PAGAMENTI RETRIBUZIONI Nota ITL n. 473 del 22 marzo 2021

Con la nota prot. n. 473 del 22 marzo 2021 l’Ispettorato nazionale del lavoro affronta la questione dell’applicazione del regime sanzionatorio nei confronti del datore di lavoro che non dimostri il pagamento della retribuzione con mezzi tracciabili a fronte della dichiarazione del lavoratore che confermi di non essere stato pagato in contanti. La legge n. 205/2017, entrata in vigore il 1° luglio 2018, all’art. 1, comma 911, ha previsto che i datori di lavoro e i committenti non possono corrispondere le retribuzioni per mezzo di denaro contante direttamente al lavoratore, qualunque sia la tipologia del rapporto di lavoro instaurato. Per rapporto di lavoro si intende ogni rapporto di lavoro subordinato, indipendentemente dalle modalità di svolgimento della prestazione e dalla durata del rapporto, nonché ogni rapporto di lavoro originato da contratti di collaborazione coordinata e continuativa e dai contratti di lavoro instaurati in qualsiasi forma dalle cooperative con i propri soci. L’obbligo previsto dalla legge non trova però applicazione per i compensi derivanti da borse di studio, tirocini e rapporti autonomi di natura occasionale. Inoltre, l’obbligo della tracciabilità dei pagamenti è escluso per i rapporti di lavoro instaurati con le pubbliche amministrazioni e per quelli rientranti nell’ambito di applicazione dei contratti collettivi nazionali per gli addetti a servizi familiari e domestici, stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale.

L’Ispettorato, pertanto, non attribuisce rilevanza, ai fini dell’esclusione della responsabilità del datore di lavoro, alla dichiarazione resa dal lavoratore che confermi di essere stato pagato con strumenti tracciabili, ricordando che l’ultimo periodo del comma 912 dell’art. 1 della legge n. 205/2017 stabilisce che “la firma apposta dal lavoratore sulla busta paga non costituisce prova dell’avvenuto pagamento della retribuzione”. Ne consegue che dovrà essere il datore di lavoro a provare che la retribuzione, nonché ogni anticipo di essa, sia stata corrisposta con i mezzi di pagamento elencati dal comma 910:

a) bonifico bancario sul conto identificato dal codice IBAN indicato dal lavoratore;

b) strumenti di pagamento elettronico;

c) pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale dove il datore di lavoro abbia aperto un conto corrente di tesoreria con mandato di pagamento;

d) emissione di un assegno consegnato direttamente al lavoratore o, in caso di suo comprovato impedimento, a un suo delegato.

Con la nota n. 4538 del 22 maggio 2018 l’Ispettorato aveva precisato che rientra tra gli “strumenti di pagamento elettronico” il versamento degli importi dovuti effettuato su carta di credito prepagata intestata al lavoratore, anche se non collegata ad un IBAN. Il datore di lavoro dovrà, tuttavia, conservare le ricevute di versamento anche ai fini della loro esibizione agli organi di vigilanza.

Per quanto riguarda, poi, gli strumenti di pagamento di cui alla lettera c) del comma 910 (pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale dove il datore di lavoro abbia aperto un conto corrente di tesoreria con mandato di pagamento), l’Ispettorato con nota n. 7369 del 10 settembre 2018, ritiene conforme alla ratio della disposizione anche l’ipotesi in cui il pagamento delle retribuzioni venga effettuato al lavoratore in contanti presso lo sportello bancario ove il datore di lavoro abbia aperto e risulti intestatario di un conto corrente o conto di pagamento ordinario soggetto alle dovute registrazioni.

In tal caso, infatti, appare comunque assicurata la finalità antielusiva della norma, tenuto conto che il pagamento è effettuato dalla banca e risulta sempre tracciabile anche ai fini di una possibile verifica da parte degli organi di vigilanza. Del resto, tale strumento non è espressamente indicato ma neanche esplicitamente escluso dalla formulazione della norma.

