NEWSLETTER n. 6/2024

Novita’ normative

Con la L. 29 aprile 2024, n. 56 (G.U. n. 100 del 30.4.2024, S.O. n. 19) viene convertito il D.L. 2 marzo 2024, n. 19, recante ulteriori disposizioni urgenti per l’attuazione del PNRR. Sulle previsioni in materia di lavoro in sede di conversione sono state introdotte alcune novità.

Diverse modifiche sono state apportate in materia di appalti pubblici, al fine di contrastare il lavoro irregolare.

  • È stato poi riscritto l’art. 27: dal 1° ottobre 2024 sono tenuti al possesso della “patente” le imprese e i lavoratori autonomi che operano nei cantieri temporanei o mobili, ad esclusione di coloro che effettuano mere forniture o prestazioni di natura intellettuale. La patente è rilasciata in formato digitale dall’Ispettorato nazionale del lavoro subordinatamente al possesso dei seguenti requisiti:

a) iscrizione alla Camera di commercio;

b) adempimento, da parte dei datori di lavoro, dei dirigenti, dei preposti, dei lavoratori autonomi e dei prestatori di lavoro, degli obblighi formativi;

c) possesso del documento unico di regolarità contributiva in corso di validità;

d) possesso del documento di valutazione dei rischi;

e) possesso della certificazione di regolarità fiscale;

f) avvenuta designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione.

  • È revocata in caso di dichiarazione non veritiera sulla sussistenza di uno o più requisiti, accertata in sede di controllo successivo al rilascio. Decorsi dodici mesi dalla revoca, l’impresa o il lavoratore autonomo possono richiederne il rilascio di una nuova.
  • È dotata di un punteggio iniziale di trenta crediti e consente di operare nei cantieri temporanei o mobili con una dotazione pari o superiore a quindici crediti. Con apposito decreto saranno individuati i criteri di attribuzione di crediti ulteriori rispetto al punteggio iniziale nonché le modalità di recupero dei crediti decurtati. Il punteggio della patente subisce le decurtazioni correlate alle risultanze dei provvedimenti definitivi emanati nei confronti dei datori di lavoro, dirigenti e preposti delle imprese o dei lavoratori autonomi. Se nell’ambito del medesimo accertamento ispettivo sono contestate più violazioni, i crediti sono decurtati in misura non eccedente il doppio di quella prevista per la violazione più grave.
  • Se nei cantieri si verificano infortuni da cui deriva la morte del lavoratore o un’inabilità permanente, assoluta o parziale, l’Ispettorato nazionale del lavoro può sospendere, in via cautelare, la patente fino a dodici mesi.
  • La patente con punteggio inferiore a quindici crediti non consente alle imprese e ai lavoratori autonomi di operare nei cantieri temporanei o mobili, ma in tal caso è consentito il completamento delle attività oggetto di appalto o subappalto in corso di esecuzione, quando i lavori eseguiti sono superiori al 30% del valore del contratto.
  • In mancanza della patente, alle imprese e ai lavoratori autonomi si applica una sanzione amministrativa pari al 10% del valore dei lavori e, comunque, non inferiore ad Euro 6.000, nonché l’esclusione dalla partecipazione ai lavori pubblici per sei mesi. Le stesse sanzioni si applicano alle imprese ed ai lavoratori autonomi che operano con una patente con punteggio inferiore a quindici crediti.
  • Le informazioni relative alla patente sono annotate in un’apposita sezione del Portale nazionale del sommerso.
  • Non sono tenute al possesso della patente le imprese in possesso dell’attestazione di qualificazione SOA, in classifica pari o superiore alla III.
  • Un’ulteriore novità è contenuta nell’art. 29, in cui è stato inserito il comma 1-bis, secondo cui al personale impiegato nell’appalto di opere o servizi e nel subappalto spetta un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale stipulato dalle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, applicato nel settore e per la zona strettamente connessi con l’attività oggetto dell’appalto e del subappalto
  • Infine, una novità è stata introdotta in tema di somministrazione di lavoro. La L. n. 56/2024 specifica che l’importo delle pene pecuniarie proporzionali così come sinora previsto dall’art. 18 del D.Lgs. 276/2003 non potrà in ogni caso essere inferiore a euro 5.000 né superiore ad euro 50.000.

D.Lgs 62/2024: nuova terminologia in materia di disabilità.

