NEWSLETTER PRIVACY MAGGIO 2025

1 maggio 2025
 
Privacy e rettifica dati sull’identità di genere: no alla prova dell’operazione chirurgica
La Corte Ue di Giustizia Ue ha innanzitutto ricordato l’importanza del “principio di esattezza” previsto dall’art. 5, par. 1, lett. d) del GDPR, secondo cui l’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento, senza ingiustificato ritardo, la rettifica dei dati personali che lo riguardano se questi sono inesatti. In questo modo il Regolamento Privacy concretizza il diritto fondamentale, sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, secondo il quale ogni persona ha il diritto di accedere ai dati raccolti che la riguardano e di ottenerne la rettifica. A tal riguardo, la Corte Ue ricorda che secondo la giurisprudenza il carattere esatto e completo dei dati personali deve essere valutato alla luce della finalità per la quale essi sono stati raccolti.  Riguardo al caso di specie, la Corte ribadisce che l’informazione relativa all’identità di genere può essere qualificata come «dato personale», in quanto si riferisce a una persona fisica identificata o identificabile e oggetto di un «trattamento», perché è stato raccolto e registrato dall’autorità competente. Di conseguenza, il trattamento, che verte su dati contenuti o destinati a figurare in un archivio, rientra nell’ambito di applicazione ratione materiae del GDPR. Pertanto, la Corte Ue ribadisce che spetta al giudice ungherese verificare l’esattezza del dato alla luce della finalità per la quale esso è stato raccolto. Se la raccolta di tale dato aveva lo scopo di identificare la persona interessata, sembrerebbe riguardare l’identità di genere vissuta da tale persona, e non quella che le sarebbe stata assegnata alla nascita.    La rettifica dei dati relativi all’identità di genere non può essere subordinata alla prova di un trattamento chirurgico di riassegnazione del sesso. Lo ha sancito la Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza del 13 marzo 2025 (C-247/23): tale pronuncia rappresenta un importante precedente sulla tematica della transidentità, in quanto i giudici di Lussemburgo riconoscono il diritto alla rettifica dei dati personali, affermando che uno Stato membro non possa invocare l’assenza, nel proprio diritto nazionale, di una procedura di riconoscimento giuridico della transidentità per ostacolare l’esercizio di tale diritto.   In definitiva, quindi, e più precisamente, per la rettifica dei dati personali relativi all’identità di genere di una persona fisica, contenuti in un registro pubblico, se da un lato uno Stato membro può imporre alla persona di fornire gli elementi di prova pertinenti e sufficienti che si possono ragionevolmente richiedere per dimostrare l’inesattezza di questi dati, dall’altro lato però, esso non può in alcun caso subordinare, mediante una prassi amministrativa, l’esercizio del “diritto alla rettifica” alla produzione di prove di un trattamento chirurgico di riassegnazione sessuale.
          La Corte di Giustizia precisa che uno Stato membro non può invocare l’assenza, nel proprio diritto nazionale, di una procedura di riconoscimento giuridico della transidentità per ostacolare l’esercizio del diritto di rettifica. In particolare, la Corte Ue ricorda che sebbene il diritto dell’Unione non pregiudichi la competenza degli Stati membri in materia di stato civile delle persone e di riconoscimento giuridico della loro identità di genere, tuttavia devono rispettare il diritto dell’Unione compreso il GDPR, letto alla luce della Carta. Di conseguenza, la Corte europea conclude che il GDPR deve essere interpretato nel senso che esso impone a un’autorità nazionale incaricata della tenuta di un registro pubblico di rettificare i dati personali relativi all’identità di genere di una persona fisica qualora tali dati non siano esatti, ai sensi di tale regolamento. Diritto di rettifica dei dati ai fini della “riassegnazione del sesso” La Corte Ue constata che, ai fini dell’esercizio del suo diritto di rettifica, tale persona può essere tenuta a fornire gli elementi di prova pertinenti e sufficienti che possono ragionevolmente essere richiesti per dimostrare l’inesattezza di detti dati Tuttavia, l’art. 16 del GDPR non precisa quali siano gli elementi di prova che possono essere richiesti. Tali obblighi possono essere limitati dal diritto dell’Unione o degli Stati membri purché sia rispettata l’essenza dei diritti e delle libertà fondamentali e costituisca una misura necessaria e proporzionata in una società democratica per garantire taluni obiettivi di interesse pubblico generale, in particolare l’affidabilità e la coerenza dei registri pubblici. Nel caso di specie, risulta che l’Ungheria ha adottato una prassi amministrativa che subordina l’esercizio del diritto di rettifica alla presentazione di prove di un trattamento chirurgico di riassegnazione sessuale. Una tale prassi comporta, secondo la Corte Ue, una limitazione del diritto di rettifica e lede l’essenza del diritto all’integrità della persona e del diritto al rispetto della vita privata, tutelati dalla Carta. Inoltre, un siffatto requisito non è, in ogni caso, necessario né proporzionato al fine di garantire l’affidabilità e la coerenza di un registro pubblico, quale il registro dell’asilo, in quanto un certificato medico può costituire un elemento di prova pertinente e sufficiente.        
         AI: le ultime decisioni delle corti comparate sulla produzione di immagini
 Nel Regno Unito la Chancery Division della England and Wales High Court ha deciso una controversia di rilevanza internazionale in materia di intelligenza artificiale generativa relativa all’utilizzo senza consenso di 12 milioni di immagini, video e illustrazioni di proprietà di Getty Images da parte di Stability AI. L’utilizzo di tali immagini serviva per addestrare “Stable Diffusion”, cioè un modello GenAI “text-toimage”. La Getty Images lamenta la violazione del copyright sia per ciò che concerne l’utilizzo illecito in via generale sia per la riproduzione di parti sostanziali delle opere originali. Stability AI ha ammesso parzialmente l’utilizzo di tali immagini, ma senza specificare quali. La decisione del 14 gennaio 2025 ha natura procedimentale, ma fissa alcuni principi che potrebbero diventare rilevanti in particolare nell’ambito dell’udienza di Case Management (svoltasi in novembre) ove è stata rigettata l’istanza di altri titolari di copyright di venire rappresentati nella causa come se fosse una azione di classe. Siffatta istanza non è stata ritenuta ammissibile perché non erano stati assicurati i requisiti richiesti dalla legge. La Corte ha quindi invitato le parti non ammesse a ripresentare l’azione con prove più solide o una classe più circoscritta. Si osserva che analoga causa intercorrente tra le medesime         biometrico erano ancora concetti appartenenti alla fantascienza. In vent’anni il panorama tecnologico si è grandemente sviluppato, mentre i servizi di archiviazione fotografica non sono più attrattivi per il mercato né remunerativi per gli investitori. Pertanto, Photobucket si trova ad avere un archivio oltre 13 miliardi di immagini, che si propone di vendere ad aziende che sviluppano IA, senza però che gli utenti abbiano espresso esplicitamente il loro consenso. Ciò ha portato alla presentazione di una class action federale i cui primi aderenti sono una madre il cui figlio all’epoca minorenne, appariva nelle foto e un fotografo professionista. La causa intende rappresentare la quota più ampia possibile dei 100 milioni di iscritti che hanno affidato a Photobucket le proprie immagini e che negli ultimi anni hanno trascurato i loro account. Il cuore dell’azione giudiziaria concerne il tentativo di monetizzare l’archivio di foto a terzi per lo sviluppo di GenAI biometrica. In questo contesto verrebbe pure discussa la policy aziendale di inviare email in cui gli utenti venivano invitati a cancellare ovvero mantenere l’account attraverso l’indirizzamento ad una pagina che li obbligava ad accetare nuovi termini d’uso, comprensivo quello biometrico delle immagini. Inoltre, l’azienda avrebbe considerato automaticamente consenzienti gli utenti rimasti silenti nei 45 giorni concessi da Photobucket per effettuare siffatta scelta.      parti e avente il medesimo oggetto è pendente di fronte alla United States District Court of Delaware. Negli Stati Uniti, la United States District Court, Central District of California ha parzialmente accolto le richieste di Tesla e Warner Bros. Discovery, in una controversia avente ad oggetto l’uso abusivo di marchi e la violazione del copyright in merito all’uso non autorizzato di immagini del film Blade Runner 2049 per promuovere il cybercab autonomo di Tesla. Sotto il primo profilo, la Corte federale ha rigettato la domanda respingendo le accuse mosse dalla Alcon Entertainment affermando che considerati i differenti ambiti delle rispettive attività (intrattenimento cinematografico e automotive innovativo) non vi potesse essere confusione, mentre ha accolto l’istanza sulla violazione del copyright in relazione all’uso non autorizzato per la generazione con AI di immagini per la promozione del nuovo prodotto Tesla. Il giudice ha poi ordinato il rinvio della causa a una fase di mediazione. Sempre negli Stati Uniti, di fronte alla United States District Court, District of Colorado è pendente di una causa in relazione all’utilizzo dell’archivio fotografico di Photobucket, creato nel 2003 come servizio online per utenti di MySpace, in un’epoca in cui il trattamento massivo dei dati a scopo di machine learning e il riconoscimento facciale  Questa rassegna mensile di diritto della tecnologia è focalizzata sulle controversie concluse ovvero in corso inerenti gli strumenti di AI Generativa applicati alla creazione di immagini, sia per quel che concerne la violazione del diritto d’autore sia per ciò che riguarda del consenso all’uso dei dati inerenti l’immagine stessa.                              
    PRIVACY: L’OBBLIGO DI FORNIRE RISPOSTA A FRONTE DI UN’ISTANZA DI ACCESSO AGLI ATTI  
In materia di trattamento dei dati personali, il soggetto onerato dell’obbligo di fornire risposta in ordine al possesso (o meno) dei dati sensibili è il destinatario dell’istanza di accesso e non l’istante, dovendo il primo sempre riscontrare l’istanza dell’interessato, anche in termini negativi, dichiarando espressamente di essere, o meno, in possesso dei dati di cui si richiede l’ostensione. In questo modo si espresso il Tribunale di Spoleto con la sentenza n. 112 del 5 marzo 2025.        

NEWSLETTER 5/2025

Novita’ normative

Con la nota del 10 aprile 2025, il Ministero del Lavoro interviene sulla nuova procedura di dimissioni per fatti concludenti come prevista dal Collegato lavoro e già oggetto di interpretazione con la circolare n. 6/2025.

Un termine eccessivamente breve, sostiene il Ministero, potrebbe compromettere le garanzie minime di difesa del lavoratore, ritrovandosi nell’impossibilità di comunicare in modo tempestivo le ragioni dell’assenza. Una lettura che lo stesso Ministero definisce prudenziale, con lo scopo di assicurare un bilanciamento tra esigenze aziendali e diritti del lavoratore.

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, rispondendo ad una richiesta di chiarimenti da parte del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, datata 2 aprile 2024, fornisce alcune precisazioni in merito alle indicazioni contenute nella circolare ministeriale n. 6/2025 e relative alla procedura di dimissioni per fatti concludenti.

In particolare, per il Ministero del Lavoro:

•        il limite legale dei quindici giorni di assenza ingiustificata, decorso il quale scatta la risoluzione di fatto del rapporto di lavoro, “opera in via residuale, in assenza di previsione contrattuale. Tuttavia, l’espressione utilizzata dal legislatore (art. 19, L. n. 203/2024) per la quale il termine deve ritenersi in mancanza di previsione contrattuale, superiore a quindici giorni, ha fatto propendere per la considerazione, di prudenza, della non agibilità della previsione di termini inferiori da parte della contrattazione collettiva”. Nonostante l’art. 19 non preveda espressamente l’inderogabilità del termine dei quindici giorni, la norma non consente “interpretazioni peggiorative della posizione del lavoratore”;

•        se, “superato il termine per l’assenza ingiustificata e comunicata la circostanza all’Ispettorato territorialmente competente, quest’ultimo verifichi l’insussistenza dei presupposti richiesti dal nuovo comma 7-bis dell’art. 26 D.Lgs. n. 151/2015, il rapporto di lavoro dovrà pur sempre essere ricostituito per iniziativa del datore di lavoro”. Se però quest’ultimo non ritiene valide le ragioni del lavoratore, il rapporto di lavoro non potrà ricostituirsi in automatico;

•        se il lavoratore, dopo l’avvio della procedura di cui al nuovo comma 7-bis, “ma prima che la stessa abbia prodotto il suo effetto dismissivo, comunichi le proprie dimissioni, queste ultime produrranno gli effetti previsti dalla legge dal momento del loro perfezionamento”;

  • se il lavoratore, dopo l’avvio della procedura di cui al nuovo comma 7-bis, “ma prima che la stessa abbia prodotto il suo effetto dismissivo, qualifichi le proprie dimissioni come dovute a giusta causa, queste ultime produrranno gli effetti previsti dalla legge dal momento del loro perfezionamento”, ma la verifica della sussistenza delle ragioni che hanno portato al recesso per presunta giusta causa del lavoratore potrà essere oggetto in un successivo contraddittorio tra le parti, anche in sede giudiziale.

I premi di risultato ad personam vanno tassati ordinariamente.

Agenzia delle Entrate, risposta ad interpello n. 77 del 20 marzo 2025

Con risposta ad interpello n. 77/2025 l’Agenzia delle Entrate ha fornito chiarimenti in materia di welfare aziendale e di tassazione applicabile ai premi di risultato. La Società interpellante chiede se la quota di retribuzione variabile (c.d. MBO) correlata e quantificata in base al raggiungimento di obiettivi aziendali e/o collettivi, convertita dal dipendente in prestazioni di welfare, possa essere esclusa da imposizione.

Si precisa, innanzitutto, che i benefit, corrisposti ai dipendenti come parte di un sistema incentivante legato al raggiungimento di determinate performance, non danno diritto alle agevolazioni fiscali ex articolo 51 del TUIR, in quanto non sono destinati a una “generalità” o a “categorie” di dipendenti. In secondo luogo le disposizioni derogatorie del principio di onnicomprensività, avendo carattere agevolativo, non sono estensibili a fattispecie diverse da quelle previste normativamente, tra le quali non è compresa l’ipotesi di applicazione in sostituzione di retribuzioni, altrimenti imponibili, in base ad una scelta dei soggetti interessati. Di conseguenza, in quanto non sono soddisfatti i requisiti per l’esclusione da imposizione, nel caso esaminato va applicata la tassazione ordinaria e la quota di retribuzione variabile (c.d. MBO) concorre a formare il reddito di lavoro dipendente.

Assunzione donne (“Bonus donne”) – Esonero contributivo.

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha emanato il Decreto Interministeriale, con i criteri e le modalità attuative dell’esonero introdotte dell’art. 23 del D.L. 7 maggio 2024, n. 60, convertito, con modificazioni, dalla Legge 4 luglio 2024, n. 95 (Bonus Donne).

Ai datori di lavoro privati che assumono donne, con i requisiti previsti dalla legge e con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, è riconosciuto un esonero contributivo, nel limite massimo mensile di 650 euro per ciascuna lavoratrice.

La data di decorrenza delle assunzioni agevolate e la loro durata è differenziata a seconda dei seguenti parametri:

•        dal 31 gennaio 2025 e fino al 31 dicembre 2025 per le assunzioni di donne prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi, residenti nelle regioni dell’area ZES (Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Sicilia, Puglia, Calabria e Sardegna) > esonero contributivo pari al 100% dei complessivi contributi previdenziali a carico del datore di lavoro, per 24 mesi, nel limite massimo di importo pari a 650 euro su base mensile per ciascuna lavoratrice e comunque nei limiti della spesa;

•        dal 1° settembre 2024 e fino al 31 dicembre 2025 per le assunzioni di donne prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno 24 mesi, ovunque residenti > esonero contributivo pari al 100% dei complessivi contributi previdenziali a carico del datore di lavoro, per 24 mesi, nel limite massimo di importo pari a 650 euro su base mensile per ciascuna lavoratrice e comunque nei limiti della spesa;

  • dal 1° settembre 2024 e fino al 31 dicembre 2025 per le assunzioni di donne occupate nelle professioni o settori di cui all’art. 2, punto 4), lettera f), del Regolamento (UE) 2014/651, annualmente individuate con decreto del Ministro del lavoro > esonero contributivo pari al 100% dei complessivi contributi previdenziali a carico del datore di lavoro, per 12 mesi, nel limite massimo di importo pari a 650 euro su base mensile per ciascuna lavoratrice e comunque nei limiti della spesa.

L’Accordo Stato – Regioni siglato il 17 aprile 2025 ha introdotto percorsi formativi obbligatori sulla sicurezza sul lavoro destinati a datori, dirigenti, RSPP e ASPP, con un’attenzione particolare per le molestie e le violenze nei luoghi di lavoro.

La formazione include la Convenzione 190 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, adottata nel 2019 e recepita in Italia nel 2021.

INAIL, circolare n. 26 del 7 aprile 2025.

Termine di prescrizione dei premi INAIL a seguito di accertamento ispettivo.

Nella circolare n. 26/2025 l’Inail riassume a disciplina in materia di prescrizione dei crediti per premi e accessori, secondo gli orientamenti giurisprudenziali consolidati, chiarendo che l’azione per riscuotere i premi di assicurazione, e in genere le somme dovute dai datori di lavoro all’Istituto assicuratore, si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui se ne doveva eseguire il pagamento.

Sono inoltre richiamate le vigenti istruzioni operative sull’attività di vigilanza, anche alla luce delle novità del decreto-legge n. 19/2024, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 56/2024, per garantire uniformità di comportamento nello svolgimento degli accertamenti ispettivi.

Provvedimento INAIL, 21 marzo 2025.

Sindrome da stress per incidente stradale: è infortunio sul lavoro.

Vale la pena segnalare un caso di tutela di diritti ottenuta non in giudizio, ma per effetto di una

buona interlocuzione tra Patronato e Inail. L’Inca Cgil di Milano ha assistito un autista di una compagnia di bus che era stato coinvolto in un grave incidente stradale: mentre rientrava al deposito dopo una corsa, il motore del bus prendeva fuoco e l’autista rischiava di rimanere intrappolato nel mezzo, riuscendo a salvarsi solo grazie all’intervento di alcuni soccorritori.

Il lavoratore, pur fisicamente illeso, dopo alcuni giorni avvertiva un forte senso di ansia e inquietudine che sfociava poi in attacchi di panico e sintomi tali da richiedere cure sanitare e un significativo periodo di malattia. Assistito dal Patronato, il fatto veniva segnalato come infortunio sul lavoro, chiedendo la conversione del periodo da malattia in infortunio.

L’Istituto a seguito di analisi della documentazione medica ha riconosciuto l’infortunio, concedendo l’indennità per inabilità temporanea e rinviando a un momento successivo la valutazione della menomazione dell’integrità psico-fisica. Il caso è significativo perché il disturbo da stress post-traumatico, in genere associato al coinvolgimento in catastrofi naturali o conflitti, viene qui associato e riconosciuto per un episodio lavorativo.

Novita’ GIURISPRUDENZIALI

Corte di Cassazione sentenza n. 9526/2025.

È una forma legittima di autotutela collettiva la decisione dei dipendenti di svolgere la prestazione in accordo con l’orario previsto dal Ccnl e disattendo i turni a scorrimento del datore che non intende corrispondere l’indennità economica.

Per i giudici, nel concetto di libertà sindacale, ribadito tanto dalla Costituzione quanto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, rientrano le iniziative dei lavoratori senza l’intermediazione di un sindacato: meritano tutela, al pari del diritto di sciopero, le proteste svolte in forma collettiva, senza sospendere la prestazione.

Corte di Cassazione ordinanza n. 10648/2025.

La reperibilità sul luogo di lavoro rientra a pieno titolo nell’orario di lavoro e determina una compressione della libertà personale.

Il tempo trascorso nella sede lavorativa per la reperibilità notturna impone la corresponsione di una compensazione economico proporzionata per aver garantito la propria presenza e disponibilità per eventuali esigenze improcrastinabili, anche se non si concretizzano in interventi realmente effettuati.

Tribunale di Milano, 3 aprile 2025,

Discriminatoria l’”indennità di presenza” prevista dal CCNL Agenzie di Sicurezza sottoscritto da UGL.

Il Tribunale accoglie il ricorso proposto dall’organizzazione sindacale e condanna per condotta discriminatoria la società, attiva nel settore della guardiania e vigilanza, che applicava il contratto collettivo UGL-AISS. In particolare, il Giudice ha accertato e dichiarato il carattere discriminatorio della mancata maturazione e corresponsione dell’indennità di presenza (prevista dall’art. 73 del CCNL) nei casi di assenza per permessi previsti dalla Legge n. 104/1992, per congedi parentali e per i lavoratori inquadrati al livello 6I per i primi 12 mesi di assunzione. La sentenza sottolinea come la mancata erogazione dell’indennità in tali circostanze crei una disparità di trattamento non giustificata e una discriminazione multifattoriale (per età, genere e disabilità) e, pertanto, dichiara nulla la clausola del CCNL, ordinando alla società di riconoscere l’indennità anche nei casi sopra citati e di adottare un piano per rimuovere gli effetti delle condotte discriminatorie.

Corte di Cassazione, ordinanza 8 aprile 2025, n. 9258.

Nullità del patto di non concorrenza per vizi del corrispettivo.

Una banca aveva chiesto la condanna di un ex dipendente al pagamento della penale per violazione del patto di non concorrenza, lamentando lo sviamento di clienti verso un’altra società concorrente. I giudici di merito avevano ritenuto nullo il patto per indeterminatezza del corrispettivo, in quanto collegato alla durata del rapporto di lavoro e senza un importo minimo garantito. La Cassazione cassa con rinvio, chiarendo che: (i) il patto è valido se il corrispettivo è a norma dell’art. 1346 c.c., determinato o determinabile secondo parametri oggettivi, anche se variabile in relazione alla durata del rapporto; (ii) la sola variabilità non implica indeterminatezza, specie se — come nel caso di specie — il datore contesta che la cessazione anticipata incida sull’importo dovuto; (iii) la nullità per incongruità o sproporzione del compenso opera, ex art. 2125 c. c., su un piano distinto da quella per indeterminatezza: i due vizi non possono essere confusi o sovrapposti. La Corte rileva che i giudici d’appello hanno erroneamente sovrapposto i due profili, generando un vizio motivazionale che impedisce il controllo sulla correttezza logico-giuridica della decisione.

Tribunale di Parma, 26 febbraio 2025.

