamento irrogato per il rifiuto di trasformare il rapporto di lavoro a tempo pieno.

La Cassazione – nel ribaltare la pronuncia di merito – rileva, preliminarmente, che l’art. 8, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2015 prevede che il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento.

Secondo i Giudici di legittimità, tuttavia, tale principio generale soffre di un’eccezione, laddove il datore riesca a dimostrare:

– le effettive esigenze economiche ed organizzative tali da non consentire il mantenimento della prestazione a tempo parziale, ma solo con l’orario differente richiesto;

– l’avvenuta proposta al dipendente di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno ed il rifiuto del medesimo;

– l’esistenza di un nesso causale tra le esigenze di aumento dell’orario ed il licenziamento.

Per la sentenza, ai fini del recesso, è necessaria, dunque, non solo la prova della effettività delle ragioni addotte per il cambiamento dell’orario, ma anche quella della impossibilità dell’utilizzo altrimenti della prestazione con modalità orarie differenti, quale elemento costitutivo del giustificato motivo oggettivo.

Ritenendo assolto il predetto onere probatorio nel caso di specie, la Suprema Corte accoglie il ricorso proposto dalla società e dichiara legittimo il licenziamento.

Corte di Cassazione, ordinanza 18.10.2023, n. 28862

Contratto di lavoro: le variazioni dell’orario vanno concordate con il lavoratore.

Il contratto di lavoro si deve considerare full time ab origine se non c’è stata una contrattazione per il part time.

Le modifiche dell’orario di lavoro vanno concordate con il lavoratore, non potendo essere disposte unilateralmente dal datore di lavoro.

Un lavoratore aveva chiesto ed ottenuto dal Tribunale un decreto ingiuntivo per il pagamento della somma quale differenza tra la retribuzione mensile spettanti per il lavoro full time e quanto percepito, parametrato a 72 ore di lavoro.

La società proponeva opposizione, con cui chiedeva in via riconvenzionale l’accertamento della sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro part time, secondo i giorni e gli orari specificamente indicati; il lavoratore, a sua volta, si costituiva in giudizio, chiedendo in via riconvenzionale subordinata l’accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo pieno.

Il Giudice di prime cure ha accolto la domanda del dipendente, dichiarando sussistente fra le parti un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno ed ha condannato la società a pagare le conseguenti differenze retributive.

Avverso tale pronuncia, il dipendente ha proposto gravame e gravame incidentale la società; la Corte territoriale accoglieva parzialmente quello incidentale e per l’effetto rigettava la domanda del lavoratore, il quale proponeva ricorso in cassazione in quanto il giudice di merito aveva ritenuto inesistente tra le parti un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno pur in assenza di un contratto con forma scritta e nonostante la messa in mora, in cui egli aveva dichiarato di mettere a disposizione le proprie energie lavorative per il full time.

Innanzitutto, la Suprema Corte ha ribadito che il rapporto di lavoro subordinato si presume costituito full time e così va qualificato sul piano giuridico qualora il part time non risulti da un patto scritto, forma richiesta ad substantiam.

Non essendo stato prodotto nel processo il contratto di lavoro con forma scritta o almeno un patto scritto relativo all’orario di lavoro asseritamente part time, secondo la Cassazione il rapporto di lavoro del ricorrente si intende costituito full time. Pertanto, sotto tale aspetto, la diversa conclusione affermata dalla Corte territoriale è in parte errata e pertanto va cassata. Inoltre, nel caso in esame, il datore di lavoro avrebbe dovuto provare che vi sono state sospensioni concordate di prestazioni lavorative e di retribuzione, in relazione ad un orario giornaliero oppure a giorni di lavoro.  Dagli atti di causa e da quanto accertato dalla Corte territoriale, si ritiene provato che il rapporto di lavoro si è svolto consensualmente a tempo parziale verticale da moltissimi anni, per cui risulta che ab initio il contratto di lavoro subordinato, pur stipulato senza forma scritta, va qualificato come full time. Invero, per la riduzione di quel numero minimo di giornate retribuite non basta l’unilaterale determinazione del datore di lavoro, ma è necessario un ulteriore consenso del lavoratore, previsto da un successivo accordo sindacale aziendale.

Ciò è opportuno, anche in relazione a una modifica in melius, in quanto il dipendente può aver riposto legittimo affidamento su quella sospensione concordata per compiere altre scelte, lavorative, personali o familiari, che potrebbero rivelarsi incompatibili con una modifica di quel rapporto lavorativo.