Il 14 maggio 2024 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 111 il D.Lgs. n 62 del 3 maggio 2024 contenente la definizione della condizione di disabilità, della valutazione di base, di accomodamento ragionevole, della valutazione multidimensionale per l’elaborazione e attuazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato.

La nuova terminologia in materia di disabilità, volta ad una valutazione congrua, trasparente ed agevole, prevede la sostituzione all’interno delle normative di legge delle parole:

  • «handicap», ovunque ricorre, con: «condizione di disabilità»;
  • «persona handicappata», «portatore di handicap», «persona affetta da disabilità», «disabile» e «diversamente abile», ovunque ricorrono, con: «persona con disabilità»;
  • «con connotazione di gravità» e «in situazione di gravità», ove ricorrono, con: «con necessità di sostegno elevato o molto elevato»;
  • «disabile grave», con: «persona con necessità di sostegno intensivo».

Il Decreto, composto da 40 articoli, contiene disposizioni sul procedimento volto al riconoscimento della condizione di disabilità (art. 5-17) e sul progetto di vita individuale personalizzato e partecipato delle persone con riconosciuta disabilità (artt. 18-32).

Ispettorato Nazionale del Lavoro, nota 8 maggio 2024, n. 862.

Revoca delle dimissioni protette a seguito di convalida ai sensi dell’art. 55, comma 4, D.Lgs. n. 151/2001.

In base all’articolo 55, comma 4, del D.Lgs. n. 151/2001, la risoluzione consensuale del rapporto o la richiesta di dimissioni presentate da una lavoratrice durante la gravidanza e da uno dei due genitori entro i primi tre anni di vita dei figli (o di ingresso in famiglia se adottati o affidati), devono essere obbligatoriamente convalidate dall’Ispettorato Territoriale del Lavoro.

A fronte di questa disposizione normativa era sorto il dubbio se e come fosse possibile revocare tali dimissioni. Con la nota n. 862/2024, su conforme parere del Ministero del Lavoro, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro afferma che le dimissioni possono essere revocate prima dell’emanazione del provvedimento di convalida, ma anche successivamente allo stesso purché prima della decorrenza delle dimissioni e della effettiva risoluzione del rapporto. Tuttavia anche la decisione di revocare le dimissioni deve essere soggetta a verifica da parte dell’Ispettorato che, valutata attentamente la fondatezza delle motivazioni addotte, provvederà all’annullamento della convalida. Inoltre, se il funzionario riterrà che ci siano stati comportamenti illeciti o discriminatori del datore di lavoro potrà effettuare accertamenti ispettivi.

La revoca non è possibile se le dimissioni sono state convalidate e hanno prodotto effetto. In tal caso la ripresa del rapporto di lavoro può avvenire solo con il consenso del datore di lavoro.

Novita’ GIURISPRUDENZIALI

Corte di Cassazione, ordinanza 17 maggio 2024, n. 13764.

Licenziamento per giusta causa.

La Corte di Cassazione ha stabilito che il post denigratorio nei confronti dell’azienda pubblicato su Facebook dal lavoratore, dopo la reintegra di questi e prima della ripresa dell’attività lavorativa, costituisce giusta causa di licenziamento.

Nel caso di specie, il dipendente aveva impugnato il licenziamento intimatogli a causa del contenuto denigratorio pubblicato tramite social subito dopo la reintegrazione disposta dal Tribunale.

La Corte d’Appello aveva rigettato la domanda, considerando la condotta tanto grave da ledere il rapporto di fiducia. Nel confermare la pronuncia di merito, i giudici sottolineano che un illecito commesso nel lasso temporale che intercorre tra la lettura del dispositivo della sentenza di reintegra e l’effettiva ripresa dell’attività lavorativa va valutata da un punto di vista disciplinare.

Corte di Cassazione, sentenza 14 maggio 2024, n. 13181.

Servizi pubblici essenziali: l’astensione dal lavoro con certificati medici falsi costituisce sciopero.