Pertanto, l’esplicito riferimento al solo “conto corrente di tesoreria” non comporta che l’eventuale pagamento effettuato su conto corrente ordinario possa ritenersi illecito e come tale sanzionabile ex art. 1, comma 913.

In relazione, infine, alla lettera d) del comma 910 (emissione di un assegno consegnato direttamente al lavoratore o, in caso di suo comprovato impedimento, a un suo delegato), il pagamento delle retribuzioni con lo strumento del “vaglia postale” può rientrare in tale ambito, sempreché siano rispettate le condizioni e le modalità di cui all’art. 49, commi 7 e 8, del D.Lgs. n. 231/2007 – ai sensi dei quali “gli assegni circolari, vaglia postali e cambiari sono emessi con l’indicazione del nome o della ragione sociale del beneficiario e la clausola di non trasferibilità” e “il rilascio di assegni circolari, vaglia postali e cambiari, di importo inferiore a 1.000 euro può essere richiesto, per iscritto, dal cliente senza la clausola di non trasferibilità” – e vengano esplicitati nella causale i dati essenziali dell’operazione (indicazione del datore di lavoro che effettua il versamento e del lavoratore/beneficiario, data ed importo dell’operazione ed il mese di riferimento della retribuzione).

La nota n. 5828 del 4 luglio 2018 specifica, inoltre, che per i soci lavoratori di cooperativa i pagamenti possono essere effettuati con il “libretto del prestito” purché sia richiesto per iscritto dal dipendente e il versamento sia debitamente documentato dall’ufficio paghe e attestato dall’ufficio prestito sociale.

Per quanto riguarda le voci rientranti nella retribuzione, la nota n. 7369/2018 ha precisato che l’utilizzo degli strumenti tracciabili non è obbligatorio per la corresponsione di somme diverse dalla retribuzione, quali ad esempio quelle imputabili a spese che i lavoratori sostengono nell’interesse del datore di lavoro e nell’esecuzione della prestazione (anticipi e/o rimborso spese di viaggio, vitto, alloggio), che potranno, quindi, continuare ad essere corrisposte in contanti.

Per quanto riguarda l’indennità di trasferta, in considerazione della natura “mista” della stessa (risarcitoria e retributiva solo quando superi un determinato importo ed abbia determinate caratteristiche), sarà comunque necessario ricomprendere le relative somme nell’ambito degli obblighi di tracciabilità, diversamente da quello che avviene rispetto a somme versate esclusivamente a titolo di rimborso (chiaramente documentato) che hanno natura solo restitutoria. Ciò in quanto rientra nella ratio della disposizione mettere in condizione il personale ispettivo di verificare gli effettivi importi versati al lavoratore “forfettariamente”, anche al fine di verificare il rispetto dei limiti di imponibilità fiscale e contributiva previsti dalla disciplina in materia di trasferte (art. 51, comma 5, del TUIR).

Il comma 913 dell’art. 1, legge n. 205/2017, afferma che al datore di lavoro o committente che viola l’obbligo della tracciabilità della retribuzione si applica la sanzione amministrativa pecuniaria della somma da 1.000 euro a 5.000 euro.

La violazione – precisa il parere dell’Ispettorato n. 4538/2018 – risulta integrata sia quando la corresponsione delle somme avvenga con modalità diverse da quelle indicate dal legislatore, sia nel caso in cui, nonostante l’utilizzo dei sistemi legali di pagamento, il versamento delle somme dovute non sia realmente effettuato. In sostanza, l’inosservanza si verifica anche nel caso di bonifico bancario in favore del lavoratore che venga successivamente revocato ovvero dell’assegno emesso che venga annullato prima dell’incasso. Il comportamento del datore di lavoro, in questi casi, evidenzia un intento elusivo, confermato, del resto, dalla previsione dell’ultimo periodo del comma 912 a mente del quale la firma apposta dal lavoratore sulla busta paga non costituisce prova dell’avvenuto pagamento della retribuzione. Ne consegue, conclude sul punto il parere, che ai fini della contestazione si ritiene sia necessario verificare non soltanto che il datore di lavoro abbia disposto il pagamento utilizzando i metodi previsti dalla norma, ma anche che la transazione sia andata a buon fine.