Per tali ragioni, la Cassazione ha accolto il ricorso, cassando la sentenza impugnata e rinviato alla Corte territoriale, la quale si dovrà attenere ai seguenti principi di diritto:

1) pur in presenza di un rapporto di lavoro subordinato full time, il datore di lavoro può provare sospensioni concordate delle prestazioni lavorative e delle correlative retribuzioni anche per facta concludentia;

2) una volta raggiunta la prova di tali sospensioni, esse si traducono in clausole tacite integrative del contratto individuale di lavoro full time;

3) una volta integrato in tal modo il contratto, eventuali modifiche successive di quelle sospensioni concordate richiedono un nuovo consenso del lavoratore e quindi non possono essere disposte né imposte unilateralmente dal datore di lavoro.

Corte di cassazione, sentenze 2.10.2023 n. 27711 e 27769.

Salario minimo e dignitoso per via giudiziaria in due sentenze gemelle della Cassazione.

L’occasione delle pronunce in esame è rappresentata dalle cause promosse da alcuni lavoratori soci di una cooperativa di lavoro per ottenere l’adeguamento della retribuzione percepita in applicazione del CCNL Servizi fiduciari, ritenuta insufficiente; adeguamento negato dalla Corte d’appello sulla base della considerazione che essa sarebbe stata, seppur lievemente, superiore alla soglia di povertà (tra l’altro errando nell’indicare un lordo di retribuzione a fronte del netto della soglia di povertà).

Le pronunce non superano il vaglio di legittimità della Cassazione, la quale invoca il precetto di cui all’art. 36 Cost. per affermare che la retribuzione dovuta non è quella non povera, ma quella proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque sufficiente ad assicurare al lavoratore un’esistenza libera e dignitosa.

In proposito, la Corte ricorda il dovere del giudice, di fronte alla domanda di adeguamento della retribuzione, di procedere al raffronto della retribuzione percepita anzitutto con quella prevista dal CCNL applicato e, in caso di ritenuta insufficienza di quest’ultima, anche in base ad altri parametri, quali i CCNL di categorie limitrofi o relativi a mansioni analoghe, dati statistici, etc. Funzione giudiziaria da sempre ritenuta dalla giurisprudenza della Corte e tanto più necessaria oggi, sia a fronte del proliferare di numerosissimi contratti collettivi applicabili alla medesima categoria, alcuni dei quali (c.d. contratti pirati) stipulati da associazioni poco rappresentative, sia in ragione della possibile insufficienza anche di contratti collettivi stipulati da OO.SS rappresentative, a causa della forte inflazione degli ultimi due anni o altro.

Questa ricerca della richiesta giusta retribuzione minima costituzionale è necessaria anche nei casi (come quelli di specie) delle cooperative, per le quali la legge stabilisce il trattamento economico complessivo del CCNL di settore o limitrofo stipulati dalla OO.SS. maggiormente rappresentative, che appunto può rivelarsi in alcuni casi insufficiente.

Corte di Cassazione, sentenza 10.10.2023, n. 28320.

La retribuzione feriale deve tenere conto del lavoro straordinario se esso costituisce tratto tipico del rapporto.

In una vicenda analoga a quella trattata dalle due sentenze gemelle sul salario minimo e dignitoso nn. 27711 e 27769/2023 e relativa ad alcuni lavoratori svolgenti mansioni di portierato con turni di lavoro giornaliero, svolti per lo più in orario notturno, della durata di oltre 11 ore consecutive, la Corte, oltre a ribadire i principi già affermati nelle due sentenze precedenti, esamina l’ulteriore domanda di commisurazione del compenso feriale giornaliero al numero di ore effettivamente svolte in ogni giornata di lavoro (ore 11 e 10 minuti), con le maggiorazioni di legge per le ore successive all’ottava.

Nel confermare l’accoglimento anche di questa domanda, i giudici di legittimità osservano che una clausola del contratto collettivo che – come l’art. 86 CCNL Servizi fiduciari – preveda una nozione restrittiva di retribuzione utile ai fini delle ferie, con esclusione di determinate voci legate al lavoro notturno o straordinario, è legittima solo se il lavoro notturno o straordinario rappresentano mere modalità di esecuzione della prestazione, che potrebbero cioè venire meno in qualsiasi momento, e non invece allorché – come nel caso di specie – essi costituiscano un tratto tipico ed ontologicamente intrinseco al rapporto di lavoro.