Prendere sul serio il patto di non concorrenza: un caso di conferma delle violazioni da parte di un promotore finanziario.

Il Tribunale rigetta la domanda proposta da un “private banker” volta ad accertare la nullità del patto di non concorrenza sottoscritto con il precedente datore di lavoro e lo condanna a cessare le attività in concorrenza e al pagamento della penale pattuita. In motivazione vengono esaminati alcuni dei tanti profili di possibile illegittimità di un p.n.c., tra cui quello del compenso ritenuto determinabile anche se erogato mensilmente nel corso del rapporto, laddove sia previsto un minimo garantito. Secondo il giudice, inoltre, la clausola che attribuisce alla banca il potere di recesso unilaterale può essere considerata legittima laddove questo potere possa essere esercitato solo in costanza di rapporto e con un congruo preavviso.

Corte di cassazione, ordinanza 3 aprile 2025 n. 8849.

Mai retroattivo il patto di prova.

La Corte d’appello aveva respinto le domande di impugnazione di un licenziamento, accertando che il rapporto di lavoro si era risolto, per dimissioni o per recesso datoriale, ma comunque in pendenza di un patto di prova e pertanto in regime di libera recedibilità reciproca. La cassazione censura al riguardo la decisione dei giudici di merito per non avere dato rilievo al fatto, dedotto in giudizio dal lavoratore, che il patto di prova prodotto in giudizio dalla società era privo della sottoscrizione di quest’ultima e quindi nullo ab origine. E seppure il fatto di averlo la società prodotto in giudizio sottoscritto dal dipendente possa ritenersi equipollente della sottoscrizione mancata, il relativo perfezionamento si produce solo da quel momento e non retroagisce all’inizio del rapporto. La conseguenza è che il recesso, dimissioni o licenziamento che sia, è da ritenersi avvenuto in regime vincolato.

Corte di Cassazione, ordinanza 8 aprile 2025, n. 9286.

Conciliazione sindacale solo nella sede sindacale.

Si consolida l’orientamento inaugurato da Cass. n. 10065/2024 (in questa N.L. n. 10/2024), secondo cui è impugnabile ex art. 2113 c. c. la conciliazione su diritti indisponibili del dipendente, da questi stipulata con l’assistenza di un sindacalista, ma nella sede aziendale e non in quella sindacale. Analoga vicenda riguarda il presente giudizio, nel quale è altresì conseguentemente impugnato il licenziamento oggetto della conciliazione. In proposito, la Corte ribadisce che la inoppugnabilità delle conciliazioni in questione fonda non solo sull’assistenza del lavoratore da parte di un rappresentante sindacale ma anche sul luogo in cui essa avviene, essendo ambedue tali circostanze necessarie al fine di garantire la libera determinazione del lavoratore e l’assenza di condizionamenti.

Corte di Cassazione, ordinanza 27 marzo 2025, n. 8152.

A carico del datore la pulizia delle divise degli addetti alla nettezza urbana.

Il ricorso avverso la sentenza della Corte d’appello che, ritenendo generici i dati forniti per accertare l’ammontare del danno, aveva negato ad alcuni dipendenti operai addetti al servizio di nettezza urbana ed extraurbana il risarcimento dei danni subiti per aver dovuto provvedere personalmente e a proprie spese alla pulizia costante della divisa di lavoro, costituisce per la Corte l’occasione per ricordare la propria giurisprudenza consolidata in materia di sicurezza e igiene dei luoghi di lavoro. In proposito, la Corte ha riaffermato che la nozione di dispositivi di sicurezza individuale (oggetto di un obbligo del datore di lavoro di continua fornitura e manutenzione) ricomprende anche gli “indumenti di lavoro specifici”, ossia le divise o gli abiti aventi la funzione di tutelare l’integrità fisica del lavoratore, nonché quegli altri indumenti, essenziali in relazione a specifiche e peculiari funzioni, volti ad eliminare o quanto meno a ridurre i rischi ad esse connessi, o anche solo a migliorare le condizioni igieniche in cui viene a trovarsi il lavoratore nello svolgimento delle sue incombenze. Ne consegue che ove la pulizia di tali indumenti sia stata lasciata alla cura dei dipendenti, ad essi devono essere rimborsare le spese relative (provabili anche per testimoni) e deve essere risarcito il danno (non irrazionalmente stabilito in un’ora di retribuzione a settimana).

Corte di Cassazione, ordinanza 24 marzo 2025, n. 7826.

Inadempimento del dipendente e tolleranza del datore.

Nel giudizio di impugnazione del licenziamento comunicato a un dipendente per avere fumato in una zona dell’azienda in cui era vietato, la Corte d’appello aveva accolto le domande, ritenendo che la precedente tolleranza della società all’abitudine dei dipendenti di fumare in quel luogo togliesse il carattere di illiceità al fatto. La decisione è cassata con rinvio dai giudici di legittimità, i quali, accogliendo il ricorso del datore di lavoro, osservano che: (i) nel caso in cui siano accertati gli elementi oggettivi e soggettivi dell’inadempimento del dipendente (nel caso in esame: l’avere fumato in luogo di divieto, consapevole di questo), la mera tolleranza della società datrice in ordine a fatti simili nel passato non è di per sé idonea a escludere l’antigiuridicità della condotta; (ii) occorrono, infatti, elementi ulteriori estranei alla condotta del trasgressore, capaci di ingenerare in lui l’incolpevole convinzione della liceità della condotta. Può anche trattarsi, per escludere la colpa, del comportamento reiterato del soggetto addetto al controllo dell’osservanza del divieto, ma sempre che si accerti che l’affidamento che esso ingenera escluda ogni incertezza sulla legittimità della condotta, accertamento che nel caso in esame è mancato.

Tribunale di Milano, 12 dicembre 2024

Sospetti di furto generici e su tutti i dipendenti: illecito il controllo a distanza e il licenziamento disciplinare, lavoratore reintegrato.

Il Tribunale accoglie il ricorso presentato da un lavoratore e lo reintegra sul posto di lavoro dopo aver dichiarato illegittimo il licenziamento disciplinare basato su filmati di furti di beni aziendali nel punto vendita. Secondo il Giudice, i controlli tramite impianti di videosorveglianza che hanno condotto al licenziamento non possono essere ritenuti controlli difensivi, in quanto basati su generici sospetti su tutti i lavoratori addetti al punto vendita interessato dai furti. Pertanto, l’installazione di impianti di videoregistrazione da parte di un investigatore privato assoldato dalla società contrasta con l’art. 4, l. 300/1970 e tale attività di controllo non può fondare il licenziamento.

NEWSLETTER PRIVACY

APRILE 2025

Via libera al Senato al disegno di legge su AI.

È stato approvato in Senato il Ddl. 1146, recante “Disposizioni e delega al Governo in materia di intelligenza artificiale” che, insieme al Regolamento Ue 2024/1689, compone il quadro normativo in tema di AI applicabile in Italia. Il testo passa ora all’esame della Camera.

Il Ddl., in particolare, è destinato a disciplinare gli spazi normativi rimessi dal Regolamento all’autonomia degli Stati membri, con l’obiettivo di promuovere un utilizzo “corretto, trasparente e responsabile, in una dimensione antropocentrica” dell’AI e garantire la vigilanza sui rischi economici e sociali e sull’impatto sui diritti fondamentali dell’intelligenza artificiale (art. 1 comma 1).

Il disegno di legge è composto da 6 Capi, dedicati a norme di principio (artt. da 1 a 6), a disposizioni relative a settori strategici (sanità, lavoro, giustizia, professioni intellettuali, disabilità, Pubblica Amministrazione; artt. da 7 a 16), a governance, autorità nazionali e azioni di promozione (artt. da 17 a 22), a disposizioni a tutela degli utenti e in materia di diritto d’autore (artt. 23 e 24), a sanzioni penali (art. 25) e disposizioni finanziarie (art. 26).

Tra gli aspetti che interesseranno i professionisti va segnalato l’art. 12 che, nel testo approvato, stabilisce che l’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale nelle professioni intellettuali “è finalizzato al solo esercizio delle attività strumentali e di supporto all’attività professionale e con prevalenza del lavoro intellettuale oggetto della prestazione d’opera”.

La Relazione al Ddl spiega che la disposizione è finalizzata ad assicurare che, nelle professioni intellettuali, il pensiero critico dell’uomo sia prevalente rispetto all’AI, di modo che il ricorso a quest’ultima non snaturi la funzione della professione intellettuale (mettere a disposizione le proprie competenze specifiche) e non mini la relazione tra cliente e professionista.

Per assicurare il rapporto fiduciario tra le parti, il comma 2 della disposizione stabilisce, inoltre, che “le informazioni relative ai sistemi di intelligenza artificiale utilizzati dal professionista sono comunicate al soggetto destinatario della prestazione intellettuale con linguaggio chiaro, semplice ed esaustivo”. Per dimostrare l’avvenuta comunicazione, potrebbe essere necessario, quindi, predisporre un’informativa da far firmare al cliente.

L’uso consapevole di sistemi AI da parte dei professionisti dovrebbe essere favorito anche da percorsi di alfabetizzazione e formazione al loro utilizzo. In questa prospettiva, l’art. 22 del testo delega il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per l’adeguamento della normativa nazionale al Regolamento Ue 2024/1689, che attribuiranno agli ordini professionali il compito di organizzare percorsi di alfabetizzazione e formazione per i professionisti all’uso dei sistemi di intelligenza artificiale. La medesima disposizione prevede la possibilità di una modulazione dell’equo compenso sulla base dei rischi e delle responsabilità connessi all’uso dell’intelligenza artificiale da parte del professionista.

L’art. 14, poi, definisce i limiti per l’impiego dei sistemi di intelligenza artificiale in un ambito qualificato dal Regolamento Ue come “ad alto rischio”, quello dell’attività giudiziaria. La norma dispone che, in caso di utilizzo dell’AI, debbano in ogni caso essere riservate al magistrato le decisioni sull’interpretazione e l’applicazione della legge, sulla valutazione dei fatti e delle prove e sull’adozione dei provvedimenti.

È, invece, consentito l’utilizzo dell’intelligenza artificiale per l’organizzazione dei servizi relativi alla giustizia, per la semplificazione del lavoro giudiziario e per le attività amministrative accessorie, la cui disciplina è demandata al Ministro della giustizia.

Intervento anche sulla disciplina sugli “impatriati” L’art. 20 è volto a integrare la disciplina fiscale di favore per i lavoratori rimpatriati, prevedendo che il requisito dell’elevata qualificazione possa ritenersi soddisfatto anche quando il lavoratore ha svolto “un’attività di ricerca anche applicata nell’ambito delle tecnologie di intelligenza artificiale”. Come precisa la Relazione tecnica al Ddl, l’intervento non comporta oneri aggiuntivi per la finanza pubblica, in quanto volto a specificare la possibilità di accesso al regime agevolato per soggetti “sicuramente in possesso dei requisiti di elevata qualificazione o specializzazione”; si tratta di una modifica intenzionata ad agevolare la mobilità di tali soggetti avrebbe potuto più utilmente prevedere che gli stessi siano esonerati dal requisito della residenza estera “rafforzata”.

Telemarketing: Garante privacy, stop ai consensi “omnibus”.

Sanzionata per 300mila euro società fornitrice di energia elettrica e gas.

Il consenso alla cessione dei dati personali a terzi per finalità di marketing può considerarsi realmente libero soltanto se all’interessato sono garantiti una scelta effettiva e il controllo sui propri dati. L’utilizzo di formule generiche che non permettano di selezionare la singola categoria merceologica delle offerte commerciali desiderate (p.e. telefonia, forniture energetiche, servizi assicurativi, moda, auto ecc.), non è quindi in linea con la normativa privacy e non può far venir meno gli effetti della opposizione manifestata con l’iscrizione al Registro Pubblico delle Opposizioni. Lo stesso principio vale per form e informative che ostacolino l’esercizio dei diritti riconosciuti all’interessato in ordine alla scelta degli strumenti attraverso cui ricevere le comunicazioni promozionali.

È quanto affermato dal Garante privacy nel sanzionare Energia Pulita S.r.l., società fornitrice di energia elettrica e gas, per aver trattato in modo illecito i dati di un centinaio di persone che si erano rivolte all’Autorità lamentando la ricezione di chiamate indesiderate effettuate in mancanza di un’idonea base giuridica e, in molti casi, utilizzando tecniche commerciali particolarmente insidiose.

Il ricorso a simili form per l’acquisizione del consenso, inoltre, non permette di esprimere una valida, consapevole e inequivocabile manifestazione di volontà, realizzando invece un’incontrollabile diffusione di dati personali a favore di una platea indistinta di operatori.

Nel corso dell’istruttoria dell’Autorità, è stato accertato anche che la società si è avvalsa di soggetti interni ed esterni all’organizzazione aziendale, violando gli obblighi gravanti sul titolare del trattamento riguardo all’individuazione, formazione, direzione e monitoraggio sull’operato dei soggetti designati. Oltre al pagamento della sanzione di 300mila euro, il Garante ha vietato alla società l’ulteriore trattamento dei dati personali dei segnalanti e le ha ingiunto di predisporre adeguati controlli sulla propria rete di vendita e implementazioni dei sistemi, per escludere che possano fare ingresso nel patrimonio aziendale contratti generati da contatti illeciti.

Lavoro: Garante privacy, no al controllo a distanza.

Sanzione di 50mila euro a un’azienda di autotrasporto per Gps installati sui veicoli.

Il Garante Privacy ha sanzionato un’azienda di autotrasporto per aver controllato in modo illecito circa 50 dipendenti, durante la loro attività lavorativa, utilizzando un sistema Gps installato sui veicoli aziendali. Diverse le violazioni riscontrate dall’Autorità, intervenuta a seguito della ricezione di un reclamo da parte di un ex dipendente dell’azienda. 

Dalle ispezioni, effettuate in collaborazione con il Nucleo tutela privacy della Guardia di finanza, è emerso che il sistema Gps tracciava in modo continuativo i dati di localizzazione, velocità, chilometraggio e stato dei veicoli (ad es. quando erano spenti o accesi), senza rispettare la normativa privacy e in modo difforme da quanto previsto dal provvedimento autorizzatorio rilasciato dall’Ispettorato territoriale del lavoro.

In particolare, sono state rilevate gravi carenze nell’informativa fornita ai lavoratori, tra cui la mancata indicazione delle specifiche modalità con cui il trattamento veniva realizzato e la informazione relativa alla diretta identificabilità dei conducenti dei veicoli geolocalizzati.

Tali trattamenti sono risultati contrari anche alle specifiche misure di garanzia indicate dall’Ispettorato del lavoro nel provvedimento di autorizzazione che era stato rilasciato all’azienda, che infatti prevedeva l’anonimizzazione dei dati raccolti e l’adozione di soluzioni tecnologiche in grado di limitare la raccolta di dati personali non necessari o eccedenti rispetto alle finalità di sicurezza e organizzazione aziendale. 

Inoltre, i dati raccolti venivano conservati per oltre 5 mesi, in violazione dei principi di minimizzazione e limitazione della conservazione dei dati stabiliti dal Regolamento UE.

Il Garante, in considerazione delle numerose e gravi violazioni riscontrate, oltre al pagamento di una sanzione di 50mila euro, ha ordinato all’azienda di fornire un’idonea informativa ai dipendenti e di adeguare i trattamenti effettuati attraverso il sistema Gps alle garanzie prescritte nel provvedimento autorizzatorio rilasciato, a suo tempo, dall’Ispettorato territoriale del lavoro all’azienda.

Garante: ok al nuovo sistema di fatturazione elettronica per gli operatori sanitari

La risposta dell’Autorità alle richieste di chiarimenti ricevute

Il nuovo sistema di fatturazione elettronica per i professionisti sanitari, che andrà a regime dal 1° gennaio 2026, è in linea con la normativa in materia di protezione dei dati personali. Il chiarimento del Garante privacy risponde ad alcuni quesiti, rivolti all’Autorità, da parte degli operatori che effettuano prestazioni sanitarie nei confronti dei loro pazienti.

Con il parere favorevole del 7 dicembre 2023, il Garante privacy ha infatti ritenuto che il decreto del MEF sulle modalità di utilizzo da parte dell’Agenzia delle entrate dei dati fiscali delle fatture e dei corrispettivi trasmessi al Sistema Tessera sanitaria individuasse misure appropriate a tutela dei dati sanitari degli assistiti.

L’Agenzia delle entrate potrà acquisire i soli dati effettivamente indispensabili ai fini fiscali, mentre saranno esclusi i dati relativi alla salute degli interessati (descrizione della prestazione e codice fiscale dell’assistito). L’attuale quadro normativo, in vigore – salvo proroghe – fino al 31 dicembre 2025, prevede che in nessun caso una fattura elettronica relativa all’erogazione di una prestazione sanitaria nei confronti degli assistiti debba essere emessa attraverso il Sistema di Interscambio.

Propaganda elettorale: Garante, no all’uso dei dati dei pazienti

Sanzionati due medici liguri per 10mila euro ciascuno.

I dati personali raccolti nell’ambito dell’attività di cura della salute da parte dei sanitari non sono utilizzabili per fini di propaganda elettorale senza uno specifico consenso degli interessati.

È quanto ha ribadito il Garante privacy sanzionando due medici per aver utilizzato gli indirizzi dei pazienti per promuovere le proprie candidature in occasione delle elezioni comunali. In entrambi i casi l’Ufficio è venuto a conoscenza della violazione da una segnalazione e da alcune notizie stampa.

In un caso l’illecito è stato considerato particolarmente grave perché un chirurgo oncologo ha dichiarato di aver contattato una cinquantina di donne con le quali si era creato un rapporto “più stretto e personale” inviando loro lettere di propaganda elettorale. Per espressa ammissione del medico le destinatarie erano tutte pazienti oncologiche e il contenuto del messaggio elettorale richiamava espressamente la loro malattia.

Nell’altro caso un medico di medicina generale aveva inviato una mail di promozione elettorale a 500 pazienti, i cui indirizzi erano stati messi contestualmente in chiaro e non in copia conoscenza nascosta, rivelando a tutti la condizione di malati di ciascuno di loro.Il fatto stesso di comunicare l’esigenza di un trattamento sanitario, ha chiarito il Garante, qualifica i dati personali come dati sulla salute e come tali meritevoli di particolari tutele. L’Autorità ha precisato inoltre che, in entrambe le circostanze, il trattamento dei dati dei pazienti poteva essere effettuato per finalità di cura e non anche per propaganda elettorale. Nel definire la sanzione di 10mila euro per ciascun dottore, l’Autorità ha tenuto conto anche del fatto che i due medici non erano stati destinatari di precedenti disposizioni o sanzioni del Garante. I provvedimenti dovranno essere pubblicati sul sito dell’Autorità e inviati all’Ordine dei medici per le valutazioni di competenza.

Trattamento dati personali nel rapporto di lavoro: si rispettano le norme sulla privacy.

Qualsiasi trattamento di dati personali nell’ambito del rapporto di lavoro deve rispettare gli obblighi risultanti dalle disposizioni del GDPR.

In particolare, la Corte di Giustizia Ue ha affermato, nella sentenza del 19 dicembre 2024 (C-65/23), che una disposizione nazionale avente ad oggetto il trattamento di dati personali ai fini dei rapporti di lavoro deve vincolare i suoi destinatari a rispettare non solo i requisiti derivanti dall’art. 88, par. 2, del regolamento Privacy, ma anche quelli che discendono dall’art. 5 e 6. La Corte Ue ha anche precisato che qualora un contratto collettivo rientri nell’ambito di applicazione di tale disposizione, il margine di discrezionalità di cui dispongono le parti del contratto, per determinare il carattere «necessario» di un trattamento di dati personali, non impedisce al giudice nazionale di esercitare un controllo giurisdizionale completo al riguardo. La questione fa riferimento a una controversia pendente dinanzi alla Corte federale del lavoro tedesca e insorta tra il sig. MK (persona fisica) e la società K GmbH (sua datrice di lavoro), in merito al risarcimento del danno morale che MK asserisce di aver subito a causa di un trattamento dei suoi dati personali effettuato dalla società sulla base di un accordo aziendale

Un impiegato della società tedesca K GmbH, presidente del comitato aziendale costituito presso tale società asserisce di aver subito dei danni per un trattamento dei suoi dati personali effettuato sulla base di un accordo aziendale. La società, infatti, ha proceduto al trattamento di alcuni dati personali dei suoi dipendenti nell’ambito dell’utilizzo di un software denominato «SAP», a fini contabili. Sulla base di accordi aziendali conclusi con il suo comitato aziendale, il gruppo di società D, a cui appartiene la società convenuta, ha introdotto in tutto il gruppo il software «Workday», che opera nel cloud, come sistema unico per la gestione delle informazioni sul personale. La K GmbH ha trasferito diversi dati personali dei suoi dipendenti dal software SAP a un server della società madre del gruppo D, situato negli Stati Uniti.

Il 3 luglio 2017 la K GmbH e il suo comitato aziendale hanno concluso un accordo che stabiliva una tolleranza quanto all’introduzione del software Workday il quale vietava che tale software fosse utilizzato a fini di gestione delle risorse umane, come la valutazione di un lavoratore, durante la fase di sperimentazione. In base all’accordo, le sole categorie di dati che potevano essere trasferite per alimentare il software Workday erano il numero di matricola assegnato al lavoratore all’interno del gruppo D, il suo cognome, il suo nome, il suo numero di telefono, la sua data di entrata in servizio nella società interessata, la data della sua entrata in servizio nel gruppo D, il suo luogo di lavoro, il nome della società interessata, nonché i suoi numeri di telefono e di indirizzo di posta elettronica professionali. Gli effetti di tale accordo sono stati prorogati fino all’entrata in vigore di un accordo aziendale definitivo, concluso il 23 gennaio 2019.

In questo contesto, il ricorrente dinanzi al Tribunale del lavoro e successivamente dinanzi al Tribunale superiore del lavoro del Land, ha presentato delle domande dirette ad ottenere l’accesso a talune informazioni, la cancellazione di dati che lo riguardavano e la concessione di un risarcimento, sostenendo che la K GmbH avesse trasferito, verso il server della società controllante, dati personali che lo riguardavano, alcuni dei quali non erano menzionati nell’accordo aziendale.

Non avendo ottenuto una completa soddisfazione, la ricorrente ha presentato un ricorso per cassazione presso la Corte federale del lavoro, giudice del rinvio.