Con riferimento alla contestazione della sanzione amministrativa prevista dal suddetto comma 913, l’Ispettorato esclude che possa applicarsi la diffida ad adempiere ai sensi dell’art. 13 del D.Lgs. n. 124/2004, trattandosi di illecito non materialmente sanabile. Quindi, sarà possibile la sola riduzione della sanzione secondo l’art. 16 della legge n. 689/1981 con un importo pari a 1.666,66 euro da pagarsi nel termine di sessanta giorni dalla notifica del verbale.

Invece, la nota n. 5828/2018, stabilisce che la sanzione prescinde dal numero dei lavoratori interessati e dovrà calcolarsi in base alle mensilità per cui si è protratto l’illecito. In caso di mancato versamento delle somme sul codice tributo 741T, l’autorità competente a ricevere il rapporto sarà la sede territoriale dell’Ispettorato che ha emesso il verbale.

Sul fronte dei ricorsi avverso il verbale di contestazione e notificazione adottato dagli organi di vigilanza è possibile presentare ricorso amministrativo al direttore della sede territoriale dell’Ispettorato entro trenta giorni dalla notifica. Il ricorso va deciso nel termine di sessanta giorni dal ricevimento, spirato il quale lo stesso si intende respinto (silenzio-rigetto). Entro il medesimo termine di trenta giorni dalla notifica, sarà anche possibile presentare gli scritti difensivi all’Autorità che riceve il rapporto ai sensi dell’art. 18 della legge n. 689/1981.

Resta salva – conclude la nota n. 473/2021 – che nelle ipotesi di dubbia corresponsione della retribuzione attraverso gli strumenti prescritti, è rimessa alla valutazione del personale ispettivo, sulla base delle circostanze del caso concreto e degli elementi acquisiti in sede di accertamento, l’eventuale attivazione delle procedure per le verifiche presso gli Istituti di credito, differenziate a seconda del sistema di pagamento adottato, anche per escludere “la corresponsione della retribuzione in contanti direttamente al lavoratore” e conseguentemente la sussistenza della fattispecie illecita prevista dalla norma.

Infine, la nota n. 7369/2018 ricorda che laddove il personale ispettivo abbia riscontrato pagamenti in contanti per un importo stipendiale mensile complessivamente pari o superiore a € 3.000, si configura, altresì, la violazione dell’art. 49, comma 1, del D.Lgs. n. 231/2007 che andrà segnalata, ai sensi del successivo art. 51, comma 1, alle Ragionerie Territoriali dello Stato competenti in base al luogo ove è avvenuto il pagamento o, se ignoto, in base al luogo di accertamento. Il D.L. n. 124/2019 ha modificato le soglie stabilendo che a decorrere dal 1° luglio 2020 e fino al 31 dicembre 2021, il divieto previsto dal comma 1 dell’art. 49, D.Lgs. n. 231/2007, è riferito alla cifra di 2.000 euro; mentre dal 1° gennaio 2022 la soglia sarà di 1.000 euro.

NEWSLETTER SPECIALE PIANI VACCINALI NEI LUOGHI DI LAVORO

Con la circolare n. 15126 del 12.04.2021 è stato emesso il documento “Indicazioni ad interim per la vaccinazione anti-SARS-CoV-2/COVID-19 nei luoghi di lavoro”, richiamato anche dal “Protocollo nazionale per la realizzazione dei piani aziendali finalizzati all’attivazione di punti straordinari di vaccinazione anti-SARS-CoV-2/Covid-19 nei luoghi di lavoro” del 6.04.2021, mentre con la circolare n. 15127 del 12.04.2021 il Ministero della Salute ha fornito indicazioni per la riammissione in servizio dei lavoratori dopo l’assenza per malattia Covid-19 correlata e la certificazione che il lavoratore deve produrre al datore di lavoro.