Corte di Cassazione, ordinanza 4.10.2023, n. 27940.

Il dipendente deve risarcire al datore il danno provocato dalla sua negligenza anche in assenza di azione disciplinare.

Il direttore di una filiale bancaria era stato condannato a risarcire il danno che aveva provocato omettendo di conservare la documentazione contrattuale attestante il prestito e la fideiussione prestata a una società cliente, così impedendo alla banca di insinuarsi al passivo fallimentare di quest’ultima, che aveva mancato di restituire il prestito accordato.

La Corte d’appello aveva ritenuto sussistente la responsabilità del dirigente, sebbene la banca non avesse poi coltivato l’azione disciplinare promossa nei suoi confronti.

La decisione regge il vaglio della Cassazione, la quale osserva che (i) l’azione disciplinare e quella di risarcimento del danno si pongono su due piani distinti, indipendenti l’uno dall’altro; (ii) l’esistenza di fatti accertati, anche se non censurati sotto il profilo disciplinare, può comunque determinare il diritto al risarcimento del danno provocato, poiché l’interesse perseguito dal datore di lavoro è costituito dal ripristino della situazione patrimoniale lesa; (iii) in tale prospettiva la scelta di non far conseguire provvedimenti disciplinari è legittimamente assunta dal datore di lavoro.

Corte di cassazione, sentenza 3.10.2023 n. 27882

Nel pubblico impiego, non sempre l’offerta di stabilizzazione sana l’abuso dei contratti a termine.

Dopo avere lavorato per oltre dieci anni presso un comune, in forza di plurimi contratti a termine, un’insegnante di scuola dell’infanzia si era dimessa, essendo stata assunta a tempo indeterminato dal MIUR e aveva quindi agito giudizialmente nei confronti del comune per il risarcimento del danno derivante dall’illecita reiterazione dei contratti a termine.

La domanda era stata respinta dalla Corte d’appello, che aveva ritenuto pienamente satisfattiva e idonea a sanare l’abuso l’offerta di assunzione a tempo indeterminato formulata dal comune in corso di causa e rifiutata dalla lavoratrice perché ormai assunta dal MIUR.

La Cassazione, nell’accogliere il ricorso della lavoratrice, osserva che: (i) la stabilizzazione del rapporto di lavoro, per potersi considerare sanante del pregiudizio subito dal lavoratore, deve essere la causa diretta del superamento della situazione di prolungata e illegittima precarietà in cui il lavoratore viene a trovarsi a causa dell’abuso dei contratti a termine; (ii) se, nel momento in cui viene offerta la stabilizzazione, il lavoratore ha nel frattempo già risolto da solo, per altra via, la situazione di precarietà, l’illecito rimane e l’offerta tardiva di stabilizzazione, ormai inidonea a rimediare al precariato, risulta pertanto irrilevante ai fini della rimozione del danno, il cui risarcimento per equivalente è necessario per garantire effettiva tutela al lavoratore e assicurare la compatibilità del diritto interno al diritto dell’Unione.

Corte di cassazione, sentenza 2 ottobre 2023 n. 27806.

La mancanza di rappresentatività del sindacato stipulante l’accordo di prossimità non è sostituita dal consenso dei lavoratori.

A fronte di un accordo aziendale che aveva ridotto l’orario di lavoro di tutto il personale in part time di 32 ore settimanali, un lavoratore dissenziente aveva agito per ottenere il ripristino dell’orario pieno.

In giudizio, la società datrice di lavoro aveva invocato l’applicazione della disciplina di legge relativa al c.d. accordo di prossimità, sostenendo che, seppure il sindacato stipulante l’accordo in questione non avesse i requisiti di rappresentatività stabiliti, tuttavia questi potevano ritenersi sostituiti dalla volontà successivamente espressa dai lavoratori.

La Corte, ricordando la disciplina degli accordi di prossimità e il suo carattere eccezionale, come tale circondato da una serie di cautele a tutela dei dipendenti, in particolare per quanto riguarda la qualità del sindacato stipulante, in considerazione dell’applicabilità dell’accordo a tutti i dipendenti dell’azienda anche in deroga alla legge, esclude che i requisiti richiesti possano essere sostituiti dalla volontà dei lavoratori con effetto su coloro che dissentono dall’accordo.

Corte di cassazione, ordinanza 26.10.2023 n. 27331.