La Corte Ue di Giustizia europea, richiamando una costante giurisprudenza, ha ribadito che qualsiasi trattamento di dati personali deve rispettare i principi che disciplinano il trattamento di tali dati nonché i diritti dell’interessato enunciati, rispettivamente, ai capi II e III del GDPR. In particolare, deve essere conforme ai principi relativi al trattamento di tali dati enunciati all’art. 5 e soddisfare le condizioni di liceità elencate all’art. 6. Il rispetto degli obblighi risultanti da tali disposizioni, ha affermato la Corte Ue, è previsto anche nel caso in cui siano state adottate dagli Stati membri «norme più specifiche».

La Corte Ue pur riconoscendo che le parti di un contratto collettivo sono in genere nella posizione migliore per valutare se un trattamento di dati sia necessario in un contesto professionale concreto, ha affermato che tuttavia, tale processo di valutazione non deve indurre le parti a scendere a compromessi, di natura economica o di convenienza, che potrebbero pregiudicare l’obiettivo del GDPR di garantire un elevato livello di protezione dei diritti e delle libertà fondamentali dei dipendenti in relazione al trattamento dei loro dati personali. Ne consegue, pertanto, la necessità di un controllo giurisdizionale completo su un contratto collettivo da parte dei giudici nazionali al fine di verificare se le giustificazioni addotte dalle parti del contratto stabiliscano il carattere necessario del trattamento dei dati personali che ne deriva: una interpretazione che negasse l’esercizio di un controllo giurisdizionale completo su un contratto collettivo “non sarebbe compatibile con tale regolamento, tenuto conto dell’obiettivo di protezione ricordato nel punto precedente della presente sentenza”.

La Corte di Giustizia Ue conclude sottolineando che, qualora il giudice nazionale adito giungesse alla conclusione, all’esito del suo controllo, che alcune disposizioni del contratto collettivo in questione non rispettano le condizioni e i limiti prescritti dal GDPR, sarebbe tenuto a non applicare tali disposizioni.

AI e gestione dei lavoratori: utile la partecipazione contro i rischi psicosociali. Una nuova ricerca di Eu-Osha sottolinea l’importanza della rappresentanza sindacale per mitigare le criticità derivanti dall’uso di sistemi organizzativi basati sull’intelligenza artificiale

Un recente studio dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (Eu-Osha) analizza l’impatto sui rischi psicosociali dei sistemi di gestione dei lavoratori basati sull’intelligenza artificiale (Aiwm). Se da un lato questi strumenti possono migliorare la sicurezza sul lavoro, dall’altro rischiano di aumentare la sorveglianza e il controllo, con effetti negativi sul benessere del personale. Il coinvolgimento dei rappresentanti sindacali emerge come elemento fondamentale per mitigare tali rischi.

L’Aiwm: benefici e rischi per i lavoratori. L’adozione di tecnologie basate sull’intelligenza artificiale per la gestione dei lavoratori (artificial intelligence based worker management – Aiwm) sta crescendo in molti settori. Questi sistemi raccolgono enormi quantità di dati sul lavoro, dai compiti eseguiti alle modalità di utilizzo degli strumenti digitali, per prendere decisioni automatizzate sulla gestione delle risorse umane. L’Aiwm può così senz’altro migliorare l’efficienza operativa, ma il rovescio della medaglia è concreto e consiste nell’intensificazione della sorveglianza con una conseguente erosione dell’autonomia lavorativa, da cui derivano l’aumento della pressione sulle performance e dello stress. Questi rischi sono particolarmente evidenti nei contesti dove il controllo umano è ridotto e le decisioni si basano su algoritmi poco trasparenti.

La partecipazione dei lavoratori nella gestione dei rischi. Secondo l’Eu-Osha, una delle soluzioni più efficaci per prevenire e mitigare i rischi psicologici derivanti dall’Aiwm è il coinvolgimento attivo dei lavoratori, e in particolare dei loro rappresentanti, nei processi decisionali relativi all’adozione di queste tecnologie. L’osservazione dell’esperienza di una società mineraria svedese ha dimostrato che la partecipazione dei sindacati e dei rappresentanti dei lavoratori nella progettazione e implementazione dei sistemi AI ha contribuito a ridurre i rischi associati all’uso di dati personali per il monitoraggio delle prestazioni. Un altro esempio positivo arriva dal settore manifatturiero danese, dove la collaborazione tra lavoratori e datori di lavoro ha permesso di perfezionare l’uso delle tecnologie senza compromettere il benessere dei dipendenti.

Nonostante i benefici evidenti della partecipazione sindacale, le difficoltà non mancano. La complessità e l’opacità di queste tecnologie rendono difficile per i sindacati monitorarle e negoziarne efficacemente le modalità di utilizzo. Inoltre, l’equilibrio di potere tra datori di lavoro e lavoratori, che varia notevolmente a seconda dei settori e delle dimensioni aziendali, può ridurre la capacità dei rappresentanti dei lavoratori di influire sulle scelte tecnologiche. È quindi fondamentale che le normative evolvano per favorire un maggiore coinvolgimento dei lavoratori e garantire una gestione trasparente dell’AI.

Lo studio suggerisce che, per mitigare i rischi psicosociali derivanti dai sistemi Aiwm, è necessario un rafforzamento delle strutture di rappresentanza dei lavoratori. I sindacati e i rappresentanti della sicurezza sul lavoro devono essere dotati di strumenti e conoscenze tecniche adeguate a partecipare attivamente ai processi di implementazione e monitoraggio dell’Aiwm. Inoltre, andrebbe garantito ai lavoratori il diritto di essere informati e consultati riguardo l’introduzione di nuove tecnologie, creando un ambiente favorevole al dialogo sociale e alla contrattazione collettiva per regolare l’uso di questi sistemi


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NEWSLETTER 4/2025

Novita’ normative

Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha emanato la circolare n. 6 del 27 marzo 2025, con la quale illustra i principali interventi attuati con il cosiddetto “Collegato lavoro” (legge 13 dicembre 2024 n. 203 recante “Disposizioni in materia di lavoro”) e fornisce le prime indicazioni operative.

Segnaliamo in particolare:

  • Somministrazione di lavoro.

•        Computo della durata: per i contratti stipulati tra agenzia e utilizzatore a decorrere dal 12 gennaio 2025, data di entrata in vigore della legge n. 203/2024, il computo dei 24 mesi di lavoro dei lavoratori somministrati, deve tenere conto di tutti i periodi di missione a tempo determinato intercorsi tra le parti successivamente alla data considerata, senza computare le missioni già svolte in vigenza della precedente disciplina. Inoltre, le missioni in corso alla data di entrata in vigore della legge n. 203/2024, svolte in ragione di contratti tra agenzia e utilizzatore stipulati antecedentemente al 12 gennaio 2025, potranno giungere alla naturale scadenza, fino alla data del 30 giugno 2025, senza che l’utilizzatore incorra nella sanzione della trasformazione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro con il lavoratore somministrato. Tuttavia, in quest’ultima ipotesi i periodi di missione maturati successivamente alla data del 12 gennaio dovranno essere scomputati dal limite dei complessivi 24 mesi, previsti dall’articolo 19 del decreto legislativo n. 81/2015.

•        Lavoratori a termine esclusi dal limite quantitativo del 30% rispetto al numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore: tutti quelli assunti in fase di avvio di nuove attività; da start- up innovative; per lo svolgimento di attività stagionali; per lo svolgimento di specifici programmi o spettacoli; per la sostituzione di lavoratori assenti; con lavoratori over 50; lavoratori inviati in missione a tempo determinato, se assunti dal somministratore con contratto di lavoro a tempo indeterminato.

•        Esclusione dall’obbligo di indicare la causale: non trova applicazione l’obbligo di indicazione delle causali stabilite per le assunzioni con contratto a tempo determinato di durata superiore a dodici mesi in caso di assunzioni a tempo determinato effettuate dalle agenzie per il lavoro di: soggetti disoccupati che godono da almeno sei mesi di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali; lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati, identificati ex regolamento (UE) n. 651/2014 ed ex decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali 17 ottobre 2017.

  • Lavoro stagionale. L’art. 11 L. 203/2024, fornisce l’interpretazione autentica dell’articolo 21 del decreto legislativo 81/2015, n. 81 in materia di attività stagionali chiarendo che “rientrano nelle attività stagionali, anche quelle organizzate per fare fronte a intensificazioni dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno, nonché a esigenze tecnico produttive o collegate ai cicli stagionali dei settori produttivi o dei mercati serviti dall’impresa, secondo quanto previsto dai contratti collettivi di lavoro, ivi compresi quelli già sottoscritti alla data di entrata in vigore della presente legge, stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative nella categoria”.

Come norma di interpretazione autentica, inoltre, l’articolo 11:

•        ha natura retroattiva e trova, quindi, applicazione anche per i contratti collettivi firmati prima della sua entrata in vigore.

•        considera stagionali non solo le tradizionali attività legate a cicli stagionali ben definiti, ma anche quelle indispensabili a far fronte ad intensificazioni produttive in determinati periodi dell’anno o a soddisfare esigenze tecnico-produttive collegate a specifici cicli dei settori produttivi o dei mercati serviti dall’impresa.

Spetterà alla contrattazione collettiva chiarire specificamente – non limitandosi ad un richiamo formale e generico della nuova disposizione– in che modo, in concreto, quelle caratteristiche si riscontrino nelle singole attività definite come stagionali, al fine di superare eventuali questioni di conformità rispetto al diritto europeo.

  • Periodo di prova nei contratti a termine: fatte salve le disposizioni più favorevoli della contrattazione collettiva la durata del periodo di prova è stabilita in un giorno di effettiva prestazione per ogni quindici giorni di calendario a partire dalla data di inizio del rapporto di lavoro e, in ogni caso, la durata del periodo di prova non può essere inferiore a due giorni, né superiore a quindici giorni (per i rapporti di lavoro aventi durata non superiore a sei mesi) e a trenta giorni (per quelli aventi durata superiore a sei mesi e inferiore a dodici mesi). La norma trova applicazione per i contratti di lavoro instaurati a far data dall’entrata in vigore della legge in esame, quindi dal 12 gennaio 2025.
  • Comunicazioni in materia di lavoro agile: per la comunicazione dell’avvio e della cessazione delle prestazioni di lavoro in modalità agile e delle eventuali modifiche della durata originariamente prevista viene fissato nel termine di cinque giorni decorrente non dalla data di sottoscrizione del contratto, bensì da quello dell’effettivo inizio della prestazione di lavoro in modalità agile.
  • Dimissioni per fatti concludenti: l’articolo 19 della L. 203/2024, n. 203 ha modificato l’articolo 26 del decreto legislativo 151/2015, n. 151 in materia di “Dimissioni volontarie e risoluzione consensuale”, introducendo il comma 7-bis, il quale stabilisce che: “In caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a quindici giorni, il datore di lavoro ne dà comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che può verificare la veridicità della comunicazione medesima. Il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina prevista dal presente articolo. Le disposizioni del secondo periodo non si applicano se il lavoratore dimostra l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza”.

Tale disposizione ha pertanto affermato che:

•        la possibilità che il rapporto di lavoro si concluda per effetto delle cosiddette dimissioni per fatti concludenti (o dimissioni implicite), consentendo al datore di lavoro di ricondurre un effetto risolutivo al comportamento del lavoratore consistente in una assenza ingiustificata, prolungata per un certo periodo di tempo;

•        tale effetto risolutivo non discende automaticamente dall’assenza ingiustificata, ma si verifica solo nel caso in cui il datore di lavoro decida di prenderne atto, valorizzando la presunta volontà dismissiva del rapporto da parte del lavoratore e facendone derivare la conseguenza prevista dalla norma;

•        per quanto concerne la durata dell’assenza che può determinare la configurazione delle dimissioni per fatti concludenti, in mancanza di specifica previsione nel CCNL applicato al rapporto di lavoro, dovrà essere superiore a quindici giorni che possono intendersi come giorni di calendario, ove non diversamente disposto dal CCNL applicato al rapporto di lavoro;

•        quello individuato dalla legge costituisce il termine legale minimo perché il datore – a partire, quindi, dal sedicesimo giorno di assenza – possa darne specifica comunicazione all’Ispettorato territoriale del lavoro. La suddetta comunicazione opera anche quale dies a quo per il decorso del termine di cinque giorni previsto per effettuare la relativa comunicazione obbligatoria di cessazione del rapporto di lavoro tramite il modello UNILAV;

•        il datore di lavoro – laddove intenda far valere l’assenza ingiustificata del lavoratore, protrattasi oltre i termini sopra indicati, ai fini della risoluzione del rapporto di lavoro per dimissioni per fatti concludenti – deve comunicarla alla sede territoriale dell’Ispettorato, da individuare in base al luogo di svolgimento del rapporto di lavoro. La comunicazione dell’assenza ingiustificata è, quindi, uno specifico onere che l’ordinamento pone in capo al datore che intenda porre fine al rapporto di lavoro rilevando il ricorrere di questo particolare tipo di dimissioni;

•        per permettere all’Ispettorato di effettuare le verifiche circa la veridicità della comunicazione datoriale di assenza ingiustificata, il datore dovrà indicare tutti i contatti e i recapiti forniti dal lavoratore e trasmettere la comunicazione inviata all’Ispettorato territoriale, anche al lavoratore, per consentirgli di esercitare in via effettiva il diritto di difesa;

•        la cessazione del rapporto avrà effetti dalla data riportata nel modulo UNILAV, che non potrà comunque essere antecedente alla data di comunicazione dell’assenza del lavoratore all’Ispettorato territoriale del lavoro, fermo restando che il datore di lavoro non è tenuto, per il periodo di assenza ingiustificata del lavoratore, al versamento della retribuzione e dei relativi contributi;

•        come conseguenze di tale cessazione, il Ministero del Lavoro ritiene che, in base ai principi generali che regolano il rapporto di lavoro, il datore possa trattenere dalle competenze di fine rapporto da corrispondere al lavoratore l’indennità di mancato preavviso contrattualmente stabilita;

•        a norma prevede espressamente che l’effetto risolutivo del rapporto potrà essere evitato laddove il lavoratore dimostri “l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza”. Grava, pertanto, sul lavoratore l’onere di provare l’impossibilità di comunicare i motivi dell’assenza al datore di lavoro o la circostanza di aver comunque provveduto alla comunicazione;

•        qualora il lavoratore dia effettivamente prova di non essere stato in grado di comunicare i motivi dell’assenza, così come nell’ipotesi in cui l’Ispettorato accerti autonomamente la non veridicità della comunicazione del datore di lavoro, non può trovare applicazione l’effetto risolutivo del rapporto di lavoro e la comunicazione di cessazione resterà priva di effetti.

Convertito in Legge il Decreto Milleproroghe 2025. Pubblicata la Legge 21 febbraio 2025, n. 15, di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 27 dicembre 2024, n. 202, recante disposizioni urgenti in materia di termini normativi.

Per quanto riguarda la materia lavoro, viene confermata la proroga al 31 dicembre 2025 dell’utilizzo della causale basata sulle «esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva», che le parti (datore di lavoro e lavoratore) potranno apporre al contratto individuale di lavoro qualora la contrattazione collettiva non abbia individuato proprie causali all’avvio di contratti a tempo determinato.

L’articolo di riferimento è il 14, titolato: “Proroga di termini in materie di competenza del Ministero del turismo“.

Ricordiamo che è obbligatorio indicare una causale all’avvio di un rapporto di lavoro a termine:

  • in caso di stipula del primo contratto a tempo determinato o della somministrazione a termine superiore a 12 mesi;
  • al superamento dei 12 mesi con contratti a tempo determinato e in somministrazione a termine.

Corte Costituzionale, sentenza 7 febbraio 2025, n. 14.

  • Ammissibile il referendum abrogativo in tema di causali del contratto a termine

La Corte Costituzionale dichiara l’ammissibilità del referendum promosso dalla CGIL che mira all’abrogazione di alcune previsioni del d.lgs. n. 81/15 che attualmente consentono la stipulazione di contratti di lavoro a tempo determinato (e anche la loro proroga e/o il rinnovo) fino a un anno senza dover fornire alcuna giustificazione, e, per quelli di durata superiore, sulla base di esigenze individuate dalle parti nel contratto individuale, anche se non previste né dalla legge, né dalla contrattazione collettiva. Secondo i giudici della Consulta, il quesito risulta chiaro, omogeneo e univoco, ponendo l’elettore dinanzi a una alternativa secca: da un lato, la riattivazione dei vincoli al ricorso al lavoro temporaneo, nella forma della generalizzazione dell’obbligo di giustificazione e in riferimento alle sole ipotesi previste dalla legge o dai contratti collettivi; dall’altro, la conservazione della normativa vigente, che, all’opposto, ne agevola l’impiego.

  • Ammissibile il referendum sulla esclusione della responsabilità solidale del committente in taluni casi.

I giudici della Consulta dichiarano ammissibile il referendum promosso dalla CGIL che mira ad abrogare la norma che esclude la responsabilità solidale dell’imprenditore committente per i danni che sono conseguenza di rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici. Per la Corte, il quesito risulta chiaro e univoco, in quanto pone l’elettorale di fronte a una alternativa netta: il mantenimento dell’attuale assetto della responsabilità solidale, contraddistinto da deroghe significative, o l’integrale riespansione di tale responsabilità, senza alcuna eccezione.

  • Ammissibile il referendum per l’abrogazione di un limite massimo dell’indennità per il licenziamento illegittimo nelle piccole imprese

La Corte Costituzionale dichiara ammissibile il referendum promosso dalla CGIL che mira a eliminare il tetto massimo che l’art. 8, l. 604/66, impone per la liquidazione dell’indennità da licenziamento illegittimo, fissato in 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto – che trova oggi applicazione nei confronti dei soli lavoratori assunti alle dipendenze delle c.d. “piccole imprese” prima del 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del d.lgs. 23/15, attuativo della legge sul Jobs act –, osservando che l’eventuale esito positivo della consultazione referendaria comporterebbe, per la menzionata categoria di lavoratori, il mantenimento della soglia minima (pari a 2,5 mensilità) e consentirebbe una liquidazione affidata al prudente apprezzamento del giudice che, nel quantificare un ristoro equo e dotato di un congruo effetto deterrente, non troverebbe più l’ostacolo dell’attuale limite massimo. Così strutturato, il quesito risponde ai requisiti di chiarezza, univocità e omogeneità, in quanto pone l’elettore di fronte a una alternativa secca: mantenere ferma l’attuale disciplina prevista dall’art. 8, l. 604/66, ovvero depurarla del profilo anzidetto, lasciandone per il resto intatte le ulteriori previsioni.

  • Ammissibile il referendum per l’abrogazione del decreto n. 23/2015 in materia di licenziamenti illegittimi

Nel dichiarare l’ammissibilità del referendum promosso dalla CGIL, diretto all’abrogazione totale del d.lgs. 23/15, uno dei decreti attuativi del c.d. Jobs Act, la Corte Costituzionale, dopo avere sinteticamente ripercorso le modifiche normative degli ultimi anni ai regimi di tutela in caso di licenziamento illegittimo, osserva che: (i) l’eventuale esito positivo del referendum non determinerebbe alcuna lacuna nella tutela del fondamentale diritto al lavoro, dal momento che dall’abrogazione deriverebbe l’applicabilità, anche ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, della disciplina dettata dall’art. 18, l. 300/70, e dall’art. 8, l. 604/66; (ii) né, per altro verso, il fatto che, in caso di approvazione del quesito abrogativo, il risultato di un ampliamento delle garanzie per il lavoratore non si verificherebbe in realtà in tutte le ipotesi di invalidità del licenziamento, perché per alcune di queste (e in particolare nel caso del licenziamento intimato al lavoratore assente per malattia o infortunio, oppure intimato per disabilità fisica o psichica a un lavoratore che non versava in realtà in tale condizione) si avrebbe, invece, un arretramento di tutela, non inficia la chiarezza, l’omogeneità e l’univocità della richiesta di referendum: il quesito referendario chiama, infatti, il corpo elettorale a una valutazione complessiva e generale, che può anche prescindere dalle specifiche e differenti disposizioni normative, senza perdere la propria matrice unitaria, che resta quella di esprimersi a favore o contro l’abrogazione del d.lgs. 23/15 nella sua interezza.

Novita’ GIURISPRUDENZIALI

Corte di Cassazione ordinanza n. 7825/2025

La Corte la afferma che il licenziamento di un lavoratore per aver utilizzato il computer aziendale per scopi privati è illegittimo se non sussiste una condotta di particolare gravità.

L’uso improprio dello strumento di lavoro non giustifica il recesso se non c’è un intento lesivo verso l’azienda. La decisione deve basarsi su alcuni criteri come la limitata entità delle violazioni e l’assenza di un danno concreto o di un pregiudizio per il datore.

Corte d’Appello di Torino, 17 marzo 2025.

Licenziato per molestie sessuali sul posto di lavoro: la deposizione della vittima può essere sufficiente per provare l’accadimento del fatto.

La Corte d’Appello di Torino, riformando la sentenza emessa in primo grado, accerta la legittimità del licenziamento per giusta causa subìto da un lavoratore, il quale si era reso colpevole di molestie sessuali ai danni di una collega. Secondo il Collegio va creduta la versione resa dalla vittima di molestie con la propria testimonianza, in quanto in una causa civile, a differenza del processo penale, anche la deposizione di un singolo teste può essere di per sé sufficiente quale prova dell’accadimento storico di un determinato fatto In particolare, chiariscono i giudici che il comportamento tenuto dalla vittima dopo aver subìto le molestie, per esempio non sporgendo denuncia dell’accaduto, non può riverberarsi retrospettivamente sulla veridicità della testimonianza dell’evento, se non a pena, per le persone coinvolte in episodi del genere, di non essere pregiudizialmente credute.

Tribunale di Roma, 4 marzo 2025.

Il datore non può licenziare il dipendente totalmente inabile al lavoro se il giudizio di inabilità è reversibile.

Il Tribunale accoglie il ricorso di un lavoratore il quale, avendo subito un grave infortunio ed essendo stato, per tale motivo, giudicato dalla Commissione Medica di Verifica (CMV) inabile al lavoro, era stato licenziato dalla società datrice per tale motivo. Il giudice capitolino ha dichiarato illegittimo il licenziamento evidenziando, da un lato, che il giudizio della CMV non era affatto definitivo, in quanto soggetto a revisione nei tre anni successivi e, dall’altro, che nelle more non fosse ancora stato superato il periodo di comporto (in ogni caso non fatto valere dal datore di lavoro). A maggior ragione, nel caso di specie, la CTU medico-legale aveva rilevato che il lavoratore aveva recuperato una sufficiente capacità lavorativa in un tempo ragionevole dall’evento-infortunio. Per tali motivi la società è stata condannata alla reintegrazione in servizio e al risarcimento del danno nei confronti del ricorrente.