Nell’ambito dei servizi pubblici essenziali, costituisce sciopero, come tale soggetto alla disciplina di cui alla legge n. 146 del 1990, l’astensione dal lavoro che si realizzi, a fini di rivendicazione collettiva, mediante presentazione di certificazioni mediche che, secondo l’accertamento del giudice del merito, risultino fittizie e finalizzate a giustificare solo formalmente la mancata presentazione al lavoro, senza reale fondamento in un sottostante stato patologico, ma in realtà siano da collegare ad uno stato di agitazione volto all’astensione collettiva dal lavoro nella sostanza proclamato dalle OO.SS. in modo “occulto”. Questo è quanto deciso dalla Sezione lavoro della Cassazione civile con la sentenza n. 13181/2024.

Corte di Cassazione, sentenza 9 maggio 2024, n. 12688.

Licenziamento del whistleblower: la giusta causa va valutata anche considerando le denunce di cui è autore.

Con tale sentenza la Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso del dirigente, ha cassato con rinvio la sentenza di appello che aveva dichiarato la legittimità del licenziamento per giusta causa irrogato.

Secondo la Cassazione la Corte territoriale aveva errato in quanto aveva mancato di considerare il contesto complessivo all’interno del quale si è inserito il provvedimento espulsivo: la tempistica del licenziamento rispetto all’avvenuta conoscenza da parte dei vertici aziendali delle denunce rese dal dirigente e il progressivo ridimensionamento delle sue attribuzioni.

Di conseguenza, seppur la condotta contestata al dirigente non era in sé direttamente collegabile alle denunce dallo stesso presentate, tuttavia, nel delineare l’effettiva responsabilità disciplinare del dirigente, la Corte territoriale avrebbe dovuto tener conto del whistelblowing di cui questo era autore, dell’esautoramento di attribuzioni a suo danno e delle tempistiche tra tali fatti e il relativo licenziamento.

Avendo la Corte territoriale mancato di considerare tali aspetti, la Corte di Cassazione accoglie il ricorso del dirigente e cassa la sentenza con rinvio.

Corte di Cassazione, ordinanza 6 maggio 2024, n. 12152.

Ancora sul licenziamento disciplinare per uso improprio delle assenze per malattia.

Confermando la sentenza d’appello, che aveva reintegrato un lavoratore licenziato per utilizzo improprio delle assenze di malattia, in quanto le attività accertate non erano risultate incompatibili con lo stato di malattia o comunque tali da ritardare la ripresa del lavoro, la Cassazione ribadisce il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, in materia di licenziamento disciplinare per svolgimento di altra attività durante l’assenza per malattia, grava sul datore di lavoro la prova che la malattia sia simulata ovvero che l’attività svolta nei giorni di assenza sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio.

Corte di Cassazione, ordinanza 19 aprile 2024, n. 10679.

Un caso di patto di non concorrenza nullo per indeterminatezza del compenso.

Il patto, riguardante il dipendente di una banca con mansioni di private banker e incremento ordini, prevedeva la non concorrenza per 20 mesi dopo la cessazione del rapporto, con un compenso di 5.000 euro all’anno, peraltro non più spettanti in caso di mutamento di mansioni del lavoratore, il quale viceversa sarebbe restato comunque vincolato al patto per 12 mesi. Il bancario si era dimesso dopo sei mesi, passando a una banca concorrente. Da qui l’azione giudiziaria della prima banca per il risarcimento danni. Sia i giudici di merito che la Cassazione le danno torto, dichiarando la nullità del patto di non concorrenza per indeterminatezza del compenso, il cui ammontare effettivo dipendeva dal comportamento unilaterale della banca in ordine all’eventuale (imprevedibile al momento della stipula del patto) esercizio da parte sua dello ius variandi delle mansioni.

Corte di Cassazione, ordinanza 18 aprile 2024, n. 10571.

Pubblico impiego: si applica il limite di 36 mesi indipendentemente dalle modalità di assunzione.

La Corte di Cassazione ha stabilito che nel caso di successione di contratti a termine, il limite massimo di trentasei mesi di durata complessiva, oltre il quale la reiterazione è da considerarsi abusiva, trova applicazione indipendentemente dalle modalità attraverso cui avviene l’assunzione a termine. Ciò è giustificato dal concetto di “medesima occasione lavorativa” sancito dall’art. 5, comma 4-bis del D.Lgs. n. 368 del 2001, il quale si riferisce alla “mansione equivalente”, indipendentemente dalla modalità di selezione del lavoratore. Pertanto, la valutazione si basa sulla sostanziale identità dell’attività lavorativa svolta e non sulle modalità di assunzione.

Corte di Cassazione, ordinanza 15 aprile 2024, n. 10065.