Dimissioni e risoluzione consensuale solo seguendo la procedura di legge.

In una vicenda giudiziaria in cui il lavoratore ricorrente sosteneva di essere stato licenziato verbalmente, mentre il datore di lavoro gli opponeva che si era dimesso, la Corte d’appello, applicando una giurisprudenza datata, aveva respinto le domande di impugnazione del licenziamento per mancanza di prova dello stesso, di cui sarebbe stato onerato il lavoratore.

La Cassazione annulla la decisione, rilevando che la vicenda sostanziale si era svolta nella vigenza del D. Lgs. n. 151/2015, il quale all’art. 26 subordina l’efficacia delle dimissioni e delle risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro all’osservanza di una precisa procedura scritta, a garanzia sia della certezza della data che della genuinità della relativa decisione da parte del lavoratore.

Corte di cassazione penale, sentenza 26.10.2023 n. 38914

Anche il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza può, omettendo di svolgere i propri compiti, cooperare colposamente a un infortunio mortale.

Un impiegato tecnico, adibito alle mansioni di magazziniere senza aver ricevuto al riguardo alcuna formazione, era deceduto in azienda, travolto da una serie di pesanti tubi in acciaio da lui trasportati col carrello, mentre tentava di collocarli in apposita scaffalatura, difettosa. Confermando la valutazione dei giudici di merito, la Cassazione ha ritenuto responsabile dell’omicidio il datore di lavoro (per la mancata formazione del dipendente, comprensiva dell’addestramento all’uso del carrello elevatore, per aver consentito l’utilizzo di una scaffalatura inadeguata etc.), ma anche il rappresentante per la sicurezza dei lavoratori, per la sua cooperazione colposa nel delitto, realizzata consentendo, senza intervenire, che l’impiegato tecnico venisse assegnato a mansioni di magazziniere senza adeguata formazione e non sollecitando in alcun modo il datore di lavoro ad adottare modelli organizzativi in grado di preservare la sicurezza dei lavoratori, con ciò omettendo di svolgere i compiti a lui attribuiti dalla legge.

Corte di Cassazione, ordinanza 12.09.2023, n. 26343.

Diritto del dipendente al trasferimento anche se la sede più vicina al parente disabile risulti coperta.

Il caso riguardava una dipendente che si era vista respingere la richiesta di trasferimento a una delle sedi più vicine al padre portatore di handicap, in ragione della copertura dell’organico delle stesse. La Cassazione, nel confermare l’accoglimento della domanda, osserva che: (i) il diritto al trasferimento di cui all’art. 33, co. 5, L. n. 104/92 non si configura come assoluto e illimitato, in quanto l’inciso “ove possibile” contenuto nella disposizione postula un adeguato bilanciamento con le esigenze del datore di lavoro; (ii) tale bilanciamento implica la possibilità per il datore di lavoro di negare il trasferimento, provando il pericolo di grave lesione delle sue esigenze economiche, organizzative e produttive; prova nel caso di specie mancata, essendo anzi risultato in giudizio che la società datrice di lavoro aveva proceduto ad assegnazioni anche in esubero nelle sedi in questione.

Corte di Cassazione, ordinanza 7.09.2023, n. 26043.

Immutabilità della contestazione disciplinare e diversa qualificazione dei fatti contestati.

A seguito di un episodio che aveva visto un dipendente rifiutarsi di sottoscrivere un ordine di servizio e aggredire verbalmente i propri responsabili con ingiurie e minacce, la società datrice di lavoro aveva in prima battuta contestato al lavoratore la fattispecie della grave insubordinazione, per la quale il CCNL applicato al rapporto prevedeva il licenziamento senza preavviso, per poi contestare, in sede di irrogazione del licenziamento disciplinare, la diversa fattispecie della rissa sul luogo di lavoro, anch’essa prevista dal contratto collettivo e comportante il licenziamento con preavviso.

Nel rigettare il ricorso del lavoratore, la Cassazione osserva anzitutto che il mutamento “in corsa” della qualificazione data dal datore di lavoro ai fatti contestati al lavoratore non ha comportato alcuna violazione del principio di immutabilità della contestazione, dal momento che il fatto materiale contestato è rimasto il medesimo.