Tribunale di Ancona, sentenza 1° marzo 2025.

È illegittimo il licenziamento fondato sul rifiuto del lavoratore di recedere dalla modalità di lavoro agile, in presenza di un’espressa esclusione di tale diritto datoriale.

Non configurano inadempimento del lavoratore la reiterata assenza dal lavoro in sede e il rifiuto di attenersi alla disposizione del datore di lavoro di recesso dalla modalità di lavoro agile, nella misura in cui il diritto di recesso sia escluso nel contratto di lavoro in modo chiaro e incondizionato. Eventuali situazioni sopravvenute che rendano meno conveniente per il datore di lavoro la conservazione del lavoro agile sono irrilevanti, a meno che non rendano oggettivamente impossibile fornire e ricevere un’adeguata prestazione, al punto da configurare un giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

Corte di cassazione, sentenza 28 febbraio 2025 n. 5334.

Un video denigratorio su una chat privata non può mai giustificare il licenziamento.

La dipendente di un negozio era stata licenziata per aver postato su una chat Whatsapp, cui partecipavano i 14 dipendenti del medesimo negozio, un video che rappresentava una cliente grassa, accentuandone gli aspetti ridicoli. Nel conseguente giudizio di impugnazione del licenziamento, la Cassazione, accogliendo il ricorso della lavoratrice avverso la sentenza d’appello, afferma che, in considerazione delle caratteristiche della destinazione del messaggio a persone determinate e delle cautele di riservatezza del tipo di piattaforma utilizzata, la comunicazione del video in questione gode delle garanzie di libertà e segretezza che l’art. 15 Cost. assicura alla corrispondenza e a ogni altra forma di comunicazione. Essa non può pertanto costituire mai giusta causa di licenziamento e il fatto che l’impresa sia venuta a conoscenza dell’episodio per la denuncia di una partecipante alla chat concreta per quest’ultima la violazione di un segreto e non altera comunque il giudizio di inutilizzabilità del video nell’ ambito del rapporto di lavoro.

Corte di cassazione, sentenza 21 febbraio 2025, n. 4655.

Retroattività del licenziamento disciplinare al momento della contestazione: limiti.

Sottoposta a procedimento penale, una dipendente di banca era stata sospesa cautelarmente e quindi sottoposta a procedimento disciplinare, poi sospeso fino all’esito del giudizio penale, intervenuto il quale, era stata licenziata con effetto retroagente al momento della contestazione, a norma dell’art. 1, comma 41 L. n. 92 del 2012 e le era stata richiesta la restituzione della retribuzione che, secondo il CCNL applicabile, aveva percepito durante la sospensione cautelare. Nel giudizio conseguentemente promosso dalla bancaria il problema posto alla Corte era duplice: 1) se la regola della retroattività si applica anche quando la contestazione disciplinare è, come nel caso in esame, antecedente all’entrata in vigore della legge n. 92; 2) se, a norma del CCNL, in caso di licenziamento disciplinare il lavoratore debba restituire la retribuzione percepita durante il periodo di sospensione cautelare disposta dal datore di lavoro.

La Corte, in diverso avviso rispetto all’appello, risponde negativamente ad ambedue le questioni: la prima per la normale considerazione unitaria del procedimento disciplinare, che inizia con l’apertura dello stesso e inoltre in coerenza con la necessaria tutela del diritto di difesa del lavoratore, che fin dall’inizio deve essere messo in grado di conoscere anche gli effetti possibili della contestazione; la seconda, perché nella disciplina collettiva che dispone il pagamento della retribuzione al dipendente sospeso cautelarmente non è alcuna indicazione circa l’eventuale provvisorietà dello stesso.

Corte di Cassazione, ordinanza 11 febbraio 2025, n. 3488.

Sulla risarcibilità del danno non patrimoniale in caso di condotte datoriali discriminatorie.

Dopo avere ottenuto dai giudici di merito, in un procedimento ex art. 28 D. Lgs. n. 150/2011, il riconoscimento del carattere discriminatorio della sua tardiva assunzione e il conseguente danno patrimoniale, il dipendente di una Fondazione aveva proposto ricorso per cassazione al fine ottenere altresì il risarcimento del danno non patrimoniale, negato dalla Corte d’appello per mancanza di prova. La Cassazione, nell’accogliere il ricorso, osserva che: (i) le Sezioni unite, con la sentenza n. 20819/21, hanno affermato che il rimedio alla discriminazione deve rispondere ai requisiti stabiliti dal diritto UE, quindi deve essere effettivo, proporzionale, dissuasivo; (ii) da ciò deriva che, in tema di discriminazione, il risarcimento del danno non patrimoniale è caratterizzato da una connotazione dissuasiva, tanto che può essere riconosciuto nei casi di discriminazione collettiva, anche in assenza di un soggetto immediatamente identificabile; (iii) tale danno, consistendo nella lesione di diritti costituzionalmente garantiti, è liquidabile in via equitativa e può essere provato ricorrendo al ragionamento presuntivo, valorizzando la maggiore o minore gravità dell’atto discriminatorio e le ragioni che l’hanno determinato.

Corte di Cassazione, ordinanza 10 febbraio 2025, n. 3400

Danno da demansionamento e incidenza del mancato aggiornamento tecnologico del dipendente.

La Cassazione, nel confermare la decisione della Corte d’appello, che aveva riconosciuto l’avvenuto demansionamento di un lavoratore, inquadrato come operatore specialista in customer care ma impiegato con funzioni di mero call center, e condannato la società datrice a risarcire il danno alla professionalità, liquidato equitativamente in 1000 euro per ogni mese del periodo di dequalificazione, osserva che i giudici di merito hanno correttamente tratto elementi presuntivi della sussistenza del danno non solo dalla qualità delle mansioni svolte, dalla durata del demansionamento subito, dalle modalità dell’inadempimento della società (che aveva reiterato la condotta di dequalificazione), ma anche dalla velocità dell’evoluzione tecnologica del settore cui il dipendente era addetto e di cui era stato in sostanza privato.

Corte di Cassazione, ordinanza 5 febbraio 2025, n. 2806.

Licenziamento disciplinare e abusivo accesso ai dati personali di clienti.

Il licenziamento di un bancario per ripetuti accessi abusivi sui conti correnti di alcuni clienti era stato annullato dai giudici di merito, che avevano ritenuto i fatti di tenue entità e dato rilievo alla mancata affissione del codice disciplinare. La Cassazione, accogliendo il ricorso della banca, osserva che (i) l’accesso al sistema informatico aziendale non può mai essere considerato fatto lieve allorché, come in questo caso, si concreti in una violazione degli obblighi di protezione dei dati personali previsti dal d.lgs. 196/2003, soprattutto da parte di coloro che operano all’interno di un istituto bancario; (ii) altrettanto consolidato è l’orientamento secondo cui la pubblicazione del codice disciplinare non è necessaria quando la condotta del lavoratore costituisca, come nel caso di specie, violazione di norme di legge o di principi fondamentali di correttezza e buona fede, immediatamente percepibile dal dipendente come illecito.

Tribunale di Busto Arsizio con sentenza del 3 febbraio 2025.

Costituzione della Consigliera di parità per far valere il carattere (indirettamente) discriminatorio, a danno delle lavoratrici che svolgono compiti di cura familiare, della lunga pausa imposta uniformemente a tutti i dipendenti.

In una situazione in cui gli oneri di cura familiare ricadono in prevalenza sulle lavoratrici donne, il trattamento uguale, in termini di orario della pausa pranzo (di ben 90 minuti) e, di conseguenza, dell’uscita pomeridiana, provoca una discriminazione indiretta, per i diversi effetti che si verificano a seconda delle situazioni soggettive dei lavoratori destinatari della stessa regola. La discriminatorietà della rigidità oraria deriva oggettivamente dallo svantaggio per le lavoratrici che devono ritardare il rientro in famiglia, senza che rilevi l’intento soggettivo della società nell’imporre uniformemente la rigidità di orario.

A maggior ragione nei casi di azione collettiva della Consigliera di parità, l’effetto discriminatorio va valutato in termini potenziali e qualitativi, quale condizione di maggiore difficoltà nella conciliazione tra lavoro ed esigenze di cura familiare, non rilevando conseguenze effettive ed ulteriori rispetto al rientro ritardato.

In mancanza di prova del carattere essenziale all’organizzazione di impresa dell’orario uniforme, la rimozione degli effetti discriminatori va perseguita consentendo alle interessate la limitazione della pausa con conseguente uscita anticipata.

Lo afferma il Tribunale di Busto Arsizio con sentenza del 3 febbraio 2025. Le affermazioni sono qualificate come discriminazione indiretta perché idonee a scoraggiare le lavoratrici dal candidarsi per ruoli dirigenziali.

Corte d’Appello di Roma, 27 gennaio 2025

Accertata la nullità del patto di prova, si applica la tutela reintegratoria prevista per l’ipotesi di licenziamento fondato su un “fatto materiale insussistente”

La Corte d’Appello ribadisce, anzitutto, ai fini dell’efficacia e validità della prova, la necessaria specificità delle mansioni di adibizione, la cui concreta individuazione deve essere ricavata da quanto è stato pattuito per iscritto tra le parti, in una clausola contrattuale chiara ex ante e suscettibile di verifica ex post. In caso di licenziamento per mancato superamento della prova in presenza un patto di prova nullo, il fatto posto alla base del licenziamento è da ritenersi insussistente. Pertanto, quanto alle conseguenze sanzionatorie, nel contesto normativo del d.lgs. n. 23 del 2015, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 128/2024, tale recesso, se privo di giusta causa e/o giustificato motivo, non resta assoggettato alla regola generale della tutela indennitaria, ma è suscettibile di applicazione della tutela reintegratoria. In merito poi alla determinazione dell’indennità risarcitoria, la Corte stabilisce che non si determini detraendo dal “tetto massimo” delle dodici mensilità l’intero importo percepito da un altro datore di lavoro, ma solamente quanto si sovrappone all’intero periodo di estromissione.

Tribunale di Napoli Nord, 10 febbraio 2025

Sulle problematiche della corretta impugnazione del licenziamento attraverso lettera scansionata e inviata telematicamente.

Il Tribunale respinge il ricorso presentato da un lavoratore, il quale aveva impugnato il licenziamento attraverso una lettera firmata e poi scansionata e inviata telematicamente alla Società da parte del difensore. Secondo il Giudice, la copia per immagine su supporto informatico di un documento formato in originale in analogico può avere la stessa efficacia dell’originale, ma solo a patto che sulla copia sia apposta firma digitale o elettronica (del lavoratore o dell’avvocato), che sia accompagnata da attestazione di conformità di un notaio o pubblico ufficiale autorizzato o che sia formata in origine su supporto analogico e la sua conformità all’originale non sia disconosciuta. Non ricorrendo nel caso nessuno di questi tre elementi, la comunicazione dell’impugnazione non impedisce la decadenza di cui all’art. 6, l. 604/1966.

NEWSLETTER PRIVACY

MARZO 2025

Entrata in vigore del Regolamento (UE) 2024/1689. Cosa succede al 2 febbraio 2025?

L’AI Act è entrato in vigore il 2 agosto del 2024 e sarà pienamente applicabile dal 2 agosto del 2026. L’applicazione di alcune parti del Regolamento è però anticipata al 2025: le disposizioni di carattere generale (capi I e II) sono applicabili dal 2 febbraio 2025, mentre le norme su governance, quelle che introducono obblighi per fornitori di modelli di IA per finalità generali e sanzioni, dal 2 agosto 2025.

A partire dal2 febbraio 2025, le società e le organizzazioni che operano nel settore dell’intelligenza artificiale devono conformarsi a due obblighi principali.

Divieto di pratiche di intelligenza artificiale a rischio inaccettabile.

È risaputo che il Regolamento ha adottato un risk-based approach, un approccio fondato sul rischio, andando a creare una “piramide” dei singoli sistemi di intelligenza artificiale.

Applicazioni a rischio minimo, come ad esempio i filtri anti-spam, che non sono soggette a regole specifiche; applicazioni a rischio limitato, come ad esempio i chatbot, che prevedono obblighi di trasparenza; applicazioni ad alto rischio (es. quelle usate in sanità, nella giustizia, nella classificazione dei lavoratori), che possono avere un impatto significativo sui diritti fondamentali e sono soggette a regole severe, con obblighi di trasparenza, valutazioni di conformità e monitoraggio umano.

Infine, l’AI Act identifica specifiche pratiche di intelligenza artificiale a rischio inaccettabile, vietandone l’uso, appunto, dallo scorso 2 febbraio.

Tra queste pratiche rientrano:

a) Tecniche di manipolazione subliminale o ingannevole: Sistemi che influenzano il comportamento degli individui senza la loro consapevolezza, sfruttando vulnerabilità cognitive o psicologiche.

b) Sfruttamento delle vulnerabilità di gruppi specifici: Applicazioni che approfittano delle vulnerabilità di gruppi particolarmente vulnerabili, come minori o persone con disabilità, per influenzare il loro comportamento in modo dannoso.

c) Sistemi di social scoring: Valutazioni sistematiche della reputazione o dell’affidabilità delle persone basate sul loro comportamento sociale o sulle caratteristiche personali, che possono portare a discriminazioni ingiustificate.

d) Identificazione biometrica remota in tempo reale in spazi pubblici: L’uso di sistemi di riconoscimento facciale o altre tecnologie biometriche per identificare persone in tempo reale in luoghi pubblici, salvo specifiche eccezioni.

e) Riconoscimento delle emozioni in ambiti sensibili: Applicazioni che cercano di determinare le emozioni degli individui in contesti come il lavoro o l’istruzione, dove ciò potrebbe portare a discriminazioni o violazioni della privacy.

f) Creazione o ampliamento di banche dati di riconoscimento facciale tramite scraping non mirato: La raccolta massiva di immagini o dati biometrici da fonti online senza il consenso degli individui coinvolti, per creare database utilizzati in sistemi di riconoscimento facciale.

Dunque, i soggetti che utilizzano o sviluppano sistemi di IA devono garantire che nessuna di queste pratiche vietate sia stata sviluppata nei loro prodotti o servizi.

La violazione di questi divieti può comportare sanzioni significative, che possono raggiungere i 35 milioni di euro o il 7% del fatturato annuo globale della società, a seconda di quale importo sia maggiore.

Alfabetizzazione

L’art. 4 dell’AI Act introduce l’obbligo per società e pubbliche amministrazioni di garantire che il proprio personale disponga di una conoscenza adeguata sull’intelligenza artificiale. Si tratta, verosimilmente, del primo obbligo “massificato”, nel senso che trova applicazione in maniera trasversale anche ai soggetti che operano fuori dal settore tecnologico, ma che utilizzano le tecnologie di IA.

Naturalmente, il primo adempimento riguarda la formazione, con l’adozione di programmi per assicurare che i dipendenti comprendano le opportunità e i rischi associati all’IA: una scelta legislativa che non può che essere salutata con favore, nella consapevolezza che la conoscenza del funzionamento dei sistemi e dei modelli, e dei rischi e delle opportunità ad essi associati, è il primo strumento di compliance.

Allo stesso modo, questi soggetti sono chiamati a dotarsi di linee guida interne che definiscano l’uso responsabile dell’IA all’interno dell’organizzazione, assicurandosi altresì che il personale sia informato sui potenziali impatti etici e legali dell’uso dell’IA.

Chi sono i destinatari degli obblighi?

Si è detto che l’obbligo di alfabetizzazione riguarda tutti i soggetti che utilizzano sistemi e modelli di intelligenza artificiale.

Per quanto riguarda i fornitori, invece, l’applicazione del Regolamento abbraccia anche i soggetti non stabiliti nell’UE, atteso che l’ambito di applicazione oggettiva del Regolamento coinvolge anche scenari in cui l’output prodotto dai sistemi di IA è utilizzato all’interno del territorio europeo, seppur prodotto al di fuori del suo territorio.

Prossime scadenze e introduzione di nuovi obblighi

L’AI Act prevede un’adozione graduale delle sue disposizioni, con diverse scadenze future le cui principali sono:

Agosto 2025

Entreranno in vigore le norme sulla governance dell’IA e gli obblighi specifici per i modelli di IA di uso generale. I destinatari della normativa dovranno:

a) mantenere documentazione dettagliata sui test e sullo sviluppo dei loro sistemi di IA.

b) seguire procedure standardizzate per garantire la sicurezza dei sistemi di IA durante tutto il loro ciclo di vita.

c) effettuare valutazioni periodiche per assicurarsi che i sistemi di IA rispettino le normative vigenti.

Il mancato rispetto di questi obblighi potrebbe comportare sanzioni significative.

Agosto 2026

Applicazione completa dell’AI Act per tutti i sistemi di IA, inclusi quelli classificati come ad alto rischio.

In questo caso occorrerà adottare misure aggiuntive per i sistemi di IA considerati ad alto rischio, come valutazioni di impatto, che impongono di condurre analisi approfondite per identificare e mitigare i potenziali rischi associati all’uso dell’IA, ed effettuare un monitoraggio continuo, per stabilire processi per il monitoraggio costante delle prestazioni dei sistemi di IA e per l’identificazione tempestiva di eventuali anomalie.

Pseudonimizzazione: le Linee Guida 1/2025 dell’EDPB. Il Comitato Europeo per la Protezione dei Dati (European Data Protection Board -EDPB) ha pubblicato il 16 gennaio le Linee Guida 01/2025 sulla pseudonimizzazione, soggette a consultazione pubblica fino al 28 febbraio, in cui fornisce un quadro di riferimento dettagliato sui vantaggi e l’applicabilità associati alla pseudonimizzazione.

Tale misura di garanzia è stata definita per la prima volta dal Regolamento UE 679/2016 (GDPR) all’art.4 punto 5) come la procedura mediante la quale i dati “non possano più essere attribuiti a un interessato specifico senza l’utilizzo di informazioni aggiuntive, a condizione che tali informazioni aggiuntive siano conservate separatamente e soggette a misure tecniche e organizzative intese a garantire che tali dati personali non siano attribuiti a una persona fisica identificata o identificabile”.

L’Autorità italiana ha partecipato alla stesura del documento

I dati pseudonimizzati sono sempre dati personali. È quanto affermano le Linee guida sulla pseudonimizzazione adottate nel corso dell’ultima plenaria del Comitato europeo per la protezione dei dati (EDPB), alla cui stesura ha partecipato il Garante privacy in qualità di co-rapporteur. Le Linee guida sono ora disponibili in consultazione pubblica fino al 28 febbraio, al termine della quale verranno adottate in versione definitiva.

In base alla definizione fornita dal GDPR, la pseudonimizzazione è una misura che permette di non attribuire i dati personali a uno specifico interessato senza l’utilizzo di informazioni aggiuntive, a condizione che tali informazioni aggiuntive siano conservate separatamente e soggette a misure di sicurezza tecniche e organizzative.

L’EDPB chiarisce che i dati pseudonimizzati sono sempre dati personali, anche se le informazioni necessarie per identificare una persona sono tenute separate. Infatti, se i dati possono essere ricondotti a persone fisiche dal titolare del trattamento o da altri, rimangono dati personali e sono dunque soggetti agli obblighi dettati dal GDPR.

Le linee guida indicano inoltre ambito e vantaggi della pseudonimizzazione: si tratta di una misura di riduzione del rischio e di efficace applicazione dei principi della protezione dei dati secondo il paradigma della privacy by design.

Il documento del Board, inoltre, esamina le misure tecniche e le salvaguardie, nell’utilizzo della pseudonimizzazione, per assicurare la confidenzialità delle informazioni ed evitare l’identificazione non autorizzata degli interessati. La pseudonimizzazione – evidenzia ancora il Comitato europeo – facilita l’utilizzo del legittimo interesse come base giuridica per il trattamento, a condizione che siano soddisfatti tutti gli altri requisiti del GDPR e la verifica della compatibilità con la finalità originaria di un ulteriore trattamento.

Il Social Scoring: una pratica illegale?

Il sistema di social scoring valuta il comportamento individuale tramite algoritmi di intelligenza artificiale, premiando o penalizzando i cittadini in base alle loro azioni. Sebbene tale sistema sia stato vietato dal Regolamento (UE) 2024/1689 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 13 giugno 2024 (“AI Act”) in caso di trattamenti ingiustificati o sfavorevoli, non esclude esplicitamente l’uso per finalità premiali, generando interrogativi etici e legali.

Al contrario dell’Unione Europea, in Cina, il social scoring è una realtà consolidata che influenza l’accesso a servizi e benefici attraverso sistemi pubblici e privati. Tuttavia, queste pratiche sollevano dubbi in materia di protezione dati personali, trasparenza e diritti del cittadino. Il presente articolo ha l’obiettivo di analizzare i rischi e le lacune normative, ponendo l’accento sull’importanza di bilanciare incentivi sociali e diritti fondamentali.

Che cosa è il social scoring?

Il social scoring o social credit system si riferisce alla pratica di valutazione del comportamento sociale da parte di algoritmi di intelligenza artificiale (IA) che, attraverso un sistema premiale e/o sanzionatorio, sulla base delle azioni poste in essere da parte dei cittadini, consente di assegnare o rimuovere punti (c.d. credito sociale). A ciascun cittadino viene inizialmente assegnato un punteggio predefinito che può essere soggetto a cambiamenti in base alle azioni che svolge durante il corso della vita quotidiana che possono essere considerate come negative o positive.

Dunque, tenere comportamenti contrari alla normativa o in generale alle regole del vivere comune, potrebbe incidere negativamente sul punteggio assegnato, ad esempio: attraversare un semaforo rosso o gettare una carta per terra sono azioni che possono comportare una riduzione dei punti attribuiti. Al contrario, sono considerate azioni positive quelle che contribuiscono a un aumento del punteggio sociale, come, ad esempio: avere voti eccellenti a scuola o all’università, rispettare le norme sociali senza commettere infrazioni per un determinato periodo e dimostrare una costante diligenza e impegno sul posto di lavoro.