Attenzione al luogo in cui si stipula una conciliazione sindacale.

Un dipendente aveva impugnato la conciliazione raggiunta in sede aziendale con l’assistenza del sindacato, con la quale, a fronte della rinuncia della datrice di lavoro a procedere ad un licenziamento collettivo, aveva rinunciato per due anni al 20% della retribuzione, come consentito dall’ultimo testo dell’art. 2103 c.c.

La Cassazione gli dà ragione, rilevando che la norma citata affida, nelle conciliazioni definitive (ex art. 2113, comma 4 c.c.) su diritti indisponibili, la protezione del lavoratore non solo all’assistenza del rappresentante sindacale e/o alla terzietà di chi vi presiede, ma anche al luogo in cui la conciliazione avviene (la sede giudiziale, le commissioni di conciliazione presso l’ispettorato del lavoro, le sedi sindacali e i collegi di conciliazione e arbitrato).

Si tratta di un elenco tassativo, sia perché si tratta di sedi collegate all’organo deputato alla conciliazione sia in ragione della finalità di assicurare al lavoratore un ambiente neutro, estraneo all’influenza della controparte sindacale. Da qui la dichiarazione di nullità della conciliazione perché stipulata nella sede dell’azienda.

Corte di Cassazione, ordinanza 4 aprile 2024, n. 8956.

Assenze ingiustificate mai di domenica.

Un’insegnante statale di scuola primaria era stata licenziata per l’assenza ingiustificata di quattro giorni nel quadrimestre, in applicazione del D.Lgs. n. 165/2001 che prevede tale sanzione in caso di assenze ingiustificate anche non continuative per un numero di giornate superiore a tre in un biennio.

In giudizio, era risultato che una delle quattro giornate era caduta di domenica, che, unitamente al lunedì successivo, era stata considerata assenza ingiustificata perché la ricorrente aveva tardato due giorni dal chiedere la proroga del certificato di malattia dopo la sua scadenza. Pur riconoscendo che tale ritardo costituisce un inadempimento alla regola per cui la proroga di un certificato di malattia deve essere richiesta il giorno immediatamente successivo alla scadenza originaria, la Corte di Cassazione afferma che ciò non significa che, se il giorno di ritardo è una domenica, questa vada considerata come giorno di assenza ai fini disciplinari, proprio perché la domenica il dipendente non deve e non può effettuare la prestazione.

Tribunale di Bologna, 22 febbraio 2024.

Illegittimo il licenziamento del lavoratore agli arresti se l’impossibilità di svolgere la prestazione è temporanea e il datore può efficacemente sostituirlo.

Il Tribunale accoglie il ricorso del lavoratore sottoposto a provvedimenti restrittivi della libertà personale, che era stato licenziato dal datore di lavoro per giustificato motivo oggettivo, consistente nel venir meno dell’interesse a ricevere la prestazione lavorativa stante l’assenza forzata. Secondo il Giudice il recesso datoriale è illegittimo in quanto intimato dopo appena un mese di assenza del dipendente, senza peraltro attendere l’esito della richiesta di autorizzazione al lavoro avanzata dallo stesso al PM. Il Giudice ha tenuto in maggior considerazione il fatto che la società potesse agevolmente sopperire all’assenza avendo a disposizione vari dipendenti “jolly”, adibiti proprio alla sostituzione dei colleghi in caso di necessità. La società è stata quindi condannata a reintegrare in servizio il ricorrente e a corrispondergli un’indennità risarcitoria pari alla retribuzione maturata dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione.

NEWSLETTER n. 5/2024

Novità GIURISPRUDENZIALI

Corte di Appello di Roma sentenza 2 aprile 2024, n. 1294.

La Corte di Appello di Roma ha applicato il principio di recente chiarito dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 22 del 22.02.2024, affermando che anche il dirigente licenziato in violazione della procedura disciplinare ex art. 7 Statuto dei lavoratori non ha diritto alla reintegrazione ma solo all’indennità prevista dal CCNL.

Incorre in una violazione delle garanzie procedimentali di cui all’art. 7 dello Statuto il datore di lavoro che si rifiuta di convocare il dirigente il quale ha richiesto di essere ascoltato nell’ambito di una procedura disciplinare, anche se tale richiesta viene formulata dopo che erano già state rese le prime deduzioni scritte, ma prima che sia spirato il termine ultimo per le difese.