I giudici di legittimità ritengono altresì corretta la qualificazione del fatto come rissa sul luogo di lavoro, ribadendo sul punto l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la nozione “civilistica” di rissa individua una contesa, anche tra due sole persone, idonea a determinare una situazione di pericolo per i protagonisti e per altre persone e, comunque, ove la lite si svolga nel contesto lavorativo, un grave turbamento del normale svolgimento della vita collettiva nell’ambito della comunità aziendale; essa risulta più lata di quella “penalistica”, nella quale assume invece primario rilievo la tutela dell’incolumità personale e in cui è presupposta come dimensione minima del conflitto la partecipazione di almeno tre persone.

Tribunale di Milano, 28.09.2023.

I rider sono lavoratori dipendenti: Uber Eats condannata per condotta antisindacale, per avere esercitato il recesso verso tutti i propri rider senza avviare la procedura dei licenziamenti collettivi della L. n. 223/1991.

Il Tribunale accoglie il ricorso ex art. 28 della L. n. 300/1970 presentato da Nidil-Cgil Milano, Filcams-Cgil Milano e Filt-Cgil Milano e condanna per condotta antisindacale la nota società di consegne tramite piattaforma, ordinandole di riassumere tutti i riders licenziati.

Secondo il Giudice, infatti, i riders che prestavano la propria opera in maniera continuata e personale vanno considerati lavoratori subordinati a tutti gli effetti, avendo riscontrato già su base documentale la presenza di caratteristiche tipiche di debolezza contrattuale e dipendenza economica connotanti il lavoro subordinato (e, comunque, l’applicabilità della disciplina del lavoro subordinato anche a sensi dell’art. 2 del D.lgs. n. 81/2015).

Di conseguenza l’impresa, in vista dell’uscita dal mercato italiano e della conseguente risoluzione dei rapporti di lavoro in essere, avrebbe dovuto applicare la procedura di consultazione in materia di licenziamenti collettivi prevista dalla L. n. 223/1991.

Tribunale di Ravenna, 27.09.2023.

Sollevata una nuova questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 del D. Lgs. n. 23/2015: va garantita la reintegrazione nel posto di lavoro anche per i licenziamenti economici in cui il fatto non sussiste?

Il Tribunale di Ravenna ritiene non manifestamente infondata la questione, che rimette alla Corte costituzionale, di legittimità dell’art. 3 del D.Lgs. n. 23/2015 (c.d. Jobs Act), con riferimento in particolare ai casi in cui sia accertata l’insussistenza del fatto posto alla base di un licenziamento per motivi economici.

Secondo il Giudice, la norma che esclude l’applicazione della tutela reintegratoria per questi casi potrebbe essere incostituzionale, in quanto, tra le molte questioni, comporterebbe un trattamento ingiustificatamente differenziato rispetto ai casi di licenziamento disciplinare e rispetto ai casi di lavoratori assunti prima dell’entrata in vigore del decreto in questione.

Tribunale di Ferrara, 26.09.2023.

Insegnanti di religione precari: risarcito il danno da reiterazione abusiva dei contratti a termine. Esclusa l’applicabilità del termine di decadenza dall’impugnazione, per effetto dell’esclusione di cui all’art. 29, c. 2, lett. c) del D.Lgs. n. 81/2015.

Il Tribunale di Ferrara ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno a favore di un docente di religione cattolica assunto con reiterati contratti a termine su posti vacanti e disponibili, riconoscendo il c.d. danno comunitario in relazione alla abusiva reiterazione per dodici anni, quantificato in 10 mensilità di retribuzione.

Il Giudice esclude che operi nel caso l’onere di impugnazione dei contratti a tempo determinato previsto dall’art. 28 del D.lgs. n. 81/2015, per via dell’espressa esclusione dell’applicazione della disciplina del decreto ai contratti a tempo determinato stipulati con il personale docente ed ATA per il conferimento delle supplenze.

Tribunale di Lecce, 5.09.2023.

Tumore da fumo passivo in carcere: condannato il Ministero per non aver preso le necessarie precauzioni.

Il Tribunale accoglie il ricorso presentato dalla vedova di un ispettore di polizia penitenziaria, morto per un carcinoma polmonare, e condanna il Ministero della Giustizia a risarcire il danno biologico e il danno patrimoniale da perdita del reddito.

Secondo il Giudice, l’esposizione prolungata al fumo passivo all’interno dell’istituto penitenziario, sovraffollato e male areato, ha causato la malattia e quindi la morte del lavoratore. Il Ministero è responsabile per non aver adottato le cautele necessarie per impedire il verificarsi dell’evento dannoso.

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