Il sistema di social scoring dovrebbe mirare a promuovere comportamenti benefici per l’individuo e la comunità, incoraggiando il rispetto delle leggi e delle norme sociali, così come il perseguimento dell’eccellenza accademica e professionale.

Tuttavia, i sistemi di social scoring gestiti da algoritmi di intelligenza artificiale, valutando i comportamenti delle persone e/o di gruppi di persone sulla base di parametri che potrebbero essere non rilevanti o equi e possono determinare gravi trattamenti pregiudizievoli.

Inoltre, per quanto tale sistema di social scoring sembra essere lontano dal nostro immaginario, in realtà, come vedremo nei successivi paragrafi è più vicino a noi di quanto pensiamo.

Il Legislatore ha previsto che non è possibile effettuare il social scoring per porre in essere un trattamento pregiudizievole o sfavorevoli nei confronti di persone e/o di un gruppo, ma non ha previsto il contrario. Quindi, va da sé, che leggendo la su riportata norma in chiave litotica, è possibile compiere l’attività di social scoring per porre in essere un trattamento premiale e/o favorevole.

Inoltre, è doveroso altresì interrogarsi se un sistema che premia e/o favorisce determinate persone non ne pregiudichi e/o sfavorisca indirettamente altre. Si pensi, ad esempio, a un sistema che prevede l’assegnazione di una promozione solo ai lavoratori che sono sempre stati puntuali a lavori. È evidente che un sistema premiale favorisce determinati soggetti e ne sfavorisce altri.

Con tale osservazione, non si vuole contestare la correttezza di un eventuale sistema premiale fondato sul social scoring, ma, al contrario, si vuole evidenziare che il Legislatore non ha vietato tale eventualità, forse anche in modo volontario.

Inoltre, anche il considerando 31 dell’AI ACT non sembra vietare i sistemi di social scoring per porre in essere un trattamento premiale e/o favorevole: I sistemi di IA che permettono ad attori pubblici o privati di attribuire un punteggio sociale alle persone fisiche possono portare a risultati discriminatori e all’esclusione di determinati gruppi. Possono inoltre ledere il diritto alla dignità e alla non discriminazione e i valori di uguaglianza e giustizia. Tali sistemi di IA valutano o classificano le persone fisiche o i gruppi di persone fisiche sulla base di vari punti di dati riguardanti il loro comportamento sociale in molteplici contesti o di caratteristiche personali o della personalità note, inferite o previste nell’arco di determinati periodi di tempo. Il punteggio sociale ottenuto da tali sistemi di IA può determinare un trattamento pregiudizievole o sfavorevole di persone fisiche o di interi gruppi in contesti sociali che non sono collegati ai contesti in cui i dati sono stati originariamente generati o raccolti, o a un trattamento pregiudizievole che risulta ingiustificato o sproporzionato rispetto alla gravità del loro comportamento sociale. I sistemi di IA che comportano tali pratiche inaccettabili di punteggio aventi risultati pregiudizievoli o sfavorevoli dovrebbero pertanto essere vietati. Tale divieto non dovrebbe pregiudicare le pratiche lecite di valutazione delle persone fisiche effettuate per uno scopo specifico in conformità del diritto dell’Unione e nazionale.

L’art. 5 dell’AI ACT, letto in combinato disposto con il considerando 31, prevede che i dati raccolti su una persona e/o un gruppo di persone non possono essere poi riutilizzati in altri contesti. Per intenderci meglio, se Tizio, Caio e Sempronio hanno avuto uno pessimo percorso accademico, tali fattispecie (risultato accademico negativo) non potrà incidere su un eventuale erogazione di un mutuo da parte di un istituto bancario nei confronti dei predetti soggetti. Da tale disposto normativo, si evince, da una lettura a contrario, che l’attività di social scoring invece può essere posta in essere quando i dati di determinate persone fisiche o di interi gruppi di persone in contesti sociali sono collegati ai contesti in cui i dati sono raccolti, o quanto meno, così dovrebbe essere.

Dunque, non dovrebbe essere vietato l’uso di sistemi di intelligenza artificiale da parte delle autorità pubbliche per l’assegnazione di un punteggio per un trattamento pregiudizievole o sfavorevole nei confronti di determinate persone fisiche o di interi gruppi di persone fisiche in contesti sociali che sono collegati ai contesti in cui i dati sono stati originariamente generati o raccolti.

Per intenderci meglio, l’Autorità pubblica, ad esempio, non può escludere Tizio dall’assegnazione di un credito di imposta perché non ha avuto un percorso accademico eccellente, poiché, in questo caso i dati raccolti relativi al percorso accademico appartengono a un contesto diverso (quello fiscale); tuttavia, potrebbe precludere la partecipazione di Tizio a un concorso lavorativo a una persona che non ha avuto un comportamento esemplare a lavoro.

Il secondo punto, della lettera c) dell’art. 5 dell’AI ACT sembra voler porre rimedio nel caso in cui un trattamento sia particolarmente svantaggioso per la persona, vietando, appunto, un trattamento pregiudizievole o sfavorevole di determinate persone fisiche o di gruppi di persone che sia ingiustificato o sproporzionato rispetto al loro comportamento sociale o alla sua gravità.

Tuttavia, il Regolamento non ci ha fornito dei criteri per definire quando un trattamento possa considerarsi pregiudizievole o sfavorevole e ingiustificato o sproporzionato. Pertanto, l’assenza di limiti chiari nella definizione dei termini relativi ai sistemi di social scoring rischia inevitabilmente di generare dubbi interpretativi, con potenziali conseguenze sia sul piano etico che su quello legale.

Telemarketing, Garante privacy: sanzione di oltre 890mila euro a fornitore luce e gas

Dati trattati a fini promozionali senza un’idonea base giuridica.

Il Garante privacy ha comminato a E.ON Energia spa una sanzione di oltre 890mila euro per trattamento illecito di dati personali a fini di telemarketing. Il procedimento trae origine dai reclami di due persone che lamentavano la ricezione di numerose chiamate indesiderate e il mancato riscontro alle richieste di esercizio dei diritti sanciti dal Regolamento.

Nel corso dell’istruttoria il Garante ha rilevato, in un caso, che i consensi rilasciati in fase di attivazione delle forniture di luce e gas, erano stati trascritti in maniera errata da un dipendente della società. Errore che ha evidenziato una duplice criticità nei meccanismi di tutela dei dati dei clienti. Da un lato, E.ON non ha introdotto misure idonee a verificare ed assicurare la corrispondenza tra i consensi resi dagli interessati e le informazioni registrate sui sistemi aziendali, ed è così incorsa nella a realizzazione di attività di telemarketing senza un’idonea base giuridica. Dall’altro, è venuta meno agli obblighi di formazione e supervisione dei soggetti incaricati delle attività di telemarketing.

Per quanto riguarda il secondo reclamo, il Garante ha invece accertato l’avvenuta realizzazione di attività di telemarketing mediante l’utilizzo di dati personali raccolti con l’ausilio di un form pubblicato su Facebook nell’ambito di una campagna cd. digital, sebbene l’interessata in questione non avesse mai attivato un account social.

Anche in questo caso, il Garante ha riscontrato che E.ON non effettuava verifiche sulla legittima provenienza dei dati utilizzati per finalità commerciali, né sull’identità dei soggetti che rilasciavano i dati.

Sempre un errore materiale, secondo la società, aveva poi determinato il mancato riscontro all’istanza di esercizio dei diritti dell’interessata.

Oltre alla sanzione pecuniaria di 892.738 euro, l’Autorità ha ordinato alla Società di implementare misure adeguate affinché il trattamento dei dati personali degli interessati avvenga nel rispetto della normativa privacy lungo tutta la filiera del trattamento.

Data breach, FSE Molise: le sanzioni del Garante.

Con tre sanzioni di 10mila euro ciascuna, irrogate rispettivamente alla Regione Molise, alla Società Molise dati, e a Engineering ingegneria informatica S.p.A., il Garante privacy ha definito i procedimenti aperti dopo l’intrusione nel Portale regionale FSE verificatasi tra novembre e dicembre 2022.

Il data breach, causato da una vulnerabilità̀ del sistema informatico, aveva consentito a un cittadino autenticato con il ruolo di “assistito”, attraverso una manipolazione della URL, di effettuare una ricerca di informazioni relative a sette individui presenti nell’Anagrafe regionale del Molise. L’accesso non autorizzato aveva riguardato i dati anagrafici; di residenza e domicilio; e quelli contenuti in documenti e referti sanitari degli utenti coinvolti. Nel corso dell’attività istruttoria, il Garante ha accertato che la violazione era stata provocata da un bug di sicurezza nel sistema di autenticazione con cui si accedeva al Fascicolo Sanitario Elettronico della Regione Molise.

Nel caso specifico, l’Autorità ha sanzionato la Regione Molise in quanto titolare del Portale e la Società Molise dati, in qualità di responsabile dell’attività di implementazione tecnica del FSE, per non aver effettuato verifiche finalizzate a valutare l’eventuale presenza di simili errori nel software sviluppato da Engineering, la società di cui quest’ultima si era avvalsa per lo sviluppo delle componenti tecniche del Portale.

Nel progettare i sistemi informatici utilizzati nell’ambito del FSE, inclusi i sistemi di autenticazione e autorizzazione, Engineering S.p.A., non aveva infatti adottato le misure adeguate a limitare l’accesso da parte degli utenti alle sole informazioni che li riguardavano. Ciò aveva quindi permesso l’illecito da parte di un soggetto terzo, che superata la procedura di autenticazione, aveva potuto utilizzare funzionalità a cui non era autorizzato, mediante la modifica della URL.

Foto di un lifting sui social: il Garante sanziona un chirurgo

Sul profilo del medico le immagini in chiaro di una paziente.

Una sanzione di 20mila euro è stata comminata dal Garante Privacy ad un chirurgo per aver pubblicato sul proprio profilo Instagram le foto di una paziente prima e dopo un intervento di lifting del volto, peraltro, senza avere acquisito il consenso alla diffusione delle immagini. L’Autorità è intervenuta a seguito del reclamo della paziente che lamentava la pubblicazione, sul profilo social del medico, di foto che la ritraevano in modo riconoscibile durante l’operazione.

Nel corso dell’istruttoria, il medico ha affermato che le immagini fossero state scattate per uso interno e che la pubblicazione fosse dovuta a un equivoco legato alla gestione dei consensi tra i diversi professionisti coinvolti nell’intervento. Giustificazione ritenuta non sufficiente dal Garante il quale ha dichiarato illecito il trattamento dei dati sanitari della paziente, in quanto effettuato al di fuori delle finalità di cura in violazione della normativa privacy.

Nel determinare la sanzione, il Garante ha considerato la natura sensibile dei dati personali diffusi e il contesto particolare in cui è avvenuta la violazione, nel quale la legittima aspettativa della reclamante di confidenzialità e riservatezza era elevata, anche in considerazione del rapporto professionale e fiduciario con il medico.

NEWSLETTER 3/2025

Novita’ normative

Parlamento: convertito in Legge il Decreto Milleproroghe 2025.

Il Parlamento ha pubblicato, nella Gazzetta Ufficiale n. 45 del 24 febbraio 2025, la Legge 21 febbraio 2025, n. 15, di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 27 dicembre 2024, n. 202, recante disposizioni urgenti in materia di termini normativi.

Per quanto riguarda la materia lavoro, viene confermata la proroga al 31 dicembre 2025 dell’utilizzo della causale basata sulle «esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva», che le parti (datore di lavoro e lavoratore) potranno apporre al contratto individuale di lavoro qualora la contrattazione collettiva non abbia individuato proprie causali all’avvio di contratti a tempo determinato.

L’articolo di riferimento è il 14, titolato: “Proroga di termini in materie di competenza del Ministero del turismo“.

Ricordiamo che è obbligatorio indicare una causale all’avvio di un rapporto di lavoro a termine:

  • in caso di stipula del primo contratto a tempo determinato o della somministrazione a termine superiore a 12 mesi;
  • al superamento dei 12 mesi con contratti a tempo determinato e in somministrazione a termine.

Ministero del Lavoro, interpello n. 1 del 27 gennaio 2025

Il datore di lavoro che intenda procedere alla chiusura di «più distinte unità» dovrà attivare la procedura cosiddetta antidelocalizzazioni introdotta dalla legge 234/2021 (Legge di Bilancio 2022) anche laddove in una sola di tali unità «si determini un esubero di almeno 50 unità di personale».

Lo ha stabilito il Ministero del Lavoro, con interpello n. 1/2025, in risposta a una richiesta di chiarimento presentata da Federdistribuzione e avente a oggetto l’ambito di applicazione del quadro procedurale introdotto alla fine del 2021.

In particolare, la richiesta riguardava l’ipotesi di un datore di lavoro che, avendo occupato più di 250 dipendenti nell’anno precedente, intendeva chiudere due diverse unità produttive, una con più di 50 dipendenti e l’altra con un numero di dipendenti inferiore a 50.

Ispettorato Nazionale del Lavoro, nota n. 656 del 23 gennaio 2025

Con la nota n. 656/ 2025 l’Ispettorato Nazionale del Lavoro esplica la portata applicativa della modifica introdotta dal cd. Collegato Lavoro, all’art. 304, comma 1, lett. b), del D.Lgs. n. 81/2008, che ha abrogato le disposizioni in materia di tessere personali di riconoscimento nei cantieri edili

contenute nell’art. 36-bis, commi da 3 a 5, del DL n. 223/2006, incluse le relative sanzioni amministrative in capo al datore di lavoro e al lavoratore, in quanto il medesimo obbligo è già contenuto in altre disposizioni nel citato D.Lgs. n. 81/2008 con riferimento a tutte le attività svolte in regime di appalto o subappalto (a prescindere dalla sussistenza o meno di un cantiere edile). Pertanto, in caso di svolgimento di attività in regime di appalto o subappalto, anche nei cantieri temporanei e mobili si applicano le disposizioni di cui alla presente nota dell’INL.

Dimissioni per fatti concludenti – Chiarimenti INPS

L’INPS, con il messaggio n. 639 del 19 febbraio 2025, chiarisce due aspetti legati alle dimissioni per fatti concludenti.

Con il messaggio n. 639/2025, l’INPS è tornato sulla novità normativa introdotta dall’art. 19 della L. 203/2024 (c.d. “collegato lavoro”), vale a dire sulle dimissioni del lavoratore per assenza ingiustificata, affrontando questioni tecniche e operative, come la sussistenza o meno dell’obbligo di versamento del c.d. ticket licenziamento di cui all’art. 2 comma 31 della L. 92/2012 da parte del datore di lavoro e la compilazione del flusso UniEmens.

Si ricorda che l’indicata norma del c.d. “collegato lavoro” ha aggiunto il comma 7-bis all’art. 26 del DLgs. 151/2015, ai sensi del quale in caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a 15 giorni, il datore di lavoro ne dà comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del Lavoro, che può verificare la veridicità della comunicazione medesima. Il rapporto di lavoro, in tali ipotesi, si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica quanto previsto dal citato art. 26, salvo che il lavoratore dimostri l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza.

Come chiarito dall’Ispettorato del Lavoro con la nota n. 579/2025, la comunicazione dell’assenza ingiustificata da parte del datore di lavoro va fatta preferibilmente a mezzo PEC all’indirizzo istituzionale di ciascuna sede; in tale comunicazione – di cui è stato reso disponibile un modello, allegato alla nota in argomento – il datore deve riportare tutte le informazioni in suo possesso sul lavoratore, in riferimento sia ai dati anagrafici sia ai recapiti, anche telefonici e di posta elettronica, di cui è a conoscenza (si veda “Per le «dimissioni di fatto» necessaria la comunicazione all’INL” del 23 gennaio 2025).

Decorso il periodo previsto dalla contrattazione collettiva o quello superiore a 15 giorni ed effettuata la comunicazione all’Ispettorato, il datore di lavoro potrà procedere con la comunicazione della cessazione del rapporto di lavoro (cfr. nota INL n. 579/2025).

Il rapporto di lavoro, infatti, si risolve per volontà del lavoratore – l’INPS specifica con effetto immediato – e il lavoratore medesimo, come precisato dall’INPS con il messaggio in commento, non ha diritto alla NASpI, non trattandosi di un’ipotesi di cessazione involontaria del rapporto.

Ne deriva che se la risoluzione si riferisce a un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, il datore di lavoro non è tenuto al versamento del ticket licenziamento, il quale, ai sensi del comma 31 dell’art. 2 della L. 92/2012, è dovuto nei casi di interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per le causali che, indipendentemente dal requisito contributivo, darebbero diritto alla NASpI (in relazione al 2025 si veda “Nel 2025 sale il ticket licenziamento” del 10 febbraio 2025).

Del resto l’INPS, con la circolare n. 3/2025, aveva già rilevato come l’art. 19 della L. 203/2024 sulla risoluzione del rapporto di lavoro per assenza ingiustificata del lavoratore assolva a finalità antielusive con riferimento alla fruizione della NASpI, “che, in base alla vigente normativa, non può essere riconosciuta in caso di dimissioni volontarie non derivanti da giusta causa”.

L’INPS nel messaggio specifica, poi, i casi in cui non trova applicazione l’effetto risolutivo del rapporto, vale a dire quando il lavoratore fornisca la prova dell’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza, oppure quando la sede territoriale dell’INL, al quale il datore di lavoro ha trasmesso la comunicazione di cui sopra, ne accerti autonomamente la non veridicità.

Nel messaggio n. 639/2025 si chiarisce che l’Ispettorato deve comunicare l’inefficacia della risoluzione sia al lavoratore, il quale – laddove il datore di lavoro abbia già provveduto alla trasmissione del relativo modello Unilav – ha diritto alla ricostituzione del rapporto di lavoro, sia al datore di lavoro, possibilmente riscontrando la comunicazione via PEC dallo stesso ricevuta. A seguito della comunicazione di inefficacia della risoluzione, il datore di lavoro è tenuto agli adempimenti conseguenti in materia di obbligo contributivo.

Quanto, infine, alle modalità di compilazione del flusso UniEmens, l’INPS chiarisce che dal 12 gennaio 2025, data di entrata in vigore della L. 203/2024, le interruzioni del rapporto di lavoro intervenute con le modalità descritte nel messaggio in commento devono essere esposte all’interno del flusso UniEmens con il nuovo codice <Tipo Cessazione> “1Y”, avente il significato di: “Risoluzione rapporto di lavoro articolo 26 DLgs 14 settembre 2015, n. 151, comma 7 bis”.

Novita’ GIURISPRUDENZIALI

Corte di Cassazione ordinanza n. 3627/2025.

Rientra nel diritto di critica la mail inviata dal dipendente, cardiochirurgo straniero, al primario e per conoscenza ai colleghi per denunciare l’emarginazione a cui lo ha costretto il responsabile del reparto dal suo arrivo.

Rientra nel diritto di critica la mail inviata dal cardiochirurgo straniero al primario del reparto e per conoscenza a tutti i colleghi per denunciare l’emarginazione a cui lo ha costretto il responsabile del reparto dal suo arrivo. Per la Corte d’appello era fuori dalla continenza la frase «per favore tolga il ginocchio dal mio collo» considerata un’accusa di razzismo perché evocativa

della morte di George Floyd (l’omicidio di Floyd si verificò il 25 maggio 2020 nella città di Minneapolis, la morte avvenne a seguito del suo arresto da parte di quattro agenti di polizia, ndr). Per la Cassazione invece la critica è dissenso anche aspro e una sola frase non basta a renderla illegittima a fronte di fatti veri.

Corte di Cassazione, ordinanza 29 gennaio 2025, n. 2066

La Corte d’appello aveva respinto l’impugnazione del licenziamento disciplinare di un dipendente metalmeccanico, intimato dal datore di lavoro senza esaminarne le giustificazioni, secondo l’impresa perché ricevute tardivamente. La Cassazione, accogliendo il ricorso del dipendente, osserva che: (i) nella materia delle sanzioni disciplinari, il CCNL metalmeccanica aziende industriali non fa alcun riferimento alla ricezione da parte del datore del lavoro delle giustificazioni del lavoratore; (ii) anche tenendo conto della sua ratio di tutela del diritto di difesa del lavoratore incolpato, l’interpretazione più ragionevole della previsione collettiva in questione è quella che dà rilievo – per valutare il rispetto del termine dei 5 giorni – alla data di invio delle giustificazioni da parte del lavoratore (da accertare nel caso in esame dal giudice di rinvio), piuttosto che alla data di ricezione delle stesse.

Corte di Cassazione, sentenza 20 gennaio 2025, n. 132.

Sul licenziamento per abbandono del posto di lavoro

In giudizio, un addetto alla vigilanza in un parco pubblico, licenziato in quanto si era allontanato, in due diverse occasioni nel corso del medesimo turno di lavoro, per recarsi con la propria autovettura ad aiutare un amico a riparare un carrettino, aveva contestato la qualificazione di abbandono del posto di lavoro, comportante per il CCNL la sanzione espulsiva, sostenendo la meno grave fattispecie di mero allontanamento. La Cassazione, nel rigettare il ricorso del lavoratore avverso la sentenza d’appello, ribadisce il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, per potersi ritenere integrata l’ipotesi dell’abbandono – anziché quella del mero allontanamento – occorre: (i) sotto il profilo oggettivo, che si verifichi il totale distacco dal bene da proteggere in ragione della durata dell’assenza, tale da poter incidere sul regolare svolgimento del servizio, non essendo necessario che essa si protragga per l’interno orario residuo del turno di servizio svolto; (ii) sotto il profilo soggettivo, che sussista la coscienza e volontà della condotta di abbandono, restando irrilevante il motivo dell’allontanamento.

Corte di Cassazione, ordinanza 13 gennaio 2025, n. 807.

Controlli difensivi solo su comportamenti successivi all’insorgenza del sospetto.

Il caso riguarda il licenziamento di un dirigente, al quale erano state contestate condotte illecite che la società datrice aveva scoperto a seguito di un accesso alla casella di posta elettronica del lavoratore conseguente a un alert del sistema informatico aziendale. La Corte d’appello, giudicando in sede di rinvio dalla Cassazione, aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento, in quanto il controllo datoriale aveva avuto a oggetto informazioni risalenti a un’epoca antecedente rispetto all’alert che aveva fatto sorgere il sospetto in capo al datore. La Cassazione, nel rigettare il ricorso del datore di lavoro, osserva che: (i) i giudici di merito hanno dato puntuale applicazione al principio di diritto enunciato dalla sentenza rescindente, ove si evidenziava che l’art. 4 St. lav. legittima unicamente controlli tecnologici ex post, vale a dire su comportamenti posti in essere successivamente all’insorgenza di un fondato sospetto; (ii) tale assetto garantisce il punto di equilibrio tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali e la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore, equilibrio che verrebbe meno ove si consentisse al datore di lavoro, alla luce di un fondato sospetto, di estendere il controllo difensivo a tutti i dati che, fino a quel momento, sono stati raccolti e conservati nel sistema informatico.