Ad ogni modo, non è prevista alcuna reintegrazione per i casi di violazione delle garanzie procedimentali di cui all’articolo 7 Statuto: in tali casi si profila esclusivamente un’ipotesi di nullità del licenziamento per violazione di norma imperativa.

Corte d’Appello di Trieste, 17 gennaio 2024

Le dimissioni telematiche ai sensi dell’art. 26 D.Lgs. n. 151/2015 non sono un atto delegabile e richiedono la presenza personale, anche se si svolgano con l’assistenza di un operatore sindacale.

La Corte triestina si pronuncia su una complessa vicenda che riguardava un dirigente che, in una situazione di forte tensione, era stato indotto a dimettersi delegando un soggetto terzo all’adempimento telematico previsto dall’art. 26 del D. Lgs. n. 151/2015, soggetto che a sua volta si era rivolto, per la trasmissione dei moduli, ad un operatore sindacale (comma 4° dell’art. 26). La Corte, a fronte della successiva contestazione della validità dell’atto, ritiene che, se pure in generale le dimissioni sarebbero un atto delegabile, ciò non vale nell’ambito della disciplina introdotta nel 2015, che richiede sempre un atto personale, o la presenza personale del dimissionario nel caso ci si avvalga degli operatori autorizzati dal comma 4 dell’art. 26.

Invece, la Corte ha ritenuto che sia delegabile l’atto risolutorio quando questo si svolga in una delle sedi protette ex art. 2113, 4° comma, c.c. (escluse dal campo di applicazione dell’art. 26), e che il presupposto dell’effettiva assistenza per la validità delle conciliazioni possa realizzarsi anche se il lavoratore è rappresentato da una terza persona.

Corte d’Appello di Napoli, 21 marzo 2024.

Ancora sul CCNL vigilanza privata: violata la retribuzione minima ex art. 36 Cost.

I Giudici accolgono il ricorso presentato da svariati lavoratori impiegati nell’ambito di un appalto, e che a seguito di una successione di appaltatore si erano visti applicare il CCNL per i dipendenti da Istituti ed Imprese di Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari – Sezione servizi fiduciari, con trattamento salariale base di 930,00 euro lordi, ritenuto non sufficiente a garantire agli stessi una vita libera e dignitosa. La Corte ha accolto la domanda – richiamando il più recente orientamento della Corte di cassazione e i vari indici utilizzabili per valutare la sufficienza o insufficienza della retribuzione, e ha dichiarato il diritto degli appellanti a percepire un trattamento salariale non inferiore a quello previsto dal CCNL per i dipendenti delle imprese di pulizia e integrati/multiservizi per i lavoratori di 2° livello (la cui declaratoria risulta comprendere anche le mansioni svolte dai ricorrenti).

Corte di Cassazione, ordinanza 8 marzo 2024, n. 6266

Nessuna decadenza se il dipendente licenziato dall’appaltatore rivendica giudizialmente il rapporto col committente.

Quattro anni dopo essere stato licenziato da una società appaltatrice di servizi, un lavoratore aveva proposto ricorso giudiziale nei confronti della sola società committente, deducendo l’inesistenza del licenziamento per interposizione fittizia di manodopera e quindi rivendicando l’esistenza del rapporto con la committente. In giudizio, la Cassazione, in contrasto con l’appello, nega l’intervenuta decadenza, ai sensi dell’art. 32, co. 4, lett. D della L. 183/10, dell’azione promossa dal lavoratore. In proposito, ricorda che secondo la propria costante giurisprudenza, l’ipotesi di decadenza in questione (prevista in “ogni altro caso in cui… si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto”) necessita della presenza di un atto scritto da impugnare per ottenere il risultato perseguito. Poiché nell’ipotesi di appalto non genuino, l’eventuale licenziamento dell’appaltatore è inesistente, l’unico caso in cui l’azione per la costituzione del rapporto col committente sia soggetta alla decadenza è quello in cui il committente neghi la titolarità del rapporto con atto scritto, che nel caso pacificamente non esiste.

Corte di Cassazione, sentenza 13 marzo 2024, n. 6704

Forma del contratto di apprendistato e del relativo piano formativo.

Un’apprendista aveva impugnato giudizialmente il proprio contratto di apprendistato professionalizzante per mancanza in esso del piano formativo, sostenendo la conseguente nullità dello stesso contratto e quindi la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato. In sede di ricorso per cassazione, proposto dalla lavoratrice avverso la sentenza d’appello che aveva respinto le sue domande (in base alla considerazione che la forma scritta stabilita dalla legge sia per il contratto che per il piano non fosse sanzionata sul piano della validità negoziale), la Corte, giudicando in base alle norme del D. Lgs. n. 167/2011 (abrogato dal D. Lgs. n. 81/2015) applicabile al caso esaminato ratione temporis, accoglie il ricorso, procedendo a un’analisi storico-sistematica delle norme per giungere alla conclusione che la forma scritta da esse prevista per il contratto, ma anche per il piano formativo dell’apprendistato è stabilita a pena di nullità (ancorché tale conseguenza non sia stata esplicitata), a protezione della parte più debole del rapporto.

Corte di Cassazione, sentenza 14 marzo 2024, n. 6898

Somministrazione nulla o elusiva e decadenza dell’azione.

Un lavoratore, avendo stipulato più di 400 contratti di somministrazione a termine col medesimo utilizzatore e per identiche mansioni nell’arco di sette anni, aveva dedotto in giudizio, dopo più di un anno dalla cessazione dell’ultimo rapporto, 1) la nullità dei contratti di lavoro a termine conseguente alla nullità di quelli di somministrazione tra agenzia e utilizzatore, in quanto privi di forma scritta; 2) la frode alla legge per elusione del necessario carattere temporaneo della somministrazione; chiedendo conseguentemente, per l’una o l’altra delle ragioni dedotte, l’istaurazione di un unitario rapporto di lavoro con l’utilizzatore. I giudici di merito avevano respinto le domande per intervenuta decadenza dell’azione ai sensi dell’art. 32, 4° comma, lett. d) della legge n. 183/2010 (relativa ai casi “in cui si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto”). La cassazione, accogliendo il ricorso del lavoratore, ribadisce il proprio recente orientamento giurisprudenziale, secondo il quale la decadenza in questione è sicuramente applicabile quando si impugna un atto scritto o un fatto tipicizzato, come ad es. la scadenza del contratto a termine, ma non è applicabile se si sostiene la frode alla legge per elusione delle norme comunitarie sulla necessaria temporaneità della somministrazione, perché in tal caso non viene impugnato un atto o più atti, ma la valutazione sub iudice investe una situazione complessa articolatasi nel corso del tempo. La sentenza impugnata viene quindi cassata perché ricorre quest’ultima situazione.

Corte di Cassazione, ordinanza 18 marzo 2024, n. 7181

L’indennità di mensa non rientra nella base di calcolo del TFR.

La Cassazione, nell’accogliere il ricorso di una fondazione ospedaliera avverso la sentenza d’appello che l’aveva condannata a computare l’indennità di mensa nella base di calcolo del TFR di un infermiere, osserva che: (i) come già affermato da risalente giurisprudenza di legittimità, nella disciplina dettata dall’art. 6, co. 3, dl 333/92 (ritenuta di interpretazione autentica della disciplina previgente), il valore del servizio mensa e l’importo della prestazione sostitutiva percepita da chi non usufruisce del servizio aziendale non fanno parte della retribuzione a nessun effetto attinente a istituti legali e contrattuali del rapporto di lavoro, salvo che la contrattazione collettiva disponga diversamente; (ii) non ha riscontro nell’interpretazione letterale della norma di legge indicata l’esclusiva delimitazione del suo ambito all’ipotesi in cui sia stata istituita in azienda la mensa, con esclusione di quella in cui essa manchi; una tale distinzione (sostenuta dalla sentenza impugnata) non è stata del resto mai affermata dalla giurisprudenza di legittimità.

Corte di Cassazione, ordinanza 18 marzo 2024, n. 7203

Unico il CCNL per vecchi e nuovi assunti.