Corte di cassazione, sentenza 10 gennaio 2025 n. 605.

Lavoro agile per il disabile, anche per mansioni escluse da accordo aziendale.

Un lavoratore disabile per gravi deficit visivi aveva chiesto il trasferimento del luogo di lavoro in quello di residenza, con la possibilità di svolgere le sue mansioni in regime di lavoro agile. La domanda era stata accolta dalla Corte d’appello, in applicazione di quanto disposto dall’art. 3, comma 3-bis, d.lgs. 216/03, relativo all’adozione di ragionevoli accomodamenti al fine di garantire la parità di trattamento delle persone con disabilità. Respingendo il ricorso della società, la Cassazione ricorda la disciplina antidiscriminatoria vigente, riguardante, in particolare, i lavoratori con disabilità, di origine eurounitaria e internazionale e il regime probatorio agevolato che assiste il lavoratore nel relativo processo, concludendo che, ove un’utile misura organizzativa sia possibile (come nel caso in esame accertato dai giudici di merito) e non sia eccessivamente onerosa per l’impresa, il datore di lavoro è tenuto a adottarla, anche se essa sia stata esclusa per quelle mansioni da un accordo aziendale.

Corte di cassazione, ordinanza 9 gennaio 2025 n. 463.

Presupposti del comporto differenziato previsto dal CCNL metalmeccanici per le malattie professionali.

Licenziato per superamento del periodo di comporto, un lavoratore aveva impugnato l’atto, sostenendo che a lui, in quanto assente per malattia professionale, era applicabile la più lunga durata del comporto prevista per tale ipotesi dal CCNL metalmeccanici applicato al rapporto. In giudizio, la società aveva viceversa obbiettato che la norma collettiva invocata va interpretata nel senso che essa riguarda unicamente l’ipotesi in cui la malattia professionale sia imputabile a

responsabilità del datore di lavoro, nel caso esaminato esclusa in un altro giudizio. La Cassazione, nel respingere il ricorso della società avverso l’accoglimento delle domande del lavoratore, rileva che la norma contrattuale invocata non fa alcun riferimento all’eventuale responsabilità del datore di lavoro nella causazione della malattia professionale, il cui accertamento costituisce pertanto l’unico presupposto per l’applicazione del comporto più lungo.

Corte di Cassazione, ordinanza 9 gennaio 2025, n. 460.

La sussistenza del motivo economico non esclude la natura discriminatoria del licenziamento.

La dirigente di una società, licenziata per soppressione del posto, aveva adìto il giudice del lavoro, sostenendo il carattere discriminatorio dell’atto. Pervenuta la causa avanti la Cassazione, questa, nell’accogliere con rinvio il ricorso della lavoratrice in punto di licenziamento, osserva che: (i) la tesi dei giudici di merito, secondo cui l’effettiva ricorrenza del motivo riorganizzativo escluderebbe la natura discriminatoria del recesso, contrasta con le previsioni del d.lgs. 216/03 e con la consolidata giurisprudenza della Corte; (ii) nel valutare la natura illecita del licenziamento, erroneamente la Corte d’appello non ha valorizzato le reiterate condotte stressanti e ansiogene poste in essere dal datore di lavoro nei confronti della dirigente accertate in giudizio; (iii) i giudici dell’appello, gravando la lavoratrice dell’intero onere probatorio della discriminazione, hanno altresì violato il criterio di alleggerimento della prova per il lavoratore, secondo cui a lui è richiesto di fornire elementi di fatto dai quali si possa desumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, gravando invece sul datore di lavoro l’onere di dimostrare che il fatto non esista ovvero le circostanze idonee a escludere la natura discriminatoria della condotta, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore che si fosse trovato nella stessa posizione.

Tribunale di Milano, 14 gennaio 2025

Anche il Tribunale di Milano solleva la questione pregiudiziale avanti la Corte UE sulle missioni a tempo indeterminato nella somministrazione di lavoro.

In un caso simile a quello al centro dell’ordinanza del Tribunale di Reggio Emilia del 7 novembre 2024, il Tribunale rimette alla Corte di Giustizia dell’Unione europea una nuova questione pregiudiziale sulla legittimità dell’utilizzo senza termine di lavoratori assunti dall’agenzia con contratto a tempo indeterminato. In particolare, il Giudice del rinvio chiede alla Corte di Giustizia se l’utilizzo di lavoratori, pure se assunti a tempo indeterminato e con previsione di una indennità di disponibilità, sia compatibile con il principio di temporaneità del lavoro somministrato stabilito, tra l’altro, dall’art. 5, par. 5, della direttiva 2008/104/CE. Determinante, tra gli argomenti contrari alla legittimità di tale modalità, potrebbe essere la necessità di impedire ogni ipotesi di elusione dell’obbligo di giustificazione dei licenziamenti, che non si applica all’utilizzatore che decide di interrompere una missione.

Tribunale di Milano, 18 dicembre 2024.

Lavoratrice licenziata per avere svolto attività di vita quotidiana durante l’infortunio: reintegrata per insussistenza del fatto contestato

Il Tribunale accoglie il ricorso presentato da una donna, la quale era stata licenziata per aver fatto acquisti al mercato rionale e presso negozi durante il congedo per infortunio, e condanna la società datrice di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro. Secondo il Giudice, le specifiche modalità del fatto contestato alla donna non erano idonee a pregiudicarne la guarigione e a ritardare il rientro in servizio. Non costituiscono elemento di prova in senso contrario le valutazioni svolte da investigatori privati, in assenza di alcun sostrato medico-scientifico che dimostri un possibile rapporto causale tra il comportamento della lavoratrice e il possibile peggioramento del suo stato di salute. Di conseguenza, posta l’irrilevanza disciplinare degli addebiti mossi alla donna, il licenziamento deve ritenersi illegittimo per insussistenza del fatto contestato.

Tribunale di Busto Arsizio, 3 febbraio 2025 – 4 giugno 2024

Il Tribunale accoglie il ricorso presentato da un’associazione per la lotta alle discriminazioni, legittimata ai sensi dell’art. 5 D.lgs. n. 216/2003 contro la nota azienda di moda Betty Blue, amministrata da Elisabetta Franchi.

La pronuncia rappresenta un momento significativo nella giurisprudenza sulle discriminazioni di genere, poiché l’azienda è stata condannata non per una condotta materiale, ma per dichiarazioni discriminatorie della sua amministratrice, che aveva affermato di preferire uomini o donne sopra i 40 anni per le posizioni di vertice, ritenendole più stabili dal punto di vista familiare e lavorativo. Il Giudice ha qualificato tali affermazioni come discriminazione indiretta multifattoriale e intersezionale, poiché potrebbero scoraggiare le lavoratrici dal candidarsi per ruoli dirigenziali, ledendo una pluralità di fattori protetti (genere, età, genitorialità) e pertanto ha condannato la società, da un lato, a un risarcimento del danno liquidato a favore dell’associazione ricorrente, dall’altro ad adottare un piano di rimozione delle discriminazioni con obbligo di dar corso ad una specifica attività formativa in azienda per contrastare pregiudizi su età, genere e carichi familiari (oltre alla pubblicazione della sentenza su alcuni quotidiani).

Tribunale di Parma, 10 dicembre 2024

Il Tribunale emiliano, nell’accogliere il ricorso di un lavoratore cui era stato irrogato un licenziamento disciplinare senza effettuare la contestazione degli addebiti, dispone la reintegrazione dello stesso nonostante il datore di lavoro fosse un’azienda c.d. “sotto soglia”.

Infatti, ai fini di tale decisione il Giudice ha ritenuto applicabile il contratto collettivo provinciale della provincia di Parma che, applicato dall’azienda cedente nell’ambito di un trasferimento d’azienda, non era stato sostituito da uno “di pari livello” da parte del cessionario. Proprio in virtù della previsione contenuta in tale contratto, secondo cui “a livello provinciale, la risoluzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato può avvenire soltanto per raggiunti limiti di età, per dimissioni del lavoratore, ovvero per motivi di giusta causa o per giustificato motivo in base alle norme di cui alle Leggi 604/1966 e 300/1970, norme che convenzionalmente si intendono estese a tutte le Aziende indipendentemente dal numero dei dipendenti” il Tribunale ha disposto la reintegrazione del ricorrente.

Tribunale di Milano, 5 dicembre 2024

Il Tribunale, sulla scia della giurisprudenza di merito e di Cassazione, conferma l’obbligo del datore di lavoro di riconoscere ai propri dipendenti il diritto a fruire del riposo compensativo rispetto alle giornate in cui hanno reso prestazioni in regime di reperibilità domenicale, a prescindere da una richiesta, trattandosi di diritto indisponibile.

Ove sia necessaria l’effettiva prestazione lavorativa nel corso della reperibilità, il datore di lavoro, oltre ad erogare la maggiorazione relativa al lavoro straordinario prestato, deve garantire anche il recupero del giorno di riposo. La mancata fruizione del riposo settimanale è lesiva di un diritto fondamentale che deve essere rispettato per tutelare il benessere fisico e psichico dei lavoratori e che è irrinunciabile; tale violazione comporta un danno non patrimoniale da usura psicofisica per il lavoratore, con il conseguente diritto al risarcimento.

NEWSLETTER 2/2025

Novita’ normative

Legge di Bilancio 2025.

L. 30 dicembre 2024, n. 207, pubblicata nel Supplemento Ordinario n. 43 della Gazzetta Ufficiale del 31 dicembre 2024, n. 305.

Molte delle misure previste dalla nuova Legge di Bilancio sono state elaborate in favore di lavoratori, imprese e famiglie.

Tra le principali novità si riscontrano:

  • taglio del cuneo fiscale e IRPEF (art. 1, commi da 2 a 9);
  • limiti per la fruizione delle detrazioni dall’imposta sul reddito (art. 1, comma 10);
  • rivisitazione delle detrazioni per familiari a carico previste all’art. 12, comma 1, lett. c) del TUIR (art. 1, comma 11);
  • innalzamento della soglia di reddito, da Euro 30 mila ad Euro 35 mila, per il godimento del regime forfettario (art. 1, comma 13);
  • nuovo regime fiscale in ordine alle auto aziendali (art. 1, comma 48): vengono ridefinite le percentuali da applicare alla percorrenza convenzionale di 15.000 km annui moltiplicata per il costo desumibile dalle tabelle ACI;
  • tracciabilità delle spese di trasferta e rappresentanza (art. 1, commi da 81 a 86) al fine dell’ottenimento del rimborso in esenzione fiscale;
  • nuovo requisito contributivo per la NASpI (art. 1, comma 171): attualmente tra i requisiti per maturare il diritto all’indennità è richiesto lo stato di disoccupazione involontaria e 13 settimane di contributi nei quattro anni antecedenti alla perdita del lavoro. Dal 1° gennaio 2025, per il riconoscimento della NASpI si prevede che il requisito di 13 settimane di contribuzione debba essere fatto valere nel periodo intercorrente tra i due eventi medesimi, a partire dalle dimissioni o risoluzioni consensuali precedentemente intervenute anche presso altro datore di lavoro. Tale ultimo requisito si applica a condizione che l’evento di cessazione per dimissioni sia avvenuto nei dodici mesi precedenti l’evento della cessazione involontaria per cui si richiede la prestazione;
  • novità in tema di fringe benefits (art. 1, commi 390 e 391 ): non concorre a formare il reddito, entro il limite complessivo di Euro 1.000, il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati ai lavoratori dipendenti, nonché le somme erogate o rimborsate ai medesimi
  • lavoratori dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche, del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale, delle spese per l’affitto dell’abitazione principale ovvero per gli interessi sul mutuo relativo all’abitazione principale. Il limite è elevato ad Euro 2.000 per i lavoratori dipendenti con figli, compresi i figli nati fuori del matrimonio riconosciuti e i figli adottivi, affiliati o affidati, fiscalmente a carico.

Decreto Milleproroghe 2025.

D.L. 27 dicembre 2024, n. 202 (Disposizioni urgenti in materia di termini normativi).

Il 27 dicembre è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 302 il D.L. n. 202/2024, c.d. Decreto Milleproroghe 2025, con il quale è stata disposta la proroga di termini di prossima scadenza in diversi ambiti.

Di seguito, le principali novità sui termini in materia di lavoro:

  • prorogata al 31 dicembre 2025 la possibilità di utilizzare, nei contratti di lavoro dipendente a tempo determinato nel settore privato, la causale basata sulle “esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti”, qualora non vi siano causali individuate dalla contrattazione collettiva, come previsto dall’art. 19, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81;
  • attraverso una modifica dell’art. 35 del D.Lgs. n. 165/2001, è previsto che le autorizzazioni rilasciate dalla Funzione Pubblica e dalla Ragioneria generale dello Stato all’effettuazione di assunzioni da parte delle Amministrazioni Pubbliche abbiano un limite massimo di 3 anni;
  • prorogata al 31 dicembre 2025 la facoltà per le ONLUS di accreditarsi per l’accesso alla ripartizione del cinque per mille anche se non iscritte al RUNTS;
  • si assegna al Dipartimento per gli Affari regionali della Presidenza del Consiglio dei Ministri l’attività istruttoria per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) e dei relativi costi e fabbisogni standard fino al 31 dicembre 2025, a decorrere dal 5 dicembre 2024.

Collegato Lavoro 2024.

L. 13 dicembre 2024, n. 203 (Disposizioni in materia di lavoro).

È stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 303 del 28 dicembre 2024, la L. n. 203/2024, c.d. Collegato Lavoro, che contiene numerose disposizioni in materia di rapporti di lavoro, salute e sicurezza, integrazioni salariali e previdenza.

Il provvedimento, nato dall’esigenza di semplificare i numerosi adempimenti connessi al rapporto di lavoro (salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, disciplina dei contratti di lavoro, obblighi contributivi e ammortizzatori sociali, ecc.), prevede rilevanti novità che riguardano nello specifico:

•        modifiche al D.Lgs. n. 81/2008 (art. 1);

•        sospensione della prestazione di cassa integrazione (art. 6);

•        disposizioni in materia di flessibilità nell’utilizzo delle risorse dei fondi bilaterali per la formazione e l’integrazione del reddito nel settore della somministrazione di lavoro (art. 9);

•        modifiche in materia di somministrazione di lavoro (art. 10);

•        norma di interpretazione autentica in materia di attività stagionali (art. 11);

•        durata del periodo di prova (art. 13);

•        termine per le comunicazioni obbligatorie in materia di lavoro agile (art. 14);

•        applicazione del regime forfetario nel caso di contratti misti (art. 17);

•        norme in materia di risoluzione del rapporto di lavoro (art. 19);

•        disposizioni relative ai procedimenti di conciliazione in materia di lavoro (art. 20);

•        disposizioni concernenti la notificazione delle controversie in materia contributiva (art. 25).

INL – Nota n. 579/2025: dimissioni di fatto per assenza ingiustificata – istruzioni sulla nuova procedura.

Facendo seguito alla nota n. 9740/2024, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha aggiornato le proprie istruzioni in ordine alle novità introdotte dall’art. 19 della L. 13 dicembre 2024, n. 203 (c.d. Collegato Lavoro ) in materia di risoluzione del rapporto di lavoro per assenze ingiustificate.

La nuova norma integra la disciplina delle dimissioni volontarie e della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, con l’aggiunta del comma 7 bis all’art. 26 del D.Lgs. n. 151/2015, introducendo nell’ordinamento la fattispecie delle dimissioni per fatti concludenti.

La citata disposizione consente, in caso di assenza ingiustificata protratta oltre il termine previsto dal CCNL applicato o, in mancanza di previsione contrattuale, per un periodo superiore a quindici giorni, lo scioglimento del rapporto di lavoro su iniziativa del datore, dandone comunicazione alla sede territoriale INL, che potrà verificare la veridicità della comunicazione.

Tanto premesso, la nota n. 579/2025 emessa dall’Ispettorato fornisce istruzioni operative e procedurali ai datori di lavoro che intendono avvalersi di tale facoltà.

Il datore è tenuto ad inviare, preferibilmente a mezzo PEC, una comunicazione, contenente tutte le informazioni di cui è a conoscenza, all’indirizzo istituzionale della sede territorialmente competente.

Una volta decorso il termine contrattuale o legale dell’assenza ingiustificata ed effettuata la comunicazione all’Ispettorato, il datore può procedere con la comunicazione UNILAV della cessazione del rapporto di lavoro.

Il lavoratore, al fine di evitare l’effetto risolutivo della procedura, ha l’onere di dimostrare i motivi posti a base dell’assenza ed altresì i motivi che hanno reso impossibile la loro comunicazione al datore di lavoro.

INPS – Circolare n. 3/2025: ammortizzatori sociali e misure di sostegno al reddito e alle famiglie. Quadro riepilogativo delle novità per l’anno 2025.

L’INPS, con la Circolare n. 3 del 15 gennaio 2025, fornisce un quadro riepilogativo delle disposizioni aventi riflessi in materia di ammortizzatori sociali e di sostegno al reddito e alle famiglie nel corso dell’anno 2025.

In particolare, per quanto riguarda i rapporti di lavoro, la circolare fornisce informazioni circa:

a. ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro e nelle ipotesi di risoluzione del rapporto di lavoro previsti dal Collegato Lavoro 2024:

•    sospensione della prestazione di cassa integrazione;

•    modifiche alla disciplina in materia di Fondi di solidarietà bilaterali;

•    norme in materia di risoluzione del rapporto di lavoro.

b. Disposizioni in materia di sostegno al reddito per i datori di lavoro e i lavoratori previsti dalla L. n. 199/2024 (recante “Disposizioni urgenti in materia di lavoro, università, ricerca e istruzione per una migliore attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza”):

•    destinatari e durata della misura di sostegno al reddito.

c. Ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro e di sostegno al reddito e alle famiglie previsti dalla Legge di Bilancio 2025:

•    trattamenti di sostegno al reddito in favore dei lavoratori dipendenti da imprese operanti in aree di crisi industriale complessa;

•    trattamento straordinario di integrazione salariale per cessazione di attività;

•    proroga dell’integrazione del trattamento di cassa integrazione guadagni straordinaria per i dipendenti del gruppo ILVA;

•    proroga del trattamento straordinario di integrazione salariale per processi riorganizzativi complessi o piani di risanamento complessi di crisi;

•    misure di sostegno del reddito per i lavoratori dipendenti delle imprese del settore dei call center;

•    ulteriore periodo di trattamento straordinario di integrazione salariale straordinaria per le imprese con rilevanza economica strategica;

•    altri trattamenti di sostegno al reddito;

•    trattamento di sostegno al reddito per i lavoratori sospesi dal lavoro o impiegati a orario ridotto, dipendenti da aziende sequestrate o confiscate sottoposte ad amministrazione giudiziaria;

•    intervento straordinario di integrazione salariale a seguito di accordi di transizione occupazionale;

•    disposizioni in materia di ammortizzatori sociali a seguito della cessazione del rapporto di lavoro;

•    requisiti per la fruizione della NASpI.

d. Congedo parentale.

e. Indennità di discontinuità per i lavoratori del settore dello spettacolo (IDIS).

Novita’ GIURISPRUDENZIALI

Corte di Giustizia UE, sentenza 19 dicembre 2024.

Lavoro domestico: il datore deve predisporre un sistema che consenta di misurare le ore di lavoro del collaboratore.

Una lavoratrice domestica spagnola aveva ottenuto dai giudici del suo Paese solo parte del compenso richiesto a titolo di lavoro straordinario, in quanto non era stata in grado di dimostrare le ore di lavoro effettivamente svolte. La vicenda ha fatto sorgere il dubbio che la normativa nazionale, la quale esonera i datori dall’obbligo di predisporre un sistema che permetta di misurare la durata dell’orario di lavoro svolto dai collaboratori domestici, sia conforme al diritto eurounitario. La questione è giunta alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale ha osservato che: (i) una normativa nazionale siffatta risulta contraria alla Direttiva 2003/88, in quanto rende sostanzialmente impossibile per i lavoratori far rispettare i diritti ad essi conferiti dalla direttiva stessa (la limitazione dell’orario e le pause giornaliere e settimanali); (ii) in ragione delle peculiarità del settore del lavoro domestico, agli Stati membri è riconosciuta la facoltà di prevedere talune deroghe per quanto riguarda le ore di lavoro straordinario e il lavoro a tempo parziale, purché esse non svuotino di contenuto la normativa in oggetto, circostanza che dovrà essere verificata dal giudice spagnolo; (iii) poiché tra i collaboratori domestici sono prevalenti quelli di sesso femminile, non è escluso che, nel caso di specie, sussista anche una discriminazione indiretta fondata sul sesso, a meno che tale situazione sia oggettivamente giustificata.

Corte di Cassazione, ordinanza 7 gennaio 2025, n. 170.

Per il lavoratore disabile deve essere previsto un diverso periodo di comporto.

La Cassazione ha affermato che la conoscenza dello stato di disabilità del dipendente da parte del datore fa sorgere in capo a quest’ultimo un onere di acquisire, prima di procedere al licenziamento per superamento del periodo di comporto, informazioni relative all’eventualità che le assenze per malattia siano legate allo stato di disabilità.

Infatti, la Corte – nel ribaltare la pronuncia di merito ed in accoglimento del ricorso promosso da un lavoratore disabile licenziato per superamento del periodo di comporto – rileva, preliminarmente, che costituisce discriminazione indiretta l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto previsto per il lavoratore non disabile anche al dipendente che si trovi in condizione di disabilità.

Tribunale di Milano, sentenza 6 novembre 2024.

Illegittimo il licenziamento disciplinare fondato sugli stessi fatti che avevano già dato luogo a diverse sanzioni, meno gravi: il lavoratore va reintegrato.