La società di servizi in house di un Comune, non iscritta ad alcuna Associazione sindacale di datori di lavoro e che applicava di fatto ai propri dipendenti il CCNL terziario, decide a un certo punto di applicare ai nuovi assunti il diverso CCNL multiservizi, ritenuto più aderente alla propria attività. Nel conseguente giudizio promosso da due neo assunti per ottenere l’inquadramento in una qualifica prevista dal primo CCNL, la Cassazione, annullando la diversa sentenza dei giudici di merito e accogliendo le tesi dei lavoratori, ricorda che l’art. 2070 c.c. che collega l’inquadramento sindacale all’attività principale dell’impresa non è più applicabile perché contrastante col principio costituzionale di libertà sindacale, per cui il datore di lavoro applica il CCNL stipulato dal sindacato cui è iscritto o altro scelto volontariamente. In quest’ultimo caso (che è anche quello in esame), la costante applicazione di fatto di un determinato contratto a tutti i dipendenti assume nel tempo valore negoziale, imponendosi pertanto anche nei riguardi delle nuove assunzioni.

Corte di Cassazione, ordinanza 21 marzo 2024, n. 7642

Obbligo di indicare i motivi della mancata rotazione in CIGS a zero ore anche in caso di chiusura di un’unità produttiva.

Una società romana con più unità produttive nel territorio comunale, cessando l’attività in una di esse, aveva avviato la procedura di cui all’art. 1 della legge n. 223 del 1991 (prima delle modifiche apportate nel 2015), comunicando alle OO.SS., tra l’altro, che avrebbe messo in CIGS a zero ore tutto il personale dell’unità. Alcune dipendenti sospese a zero ore hanno impugnato giudizialmente la decisione, censurando l’assenza di indicazione, nella comunicazione relativa alla procedura, dei motivi della mancata rotazione con dipendenti di altre unità e dei criteri di scelta adottati in alternativa. Pervenuta la causa in cassazione, la Corte, confermando la decisione di accoglimento delle domande (di pagamento della retribuzione piena nel periodo di sospensione illegittima), ribadisce la propria giurisprudenza in materia, affermando l’obbligo, non adempiuto dalla società, di indicare nella comunicazione di avvio della procedura, le ragioni della mancata adozione della rotazione – e dei criteri di scelta -, quali, in ipotesi, la “non comunicabilità” tra le varie unità produttive o l’infungibilità delle mansioni e delle professionalità impiegate nell’unità rispetto alle altre (circostanze ambedue del resto smentite dall’esistenza di un precedente episodio di CIGS a zero ore nella medesima unità, in cui era stata adottata la rotazione con dipendenti di altre unità).

Corte di Cassazione, ordinanza 2 aprile 2024, n. 8642

Sul controllo di legittimità in ordine alla proporzionalità della sanzione disciplinare.

Il dirigente di un comune, impugnando la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio per un mese, irrogatagli per aver omesso i necessari controlli sull’operato dei propri collaboratori, aveva tra l’altro sostenuto la sproporzione della sanzione rispetto all’addebito. Giunta la causa in Cassazione su ricorso del dirigente avverso la decisione sfavorevole dell’appello, la Corte, confermando quest’ultima, ribadisce in proposito le regole processuali vigenti, secondo cui il giudizio di proporzionalità della sanzione costituisce una valutazione di fatto, di competenza esclusiva del giudice di merito e pertanto incensurabile in Cassazione, salvo il caso in cui la motivazione sul punto manchi del tutto nella sentenza impugnata o sia contraddittoria o inconsistente ovvero sia viziata dall’omesso esame di un fatto decisivo, la cui valutazione avrebbe cioè condotto i giudici a una soluzione diversa della causa.

Corte di Cassazione, ordinanza 4 aprile 2024, n. 8898

Conciliazioni sindacali e diritti indisponibili.

Un lavoratore aveva promosso un primo giudizio nei confronti di tre società sostenendo di essere stato ad esse legato per alcuni anni da una complessa situazione di appalto illecito di manodopera e chiedendo l’accertamento che il suo rapporto era in realtà intercorso nei confronti di un unico utilizzatore. La causa era stata conciliata, prima a livello sindacale e poi giudiziale. In base ai medesimi presupposti, con separato ricorso, aveva poi chiesto all’”effettivo” datore di lavoro una somma a titolo di differenze retributive, a cui l’impresa aveva vittoriosamente opposto l’intervenuta conciliazione. La Cassazione, respingendo il ricorso del lavoratore che aveva impugnato la conciliazione in quanto incidente su suoi diritti indisponibili, ribadisce che se è vero che l’art. 2113 c.c., considera invalide (e da impugnare entro sei mesi) le rinunce e le transazioni che dispongono dei diritti del lavoratore derivanti da disposizioni inderogabili di legge e di contratto collettivo, questa regola, secondo l’ultimo comma dell’articolo, non vale nel caso delle conciliazioni di cui agli artt. 185, 410 e 411 c.p.c, tra le quali appunto quella giudiziale, in quanto il pericolo di una volontà non genuina della parte debole del rapporto di lavoro viene superato dalla presenza garantista dell’organo pubblico o sindacale.

Corte di Cassazione, ordinanza 9 aprile 2024, n. 9444

Risarcimento danni se il contratto di lavoro stagionale non menziona il diritto di precedenza del dipendente nelle nuove assunzioni.

Com’è noto, l’art. 24 del D. Lgs. n. 81/2015 stabilisce per i lavoratori stagionali (ma anche in genere per quelli a termine, sia pure a diverse condizioni) il diritto di precedenza nelle nuove assunzioni per le stesse mansioni, effettuate entro un determinato arco temporale a partire dalla cessazione del rapporto. E prescrive che tale diritto, da esercitare entro un termine di decadenza, debba essere richiamato nell’atto scritto di apposizione del termine al contratto. Due lavoratori stagionali avevano fatto causa all’ex datore di lavoro, chiedendo (tra l’altro) la trasformazione a tempo indeterminato del rapporto per mancanza di menzione del diritto di precedenza e il risarcimento danni per non aver potuto esercitare tempestivamente tale diritto a causa della mancata indicazione dello stesso nel contratto di assunzione. Mentre la Corte d’Appello aveva negato il risarcimento in quanto non sarebbe previsto dalla legge e aveva riconosciuto ai lavoratori la possibilità di esercitare il diritto di precedenza anche tardivamente, la Cassazione, cassando la decisione impugnata dai due dipendenti, nega anzitutto che alla violazione dell’obbligo da parte del datore di lavoro consegua la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato, ma riconosce ai lavoratori, secondo i principi generali, il risarcimento dei danni conseguenti all’inadempimento di tale preciso obbligo contrattuale.

Tribunale di Padova, 15 febbraio 2024

Competenza territoriale e foro del contratto in un caso di addetta ad appalto: decisivo il fatto che la lavoratrice, alla data della sottoscrizione, fosse già impiegata nell’appalto in una città diversa da quella indicata nel contratto.

Il Tribunale respinge il ricorso e conferma il decreto ingiuntivo con cui una lavoratrice aveva fatto valere i propri crediti da lavoro in via solidale nei confronti della società committente di un appalto presso il quale era stata impiegata. Secondo il giudice è stato rispettato il criterio di competenza per territorio: nonostante il fatto che il contratto indicasse come luogo della stipula un’altra città, la lavoratrice al momento della firma era già impiegata presso l’appalto nel distretto del Tribunale adito: si può presumere che il contratto, predisposto altrove, sia poi stato trasmesso e sottoscritto nel luogo effettivo di lavoro della lavoratrice.

Tribunale di Napoli, 21 marzo 2024

In materia di indennità per ferie non godute, la società “in house” è soggetta alle ordinarie regole dei rapporti di lavoro privati.

La società per azioni con partecipazione pubblica non muta la propria natura di soggetto di diritto privato solo perché un ente pubblico ne possegga, in tutto o in parte, le azioni. L’utilizzo di denaro pubblico per il pagamento delle retribuzioni dei lavoratori della partecipata non sottrae i rapporti di lavoro in questione dalla disciplina di cui all’art. 2019 c.c. La società in house non può invocare a suo favore, in maniera utilitaristica, ora l’applicazione della disciplina privatistica ora l’applicazione della disciplina pubblicistica.

Tribunale di Tivoli, 27 marzo 2024

Nullo il licenziamento dei lavoratori che avevano rifiutato il trasferimento alla nuova sede, privo di effettiva giustificazione.

Il Tribunale accoglie il ricorso presentato da due lavoratori, licenziati dopo aver rifiutato un trasferimento a 400 km di distanza e, dichiarato nullo il licenziamento, ordina la loro reintegrazione nel posto di lavoro. Secondo il Giudice, il datore di lavoro non ha dimostrato la sussistenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive e il nesso tra queste e il trasferimento, e ha pertanto violato i principi di buona fede e correttezza. Il rifiuto dei lavoratori si qualifica quindi come legittima eccezione di inadempimento, facendo venire meno la pretesa giusta causa di licenziamento.