Il Tribunale di Milano ha accolto il ricorso presentato da una lavoratrice licenziata per giusta causa e ha condannato il datore a reintegrare la donna sul posto di lavoro oltre che a corrisponderle un’indennità. Secondo il Giudice, infatti, il potere disciplinare del datore si era già interamente consumato con la precedente applicazione di una sospensione disciplinare. Pertanto, poiché era stato sanzionato con il licenziamento un fatto a cui era già seguita la sanzione meno grave della sospensione senza retribuzione, il Tribunale ha affermato che il licenziamento impugnato dovesse essere annullato per insussistenza del fatto materiale, con conseguente applicazione della tutela reale di cui all’art. 3, comma 2, D.Lgs. 23/2015 (c.d. “Jobs Act”).

Corte di Cassazione, ordinanza 20 dicembre 2024, n. 33531.

Tutela reintegratoria se la contestazione disciplinare è generica.

La Cassazione ha affermato che la genericità della contestazione che impedisce al lavoratore di difendersi è da equiparare all’insussistenza dei fatti addebitati, con conseguente diritto del dipendente alla reintegrazione.

La Corte, infatti, nel confermare la pronuncia di merito ha rilevato che, al fine di evitare la genericità della contestazione, la società che ha comminato il licenziamento ad un proprio dipendente avrebbe dovuto individuare l’esatto ambito di attività del lavoratore con i relativi compiti e precisare quali difformità fossero riconducibili alla responsabilità del medesimo.

Tali elementi erano stati integralmente omessi all’interno della contestazione, la quale, dunque, difettava di specificità, tanto da impedire al lavoratore di esercitare il proprio diritto di difesa.

Corte di Cassazione, sentenza 7 gennaio 2025, n. 276.

La contestazione disciplinare è atto unilaterale recettizio puro e non deve assolvere ad una funzione correttiva.

Con la sentenza in questione la Suprema Corte si è pronunciata relativamente ad un caso di licenziamento per assenze ingiustificate e, nel rigettare il ricorso del lavoratore, ha affermato due interessanti principi. Anzitutto, ai sensi degli artt. 1334 e 1335 c.c., la contestazione disciplinare si reputa conosciuta soltanto nel momento in cui giunge all’indirizzo del destinatario. È irrilevante il giorno dell’invio della contestazione da parte del datore di lavoro, il quale, quindi, può consegnare a mano al dipendente altra e più dettagliata contestazione prima che il precedente atto giunga all’indirizzo di quest’ultimo. In questo caso, poiché la prima contestazione ancora non era stata conosciuta e non ha avuto effetto, non può parlarsi di bis in idem e di avvenuta consumazione del potere disciplinare. Il secondo principio afferma che il datore di lavoro non è tenuto ad un controllo costante dei comportamenti del lavoratore al fine di evitare il loro “possibile aggravamento”. Il lavoratore aveva sostenuto la violazione dell’art. 1375 c.c., in quanto, durante le prime assenze ingiustificate, il datore di lavoro non gli aveva mosso tempestiva contestazione disciplinare. A fronte di ciò la Suprema Corte ha negato l’esistenza di un obbligo del datore di lavoro di procedere con continui controlli e relative contestazioni disciplinari al fine di correggere o interrompere il comportamento del dipendente ed evitare che questi raggiunga la condotta sanzionata con il licenziamento ed ha affermato che di conseguenza “la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell’infrazione ove avesse controllato assiduamente l’operato del dipendente, ma con riguardo all’epoca in cui ne abbia acquisito piena conoscenza”.

Corte di Cassazione, ordinanza 30 dicembre 2024, n. 34895.

La Corte ribadisce: no alla NASpI per il lavoratore che omette di dichiarare lo svolgimento di attività di lavoro autonoma.

La Suprema Corte con la pronuncia in esame ha cassato la sentenza di secondo grado, che aveva accolto la richiesta di pagamento della NASpI avanzata da un lavoratore, già titolare di partita IVA prima della presentazione della relativa domanda amministrativa. La Cassazione, in tale circostanza, ha ribadito l’orientamento ormai consolidato, secondo cui la fattispecie cui si correla la decadenza (prevista dall’art. 11 del D.Lgs. 22/2015) è rappresentata dall’omessa comunicazione all’INPS della circostanza della contemporaneità tra il godimento del trattamento di disoccupazione e lo svolgimento dell’attività lavorativa autonoma da cui possa derivare un reddito. I giudici di legittimità hanno osservato che tale soluzione non si pone in contrasto né con l’art. 38 della Costituzione, in quanto la scelta legislativa della decadenza in luogo di una riduzione del trattamento NASpI è insindacabile, poiché rimessa alla discrezionalità del legislatore, né con l’art. 3 della Costituzione, non potendosi riconoscere alcun affidamento incolpevole del lavoratore in una diversa lettura interpretativa, dal momento che, al tempo in cui non fu effettuata la comunicazione all’INPS, mancava un orientamento giurisprudenziale di segno diverso da quello qui affermato.

Corte di Cassazione, sentenza 13 dicembre 2024, n. 45803.

L’omesso versamento delle ritenute è reato anche se il datore versa in grave crisi economica.

La Corte d’Appello aveva confermato la condanna del legale rappresentante di una società per il reato di cui all’art. 2, comma 1 bis, D.L. 463/83, per avere omesso il versamento delle ritenute sulle retribuzioni dei propri dipendenti per un importo complessivo pari a circa Euro 18.000. La Cassazione, nel rigettare il ricorso dell’imputato, ha ribadito l’orientamento interpretativo consolidato secondo cui, poiché il reato in questione è a dolo generico, per la sua integrazione è sufficiente la sussistenza della mera consapevolezza di omettere i versamenti dovuti, risultando pertanto irrilevante la circostanza che il datore di lavoro attraversi una fase di criticità che lo indurrebbe a destinare le risorse finanziarie ad altri debiti ritenuti urgenti.

I giudici di legittimità hanno osservato, infatti, che il datore adempie contemporaneamente ad un obbligo proprio e ad un obbligo altrui e, in ragione di ciò, deve ritenersi vincolato al pagamento delle ritenute allo stesso titolo per cui è vincolato al pagamento delle retribuzioni.

Tribunale di Catanzaro, sentenza 10 dicembre 2024, n. 1028.

Illegittima la c.d. clausola di gradimento del committente sui dipendenti dell’appaltatore.

Il Tribunale di Catanzaro ha affermato che è illegittimo il contratto d’appalto contenente una c.d. clausola di gradimento, con cui il committente obbliga l’appaltatore a sostituire il proprio personale ritenuto inidoneo.

Il Tribunale di Catanzaro, infatti, ha rilevato che una tale previsione integra l’esercizio del potere disciplinare sui dipendenti dell’appaltatore da parte del committente.

Secondo il Giudice la clausola in questione comporterebbe una arbitraria sottoposizione dei dipendenti dell’appaltatore al gradimento del committente, tanto che il primo non potrebbe sindacare il volere del secondo e sarebbe tenuto alla sostituzione immediata (e, quindi, nella sostanza, al licenziamento) del lavoratore ritenuto inidoneo.

Pertanto, a fronte di ciò, il Tribunale di Catanzaro ha accolto il ricorso dei lavoratori.

Corte di Cassazione, ordinanza 28 novembre 2024, n. 43662.

Nessun sfruttamento illecito se il lavoro è intellettuale.

La vicenda trae origine dalle condotte della presidente del Consiglio di amministrazione di una società cooperativa, operante nel settore dell’istruzione, la quale ha proposto ricorso per Cassazione dopo essere stata ritenuta colpevole dei reati di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (art. 603 bis c.p.) ed estorsione aggravata (art. 629 c.p.) per aver:

  • sottoposto i lavoratori a condizioni di sfruttamento approfittando del loro stato di bisogno;
  • costretto taluni dipendenti a restituire la retribuzione ricevuta ovvero a lavorare sottopagati con minaccia consistita nel prospettarne la mancata riassunzione in occasione di successivi rinnovi contrattuali.

La Cassazione, ribaltando la pronuncia di merito, ha rilevato, preliminarmente, che l’art. 603 bis c.p. non può trovare applicazione a settori lavorativi che avvalendosi di prestazioni intellettuali, esulano dalla categoria dei lavori manuali (siano essi in ambito agricolo, artigianale o industriale).

Per la sentenza, infatti, la norma si riferisce al reclutamento o all’utilizzazione di “manodopera”, termine legato non solo al carattere manuale dell’attività, ma anche alla prestazione di lavoro privo di qualificazione.

Secondo la Corte tali elementi sono estranei al lavoro intellettuale, rispetto a cui l’intelletto costituisce elemento identitario che non può essere ricondotto nella categoria generica della manodopera.

Su tali presupposti, visto che la società cooperativa operava in un settore tipicamente intellettuale, ossia quello dell’istruzione, i Giudici di legittimità hanno accolto il ricorso dell’imputata limitatamente al reato di sfruttamento del lavoro.

Newsletter Speciale

COLLEGATO LAVORO

in GAZZETTA ufficiale la legge 13 dicembre 2024 n. 203.

La L. 13 dicembre 2024, n. 203, c.d. Collegato Lavoro approda in Gazzetta Ufficiale, Serie Generale n. 303 del 28.12.2024.

La L. 203/2024, recante “Disposizioni in materia di lavoro” entrerà in vigore il prossimo 12 gennaio 2025.

Il provvedimento è nato dall’esigenza di semplificare i numerosi adempimenti connessi al rapporto di lavoro, con particolare riferimento ai temi della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, della disciplina dei contratti di lavoro, dell’adempimento degli obblighi contributivi e degli ammortizzatori sociali.

In particolare, si segnalano le seguenti disposizioni previste dal nuovo testo di legge e richiamate anche dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) che, con Nota n. 9740/2024, ha fornito le prime indicazioni sugli stessi contenuti del c.d. Collegato Lavoro:

  • art. 1 – Modifiche al decreto legislativo n. 81/2008;
  • art. 6 – Sospensione della prestazione di cassa integrazione;
  • art. 9 – Disposizioni in materia di flessibilità nell’utilizzo delle risorse dei fondi bilaterali per la formazione e l’integrazione del reddito nel settore della somministrazione di lavoro;
  • art. 10 – Modifiche in materia di somministrazione di lavoro;
  • art. 11 – Norma di interpretazione autentica in materia di attività stagionali;
  • art. 13 – Durata del periodo di prova;
  • art. 14 – Termine per le comunicazioni obbligatorie in materia di lavoro agile;
  • art. 17 – Applicazione del regime forfetario nel caso di contratti misti;
  • art. 19 – Norme in materia di risoluzione del rapporto di lavoro;
  • art. 20 – Disposizioni relative ai procedimenti di conciliazione in materia di lavoro;
  • art. 25 – Disposizioni concernenti la notificazione delle controversie in materia contributiva.
  • Sicurezza sul lavoro.

All’art. 1 è prevista una serie di novità in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

In particolare:

  • alla lettera b dell’art. 1 viene prevista la redazione annuale, da parte del Ministero del Lavoro, di una relazione alle Camere sullo stato della sicurezza nei luoghi di lavoro, che dovrà contenere l’indicazione di misure per migliorare le condizioni di sicurezza.
  • Alla lettera d, in tema di sorveglianza sanitaria dei lavoratori effettuata dal medico competente, viene precisato che essa comprende la visita medica preventiva, anche in fase preassuntiva, diretta a constatare l’assenza di controindicazioni al lavoro cui il lavoratore è destinato. Ne consegue, pertanto, che la visita medica in fase preassuntiva costituisce una delle modalità di adempimento dell’obbligo di visita medica preventiva.
  • Viene poi soppressa l’ipotesi che la visita preassuntiva sia svolta, su scelta del datore di lavoro, dal dipartimento di prevenzione dell’ASL anziché dal medico competente e si prevede per quest’ultimo la possibilità di evitare la ripetizione di esami clinici e diagnostici già effettuati e risultanti dalla cartella clinica del lavoratore.
  • In relazione alla visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza del lavoratore di durata superiore a 60 giorni continuativi per motivi di salute, viene stabilito che l’obbligo di effettuare la visita sussiste solo se quest’ultima viene ritenuta necessaria dal medico competente; qualora il medico competente non la ritenga necessaria è tenuto ad esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica.
  • Infine, viene individuata l’azienda sanitaria locale come l’amministrazione competente per l’esame dei ricorsi contro i giudizi del medico competente, compresi quelli formulati in fase preassuntiva.
  • Alla lettera e. è previsto che per le attività lavorative svolte in locali chiusi sotterranei o semi sotterranei, se le lavorazioni non danno luogo ad emissioni di agenti nocivi, il datore di lavoro è tenuto a comunicare tramite PEC, al competente ufficio territoriale dell’Ispettorato (INL), l’uso dei locali, allegando tutta la documentazione necessaria a dimostrare il rispetto dei requisiti di idonee condizioni di aerazione, illuminazione e microclima.
  • Cassa integrazione e attività lavorativa.

L’art. 6 chiarisce le incompatibilità tra percezione del trattamento di cassa integrazione e attività lavorativa contestuale: infatti, il lavoratore percettore di trattamento di integrazione salariale può svolgere attività lavorativa, in forma subordinata o autonoma, presso un datore di lavoro diverso da quello che ha fatto ricorso al trattamento medesimo, purché lo comunichi all’INPS. Il Collegato Lavoro ha modificato l’art. 8 del D.Lgs. n. 148/2015 prevedendo la perdita dei trattamenti ordinari o straordinari di integrazione salariale per le giornate lavorate. Di conseguenza, il lavoratore che svolge attività durante il periodo di integrazione salariale non ha diritto al relativo trattamento per le giornate di lavoro effettuate.

  • Formazione lavoratori somministrati.

All’art. 9 sono previste disposizioni volte a favorire una gestione flessibile delle risorse dei fondi bilaterali per la formazione e integrazione al reddito dei lavoratori somministrati a tempo determinato e indeterminato.

La norma inserisce il comma 3 – bis dell’art. 12 del D.Lgs. n. 276/2003, consentendo che le risorse del fondo bilaterale dei lavoratori somministrati siano utilizzate senza applicazione di vincoli di riparto per la formazione dei candidati a una missione e dei lavoratori, assunti a tempo determinato o indeterminato.

  • Somministrazione di lavoro.

Con l’art. 10, comma 1, lettera a, sono state introdotte modifiche in tema di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato. Il D.L. n. 104/2020, convertito con L. n. 126/2020 (c.d. Decreto Agosto), per far fronte alle conseguenze dell’emergenza dovuta al Covid – 19 aveva introdotto la previsione secondo cui il lavoratore assunto a tempo indeterminato dall’agenzia di somministrazione e somministrato a termine presso l’utilizzatore può essere impiegato in missione per periodi superiori a 24 mesi anche non continuativi, senza che ciò comporti in capo all’utilizzatore stesso la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con il lavoratore somministrato. Il sopracitato articolo ha abrogato questa previsione, ripristinando il limite complessivo di 24 mesi relativo ai periodi di impiego in missione presso uno stesso utilizzatore.

Sempre all’art. 10, comma 1, lettera a, è prevista, inoltre, una modifica al limite legale dei lavoratori somministrati. Ex comma 2, dell’art. 31 del D.Lgs. n. 81/2015, il numero di lavoratori assunti con contratto a tempo determinato o con contratto di somministrazione a tempo determinato, salvo diversa previsione da parte della contrattazione collettiva e sempre nel rispetto del limite di cui all’art. 23 del D.Lgs. n. 81/2015, non può superare complessivamente il 30% del numero di lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore al 1° gennaio dell’anno di stipula del contratto.

Il Collegato Lavoro inserisce tra le ipotesi di esclusione dal rispetto del suddetto limite legale:

  • la somministrazione a tempo determinato di soggetti assunti dal somministratore con contratto di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato;
  • i rapporti di somministrazione a termine stipulati con lavoratori aventi determinate caratteristiche o conclusi per particolari esigenze (svolgimento di attività stagionali o di specifici spettacoli, start-up, sostituzione di lavoratori assenti, lavoratori con più di 50 anni).

In tema di assunzione con contratto di somministrazione di lavoro a tempo determinato, l’art. 10, comma 1, lettera b, integrando l’art. 34, comma 2 del D.Lgs. n. 81/2015, dispone che non è soggetto al rispetto del termine di durata di 12 mesi, il rapporto di lavoro a termine stipulato tra somministratore e:

  • lavoratori disoccupati, che godono da almeno sei mesi di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali;
    • lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati ai sensi dei nn. 4 e 99 dell’art. 2 del Regolamento (UE) n. 651/2014, come individuati con il decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali.
  1. Attività stagionali.

L’art. 11 amplia la definizione di “attività stagionali”, non limitandola più alle sole attività individuate dal DPR n. 1525/1963 o a quelle ulteriori eventualmente previste dalla contrattazione collettiva. In pratica, oltre ai cosiddetti “stagionali”, la norma specifica che rientrano nella categoria anche quelle attività organizzate per far fronte a “intensificazioni” dell’attività lavorativa in determinati periodi dell’anno, nonché ad esigenze tecnico – produttive o collegate ai cicli stagionali dei settori produttivi o dei mercati.

  • Durata del periodo di prova nei contratti a tempo determinato.

Modificando l’art. 7, comma, del D.Lgs. n. 104/2022, l’art. 13 ridefinisce il periodo di prova dei contratti a tempo determinato, stabilendo criteri univoci per la sua durata.

La nuova norma prevede che, fatte salve le disposizioni più favorevoli di cui alla contrattazione collettiva, la durata del periodo di prova per i rapporti di lavoro a tempo determinato è fissata in un giorno di effettiva prestazione ogni quindici giorni di calendario a partire dalla data di inizio del rapporto di lavoro.

In ogni caso, la durata del periodo di prova non può essere inferiore a due giorni né superiore a quindici giorni per i contratti con durata non superiore a sei mesi e non può essere inferiore a due giorni e superiore a trenta giorni per quelli con durata superiore a sei mesi e inferiori a dodici mesi.

  • Smart working.

All’art. 14 è previsto che il datore di lavoro comunichi, in via telematica al Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, i nominativi dei lavoratori e la data di inizio e di fine del lavoro agile, entro cinque giorni dalla data di avvio del periodo in smart working o entro i cinque giorni successivi alla data in cui si verifica l’evento modificativo della durata e della cessazione del suddetto periodo.

  • Contratto a causa mista e regime forfettario.

All’art. 17 è prevista l’introduzione di un contratto ibrido a causa mista, con la possibilità di assumere un lavoratore in parte con un contratto dipendente, in parte con un rapporto autonomo a partita IVA, beneficiando del regime forfettario per il reddito autonomo.

Ciò consente ai professionisti di lavorare con contratti part – time come dipendenti e contestualmente fornire prestazioni come autonomi, garantendo una maggiore flessibilità alle imprese con particolare riguardo a quelle che occupano più di 250 dipendenti.

  • Dimissioni: risoluzione per assenza ingiustificata.

L’art. 19 disciplina i casi di assenza ingiustificata del lavoratore. Esso stabilisce che l’assenza ingiustificata protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo o, in mancanza di previsione contrattuale, oltre i 15 giorni, il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore.

È stato introdotto un nuovo obbligo per il datore, che deve ora comunicare l’evento all’Ispettorato del Lavoro, a cui è riconosciuta la possibilità di verificare la veridicità della comunicazione.

Tale disposizione non trova applicazione se il lavoratore dimostra l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano l’assenza. In mancanza di tali motivi il rapporto di lavoro si intenderà risolto per volontà del lavoratore e, di conseguenza, quest’ultimo non potrà fare richiesta di NASpI, venendo meno il requisito della disoccupazione involontaria.

Con l’art. 20 viene introdotta una semplificazione per la conciliazione in materia di lavoro in sede amministrativa e sindacale. Tali procedimenti potranno svolgersi in modalità telematica mediante collegamenti audiovisivi. La nuova norma si pone l’obbiettivo di agevolare l’accesso ai servizi di conciliazione e ridurre i costi garantendo, in ogni caso, l’affidabilità delle procedure in atto.

  • Notificazione delle controversie in materia contributiva.

L’art. 25 prevede che il ricorso sulle controversie in materia contributiva venga notificato presso la sede territoriale nella cui circoscrizione risiedono i soggetti privati interessati.

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DICEMBRE 2024

Reverse proxy: quale è il giudice competente negli illeciti commessi tramite internet?

Il Tribunale di Roma, con la sentenza n. 1569/2024, si è pronunciato in ordine al criterio di determinazione della giurisdizione italiana in caso di illeciti commessi tramite internet da soggetto non domiciliato né residente in Italia. In particolare, il caso riguarda il c.d. reverse proxy, consistente nella attività di un software che si interpone tra la rete pubblica e il servizio che ospita sul proprio server, fungendo da intermediario nell’ambito della comunicazione client/server.

La controversia è stata instaurata dalla società R.T. S.p.A., titolare di diritti su celebri programmi televisivi italiani. Questa aveva rilevato che soggetti terzi non identificati, al fine di sfruttare abusivamente la propria proprietà intellettuale, avevano creato un’attività economica organizzata, principalmente, tramite il sito web denominato “G.” che, dovendo spesso cambiare la propria sede virtuale per aggirare i blocchi disposti dall’AGCOM, comunicava ai propri clienti nuovi indirizzi web.

R.T., quindi, ha presentato ricorso avverso la società statunitense “C. Inc.”, la quale forniva supporto tecnico – logistico a tali soggetti non identificati, consentendo loro di sfruttare abusivamente la proprietà intellettuale altrui e mantenendo, in ogni caso, l’anonimato.

Il Tribunale di Roma, in tale circostanza, ha affermato, in linea con la giurisprudenza nazionale ed europea, che la giurisdizione della controversia appartiene al Giudice italiano, in applicazione del criterio del locus commissi delicti.

Il Giudice ha altresì specificato cosa debba intendersi, in base alla giurisprudenza prevalente, per locus commissi delicti con riferimento agli illeciti commessi tramite internet, definendolo come il “luogo in cui il danno materialmente si consuma con la diffusione dei dati digitali nell’area di mercato ove la parte danneggiata risiede o esercita la sua attività di impresa”.

Pertanto, nella controversia in oggetto, la giurisdizione competente, ossia quella del Giudice italiano, è stata determinata, non in base al luogo in cui gli utenti hanno stoccato i file, ma in relazione all’evento lesivo che ha arrecato il danno lamentato da R.T.

Violazione di dati personali e bancari, Garante Privacy: obbligo di informare i clienti.

Il Garante Privacy, con provvedimento n. 659 del 2 novembre 2024, in relazione ad una nota vicenda di ripetuti accessi indebiti da parte di un dipendente di una banca a dati personali dei clienti, ha intimato alla banca medesima di informare, entro 20 giorni dalla ricezione del provvedimento, tutti i soggetti coinvolti nella violazione dei dati personali e bancari.

Il provvedimento si è reso necessario in quanto nelle prime comunicazioni inviate dalla banca al Garante pare non fosse stata adeguatamente messa in evidenza l’ampiezza della violazione, come, invece, è poi emerso.

Diversamente da quanto valutato dalla banca, l’Autorità ha ritenuto, nel caso di specie, che la violazione dei dati personali in questione fosse suscettibile di presentare un rischio elevato per i diritti e le libertà delle persone fisiche, in considerazione:

  • della natura della violazione dei dati personali, che, alle condizioni previste dall’art. 615-ter c.p., può configurare un’ipotesi di reato;
  • delle categorie dei dati personali oggetto di violazione;
  • della gravità e persistenza delle possibili conseguenze per le persone fisiche che potrebbero derivare dalla violazione (ad esempio: la divulgazione di notizie riguardanti lo stato patrimoniale);
  • del settore di attività del Titolare del trattamento, che richiede un elevato grado di responsabilizzazione.

Il Garante, riservandosi di valutare l’adeguatezza delle misure di sicurezza adottate dalla banca, ha ingiunto alla stessa di trasmettere all’Autorità, entro 30 giorni, un riscontro, adeguatamente documentato, in ordine alle iniziative intraprese al fine di dare piena attuazione a quanto prescritto.

Tra le incombenze vi rientra quella di comunicare individualmente la violazione dei dati a tutti gli interessati, i cui dati personali e bancari siano stati oggetto di accesso non riconducibile all’ordinaria attività lavorativa del dipendente.

L’Autorità rileva, peraltro, che il Titolare non ha provato in alcun modo la sussistenza dello sforzo sproporzionato che comporterebbe la predetta comunicazione. Pertanto, non ha ritenuto applicabile al caso di specie la condizione prevista alla lettera c), par. 3 dell’art. 34 GDPR, anche in ragione del fatto che i clienti sono certamente noti alla banca, così come sono noti i recapiti di ciascuno di essi.

Meta: sanzione da oltre 25 milioni di dollari per la privacy policy di WhatsApp.

L’autorità della concorrenza e del mercato dell’India (Competition Commission of India) ha ordinato a WhatsApp di cessare la condivisione dei dati degli utenti con altre società di Meta per finalità pubblicitarie per cinque anni, imponendo anche una multa di 25,4 milioni di dollari per violazioni antitrust relative alla controversa vicenda sulla privacy policy di WhatsApp.

La Commissione per la concorrenza dell’India, che aveva avviato l’indagine nel 2021, ha rilevato che l’aggiornamento sulla privacy take-it-or-leave-it” di WhatsApp costituiva un abuso della posizione dominante di Meta, costringendo gli utenti ad accettare la condivisione dei loro dati, senza un’opzione di opt-out.

L’aggiornamento dell’informativa sulla privacy di WhatsApp per il 2021 richiedeva, infatti, agli utenti di condividere i loro dati con le società Meta per poter continuare ad utilizzare il servizio di messaggistica, eliminando una precedente opzione di opt-out esistente dal 2016. Il requisito obbligatorio di condivisione delle informazioni personali ha, pertanto, ampliato la portata della raccolta e dell’elaborazione dei dati da parte delle società del gruppo Meta.

Rider, Garante Privacy: no all’algoritmo incontestabile dai lavoratori.

Sanzione di 5 milioni di euro a Foodinho, società del gruppo Glovo: fino ad agosto 2023 i rider venivano geolocalizzati anche fuori dall’orario di lavoro.

Il Garante Privacy ha ordinato a Foodinho S.r.l. il pagamento di una sanzione di 5 milioni di euro per aver trattato illecitamente i dati personali di oltre 35 mila rider attraverso la piattaforma digitale utilizzata per lo svolgimento dell’attività. L’Autorità, inoltre, ha vietato l’ulteriore trattamento dei dati biometrici dei rider (nello specifico, il riconoscimento facciale), utilizzati per la verifica dell’identità degli stessi.

La decisione arriva a conclusione dell’istruttoria avviata d’ufficio dopo la morte, occorsa nel 2022, di un rider coinvolto in un incidente stradale durante una consegna. In quell’occasione un gruppo di informatici aveva denunciato una serie di violazioni del GDPR, connesse alla disattivazione dell’account della vittima, dalle quali è partita l’inchiesta.

Infatti, nonostante la società fosse già stata sanzionata dal Garante nel 2021, l’Autorità ha accertato che la piattaforma utilizzata, quando disattiva o blocca un account, invia automaticamente un unico messaggio standard, il quale, tuttavia, non informa il destinatario della possibilità di contestare la decisione e chiedere il ripristino dell’account.

Dagli accertamenti è anche emerso che Foodinho, senza informare gli interessati, invia regolarmente a società terze i dati personali dei rider, tra cui anche la posizione geografica. Questi ultimi dati, in particolare, vengono trasmessi anche quando il lavoratore non è in turno, in quanto l’app risulta attiva in background e, fino ad agosto 2023, anche quando l’app non era attiva.

Pertanto, Foodinho sarà tenuto a riformulare i messaggi inviati ai rider in caso di disattivazione o blocco dell’account, assicurando che le decisioni adottate dall’algoritmo siano verificate da operatori adeguatamente formati. Inoltre, dovrà attivare sul dispositivo di ciascun lavoratore che effettua consegne una icona che indichi che il GPS è attivo, oltre che procedere a disattivarlo quando l’app è in background.

L’adozione del provvedimento del Garante coincide con la pubblicazione sulla GUCE (l’11/11/2024) della Direttiva UE 2024/2831, relativa al miglioramento delle condizioni di lavoro mediante piattaforme digitali.

PMI, con Olivia corsi gratuiti sul GDPR e test di controllo.

Il tool consente a Titolari e Responsabili del trattamento dati di verificarne la conformità rispetto alla normativa in materia di privacy.

Olivia (a cui è possibile accedere tramite il link: https://olivia-gdpr-arc.eu/italian/it) è un tool pensato per offrire un’occasione di formazione per le piccole e medie imprese ed accompagnarle nel loro adeguamento al Regolamento europeo sulla protezione dei dati (GDPR). Può rappresentare uno strumento utile di conoscenza anche per tutti i titolari e responsabili del trattamento del settore pubblico.

Infatti, la piattaforma presenta una serie di moduli di apprendimento, che vanno dalle nozioni di base sul GDPR, ai principi e alle basi giuridiche del trattamento dei dati, fino alle condizioni per l’utilizzo dei cookie o dei sistemi di videosorveglianza sul luogo di lavoro. Ma soprattutto il tool, elaborando risposte ai questionari messi a disposizione, consente alle aziende di verificare la conformità alla disciplina sulla privacy.

Particolare utilità rivestono i modelli di documentazione proposti da Olivia a proposito di valutazione d’impatto sulla protezione dati (DPIA) e di valutazione del legittimo interesse, che rappresenta la base giuridica più complessa su cui fondare un trattamento, dal momento che richiede di dimostrare la prevalenza degli interessi dell’organizzazione sui diritti degli interessati.

Olivia è completamente gratuito e disponibile in italiano, inglese e croato. Gli utenti registrati troveranno sulla piattaforma le registrazioni video dei dieci seminari realizzati da remoto nell’ambito di ARC II e tutte le presentazioni effettuate dai relatori.

NEWSLETTER 12/2024

Novità normative

Pubblicata in Gazzetta Ufficiale Europea della Direttiva 2831/2024.

Gli Stati membri dovranno attuare, entro il 2 dicembre 2026, alcune importanti linee guida in merito al lavoro tramite piattaforme digitali.

La Direttiva 2024/2831 del Parlamento europeo e del Consiglio del 24 ottobre 2024 è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea dell’11 novembre scorso.

Lo scopo è quello di migliorare, grazie ad un maggiore e più accurato controllo umano sugli algoritmi, le condizioni di lavoro e la protezione dei dati personali per tutti coloro che prestano attività attraverso piattaforme digitali, una categoria in continua crescita, che, tuttavia, ha sinora avuto scarsa tutela.

Il provvedimento, tra le altre, introduce misure dirette a facilitare la corretta qualificazione del rapporto di lavoro mediante piattaforme digitali e promuove la trasparenza e la supervisione umana nella gestione algoritmica del lavoro, anche rispetto a situazioni transfrontaliere.

La Direttiva entra in vigore l’1 dicembre 2024 e dovrà essere recepita dai vari Stati membri entro il 2 dicembre 2026.

Si rileva che in Italia vi sono già disposizioni sul lavoro tramite piattaforme (art. 2 D.Lgs. n. 81/2015) e sul dovere di trasparenza (D.Lgs. n. 104/2022) e, pertanto, sarà necessario coordinare tali regole con le nuove previsioni, al fine di evitare una stratificazione caotica di norme.

Agenzia delle Entrate, circolare n. 22/E del 19 novembre 2024Bonus Natale: si amplia la platea dei lavoratori interessati.

L’Agenzia delle Entrate, con la citata circolare, dopo le modifiche apportate al c.d. bonus Natale da parte dell’art. 2, del D.L. n. 167/2024, ha aggiornato le istruzioni a suo tempo fornite con la circolare n. 19/E/2024.

La novità principale riguarda l’ambito soggettivo di applicazione della norma, in quanto è stata ampliata la platea dei soggetti beneficiari.

Il legislatore, infatti, ha eliminato i riferimenti al coniuge fiscalmente a carico e al nucleo familiare monogenitoriale, prevedendo che, ai fini della spettanza del bonus, fermi restando gli altri requisiti, è sufficiente avere almeno un figlio fiscalmente a carico, anche se nato fuori del matrimonio, riconosciuto, adottivo, affiliato o affidato.

Per poter beneficiare del bonus Natale sarà necessario che:

  • vi sia specifica richiesta del lavoratore al datore di lavoro tramite dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà con la quale attesterà la sussistenza dei requisiti reddituali e familiari;
  • il reddito complessivo nell’anno di imposta 2024 non deve superare gli Euro 28.000 (nel reddito complessivo non rientra quello derivante dall’unità immobiliare adibita ad abitazione principale e relative pertinenze);
  • il beneficiario deve avere almeno un figlio fiscalmente a carico. Il bonus non spetta “al lavoratore dipendente coniugato o convivente il cui coniuge, non legalmente ed effettivamente separato, o convivente sia beneficiario della stessa indennità”;
  • l’imposta lorda determinata sui redditi di lavoro dipendente deve essere di importo superiore a quello della detrazione da lavoro spettante (c.d. capienza fiscale).

Il bonus Natale, pari all’importo massimo di Euro 100,00 netti, sarà erogato unitamente alla tredicesima mensilità e non concorrerà alla formazione del reddito da lavoro dipendente, né ai fini fiscali né previdenziali.

C.d. “Decreto Salva infrazioni” (D.L. n. 131/2024) convertito in Legge 14 novembre 2024, n. 166.

Novità: distacco del personale assoggettato a IVA a partire dal 2025.

La novità principale a seguito della conversione in Legge del c.d. “Decreto Salva infrazioni” consiste nell’assoggettamento a IVA delle prestazioni di distacco, abolendo la precedente esenzione prevista dalla normativa italiana.

Questa modifica, contenuta nell’art. 16-ter del D.L. n. 131/2024, convertito in Legge 14 novembre 2024, n. 166, risponde alla necessità di adeguare la normativa nazionale alle indicazioni dell’Unione Europea.

L’intervento normativo abroga l’art. 8, comma 35 della L. n. 67/1988, che stabiliva la non rilevanza ai fini IVA dei distacchi di personale, per i quali era previsto solo il rimborso dei costi sostenuti.

Da gennaio 2025, i distacchi saranno soggetti a IVA se sussiste un nesso diretto tra il servizio reso e il corrispettivo ricevuto, conformemente alla giurisprudenza comunitaria.

In ogni caso, la nuova disciplina si applicherà esclusivamente ai:

  • distacchi e prestiti di personale stipulati dopo l’1 gennaio 2025;
  • contratti rinnovati a partire da tale data.

Novita’ GIURISPRUDENZIALI

Corte di Cassazione, ordinanza 11 novembre 2024, n. 28927.

Va reintegrato il lavoratore licenziato senza una preventiva contestazione disciplinare.

La Cassazione, nel confermare la pronuncia di merito, rileva che, in materia di licenziamento disciplinare, l’assenza della contestazione dell’infrazione determina l’inesistenza dell’intero procedimento e non solo l’inosservanza delle norme che lo disciplinano.

Infatti, la preventiva contestazione del fatto disciplinarmente rilevante rappresenta un presupposto logico e giuridico necessario per poter valutare la legittimità del recesso.

Secondo i Giudici, pertanto, in assenza di contestazione si rientra nell’ipotesi di insussistenza del fatto contestato, per cui l’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970 prevede la tutela reintegratoria.

Tribunale di Roma, ordinanza 12 ottobre 2024, n. 10104.

Il licenziamento senza contestazione dà diritto alla reintegra anche nelle piccole imprese.

Il Tribunale di Roma afferma che, il licenziamento comminato senza una preventiva contestazione disciplinare, integra una vera e propria nullità, che genera sempre il diritto del lavoratore alla reintegra. Secondo il Giudice, l’avere proceduto ad irrogare il recesso al di fuori delle regole procedimentali previste per legge, priva il lavoratore di strumenti di difesa essenziali. Pertanto, secondo la sentenza, deve trovare applicazione la tutela reintegratoria, anche nelle imprese sotto i 15 dipendenti, sussistendo un’ipotesi di nullità c.d. virtuale, ossia non espressamente prevista dalla legge, ma generata dalla contrarietà della condotta a norme imperative.

Questa sentenza contrasta con quanto, invece, affermato dalla Corte d’Appello di Bari con una sentenza di poco antecedente, la n. 1497 del 2023, secondo cui il licenziamento irrogato in assenza di una preventiva contestazione disciplinare è affetto da illegittimità e non da nullità, con conseguente applicazione, nelle imprese sotto soglia, della tutela risarcitoria, non la reintegrazione.

Corte di Cassazione, ordinanza 5 novembre 2024, n. 28369.

Rinvio dell’audizione del lavoratore nel procedimento disciplinare.

La Cassazione con la citata ordinanza ha affermato che “in tema di procedimento disciplinare a carico del lavoratore, ove quest’ultimo eserciti il proprio diritto di difesa chiedendo di essere sentito nei termini di legge, il datore di lavoro ha l’obbligo della sua audizione. Il lavoratore ha bensì diritto a essere sentito oralmente, ma non anche ad un differimento dell’incontro limitandosi ad addurre una mera disagevole o sgradita possibilità di presenziare, poiché l’obbligo di accogliere la richiesta del lavoratore sussiste solo ove la stessa risponda ad un’esigenza difensiva non altrimenti tutelabile”.

Corte di Cassazione, ordinanza 4 novembre 2024, n. 28248.

Legittimo il licenziamento del lavoratore che fa timbrare il badge presenze dal collega.

Il caso ha coinvolto una dipendente che avrebbe fatto timbrare il proprio badge ad un collega, al fine di risultare in orario nonostante il proprio ritardo.

Tale condotta, secondo l’azienda, ha integrato una violazione delle regole di correttezza e lealtà, indispensabili per mantenere la fiducia reciproca nell’ambito del rapporto di lavoro. L’azienda, pertanto, ha avviato un procedimento disciplinare che si è concluso con il licenziato della dipendente per giusta causa. La lavoratrice, quindi, ha impugnato la sanzione innanzi alla Cassazione, la quale, tuttavia, ha rigettato il ricorso.

La Corte, infatti, ha affermato l’importanza del principio di fiducia come elemento fondamentale nel rapporto di lavoro, dichiarando, peraltro, che, quando il comportamento fraudolento è dimostrato, il licenziamento è una misura proporzionata, atta a tutelare l’integrità del rapporto professionale.

La Cassazione ha altresì chiarito che un errore formale nella citazione di una norma contrattuale non inficia la validità della sanzione, se il contenuto della lettera disciplinare permette comunque di comprendere le accuse e le violazioni contestate.

Corte d’Appello di Milano, sentenza 2 settembre 2024, n. 647.

Legittimo il licenziamento comunicato tramite piattaforma cloud ma attenzione al computo dei giorni.

Il caso riguarda un dipendente con mansioni di autista, licenziato per giusta causa a seguito di plurime contestazioni disciplinari per danni cagionati dalla circolazione stradale nell’espletamento della sua attività lavorativa. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento contestando: la legittimità del licenziamento per le modalità di comunicazione del provvedimento ed il mancato rispetto della procedura imposta dallo Statuto dei Lavoratori.

Poiché il ricorso è stato respinto in primo grado, il ricorrente ha proposto appello.

I Giudici di secondo grado hanno affermato che il licenziamento può essere comunicato anche tramite caricamento della relativa comunicazione su portale cloud. Tale conclusione è in linea con i principi più volte ribaditi dalla giurisprudenza: ai fini della legale conoscenza delle comunicazioni ricettizie, è necessario che le stesse entrino nella sfera di conoscibilità del destinatario e, pertanto, il licenziamento può essere comunicato anche tramite messaggio WhatsApp o via e-mail.

Corte di Cassazione, ordinanza 5 novembre 2024, n. 28429.

Pop Art Injured Stock Illustrations – 94 Pop Art Injured Stock  Illustrations, Vectors & Clipart - DreamstimeVa considerato in itinere l’infortunio occorso al dipendente che, durante l’orario di lavoro, fa spostamenti per conto dell’azienda, seppur con mezzi propri.

Nel caso di specie, un lavoratore ha promosso ricorso nei confronti dell’INAIL, affinché gli venisse riconosciuto come infortunio in itinere il sinistro occorsogli mentre si stava recando dalla sede aziendale ad un cantiere per conto della società.

La Cassazione, ribaltando la precedente pronuncia emessa dalla Corte d’Appello, rileva che il tempo utilizzato per raggiungere il luogo di lavoro rientra nell’attività lavorativa vera e propria, allorché lo spostamento sia funzionale rispetto alla prestazione.

Secondo la Corte, sussiste il carattere di funzionalità quando il dipendente, tenuto a presentarsi presso la sede aziendale, sia poi di volta in volta chiamato a svolgere la sua attività in diverse altre località. In ragione di ciò, la Suprema Corte ha accolto il ricorso proposto dal lavoratore.

Corte di Cassazione, ordinanza 4 novembre 2024, n. 28255.

Lo svolgimento di attività – extralavorativa o lavorativa – da parte del dipendente durante l’assenza per malattia o infortunio può configurare la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede.

A seguito di accertamenti effettuati da un’agenzia investigativa, il datore di lavoro aveva contestato ad una dipendente, assente dal lavoro per infortunio a causa di un trauma alla spalla destra, di avere tenuto una serie di condotte idonee a pregiudicare il rientro in servizio, tra cui “portare una borsa sulla spalla destra, uscire dal supermercato con un sacchetto contenente anche una bottiglia, condurre la bicicletta (anche contemporaneamente parlando al cellulare tenendolo con la mano destra), trascinare il carrello-trolley contenente la spesa utilizzando il braccio destro, aprire la portiera dell’autovettura con la mano destra, reggendo sul braccio destro una borsa voluminosa.”

Tali condotte, tuttavia, non sono state ritenute dalla Cassazione, idonee a dimostrare il pregiudizio al rientro, in quanto affinché tale violazione sussista è necessario che l’attività svolta durante l’assenza sia sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, oppure che l’attività possa pregiudicare la guarigione.

Decisivo è stato il fatto che l’INAIL non avesse prescritto alla lavoratrice alcun tipo di terapia, né l’immobilizzazione della spalla o l’applicazione di tutore. Quindi, prima dei pedinamenti non c’era stata alcuna prescrizione limitativa dei movimenti, i quali, di conseguenza, non potevano aver pregiudicato il rientro in servizio.

Corte di Cassazione, sentenza 5 novembre 2024, n. 28452.

La notifica PEC non si perfeziona in caso di mancata consegna anche per causa imputabile al destinatario.

Le Sezioni Unite accolgono l’orientamento che prevede il non perfezionamento della notifica in caso di avviso di mancata consegna, dovuto alla saturazione della casella di posta certificata del destinatario.

Il notificante, per non incorrere in decadenze, dovrà quindi, obbligatoriamente, riattivare tempestivamente il procedimento notificatorio con le modalità ordinarie, seguendo le disposizioni previste dagli artt. 137 e seguenti c.p.c. Ciò evita che il notificante subisca gli effetti negativi della decadenza a causa della gestione negligente della casella PEC da parte del destinatario.

Le Sezioni Unite, nel motivare la loro decisione, hanno dato prevalenza alla lettera dell’art. 3-bis della L. n. 53/1994, il quale prevede il perfezionamento della notifica solo ed esclusivamente quando viene generata la ricevuta di avvenuta consegna (RdAC).

Tale principio, stabilito in base alla normativa vigente prima della riforma del D.Lgs. n. 149/2022 (riforma Cartabia) e prima della modifica apportata all’art. 3 ter, commi 2 e 3 dal D.Lgs. n. 164/2024 (correttivo Cartabia), evita interpretazioni che potrebbero favorire la saturazione delle caselle PEC e mantiene l’onere sul notificante di ripetere la notifica secondo le modalità ordinarie.

Corte di Cassazione, ordinanza 24 ottobre 2024, n. 27610.

Ancora sui controlli tramite agenzie investigative.

La vicenda riguarda un lavoratore di ruolo apicale, licenziato perché colto in più occasioni da un’agenzia investigativa mentre prolungava per parecchi minuti la pausa per la colazione o effettuava altre pause non autorizzate, intrattenendosi con due colleghi presso diversi esercizi commerciali.

La Cassazione, nel confermare la legittimità del licenziamento, si sofferma, in particolare, sui controlli investigativi, osservando che, secondo il proprio

consolidato orientamento giurisprudenziale, i controlli tramite agenzia investigativa, come quelli

mediante guardie particolari giurate, non possono riguardare, in nessun caso, l’adempimento della prestazione lavorativa, ma unicamente il compimento di atti illeciti.

Nel caso di specie, i comportamenti contestati al lavoratore, oltre ad avere potenziale rilievo penale, risultano, secondo i giudici, altresì lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale. Da qui la legittimità dei controlli e del licenziamento.