INDICAZIONI AD INTERIM PER LA VACCINAZIONE NEI LUOGHI DI LAVORO.

In data 8.04.2021 è stato siglato il documento “Indicazioni ad interim per la vaccinazione anti-SARS-CoV-2/COVID-19 nei luoghi di lavoro” che intende offrire indicazioni sulla vaccinazione anti Covid-19 nei luoghi di lavoro e sulla procedura per l’attivazione dei punti vaccinali territoriali destinati alle lavoratrici ed ai lavoratori.

Presupposti imprescindibili.

Nelle premesse delle indicazioni ad interim, viene specificato che i presupposti preliminari ed imprescindibili per la realizzazione dei punti vaccinali sono:

  1. la disponibilità di vaccini;
  2. la disponibilità dell’azienda;
  3. la presenza/disponibilità del medico competente o personale sanitario adeguatamente formato;
  4. la sussistenza delle condizioni di sicurezza per la somministrazione di vaccini;
  5. l’adesione volontaria ed informata da parte dei lavoratori;
  6. la tutela della privacy e la prevenzione di ogni forma di discriminazione dei lavoratori.

Viene, inoltre, precisato che il piano nazionale che declina le fasce di popolazione prioritarie da sottoporre a vaccinazione per patologie o per età prevede che “la vaccinazione in azienda possa procedere indipendentemente dall’età dei lavoratori, a patto che vi sia disponibilità di vaccini”.

Adesione.

L’azienda o l’Associazione di categoria di riferimento che intende aderire all’iniziativa deve darne comunicazione all’Azienda Sanitaria di riferimento, secondo modalità da disciplinare a livello della Regione o Provincia Autonoma, la quale, verificata la disponibilità dei vaccini e la sussistenza dei requisiti necessari per l’avvio dell’attività, concorda le modalità di ritiro dei vaccini a cura del medico competente o del personale sanitario individuato dal datore di lavoro. Chi ritirerà il vaccino dovrà garantirne la corretta gestione, con particolare riferimento al mantenimento della catena del freddo.

Requisiti preliminari.

  1. Popolazione lavorativa sufficientemente numerosa. Per favorire anche i datori di lavoro con pochi lavoratori o altre forme di attività, sono possibili modalità organizzative anche promosse da Associazioni di categoria o, nell’ambito della bilateralità, destinate a coinvolgere lavoratori di più imprese.
  2. Sede nel territorio dell’Azienda Sanitaria che fornisce i vaccini: il lavoratore può aderire alla vaccinazione indipendentemente dalla propria residenza, così come può decidere di essere vaccinato nei punti vaccinali delle Aziende Sanitarie.
  3. Struttura organizzativa e risorse strumentali e di personale adeguate al volume dell’attività previsto.
  4. Dotazione informatica idonea a garantire la corretta e tempestiva registrazione delle vaccinazioni.
  5. Ambienti idonei per l’attività, commisurati al volume di vaccinazioni da eseguire, sia per le fasi preparatorie (accettazione), sia per la seduta vaccinale (ambulatorio/infermeria), sia per le fasi successive (osservazione post-vaccinazione). Gli ambienti dedicati all’attività possono essere interni, esterni o mobili. L’idoneità degli ambienti destinati all’attività è valutata dall’Azienda Sanitaria che fornisce il vaccino.

Equipaggiamento minimo per la vaccinazione in azienda.

La vaccinazione in azienda deve prevedere la presenza dei materiali, delle attrezzature e dei farmaci necessari allo svolgimento in sicurezza delle attività ed al volume delle medesime.

Il medico competente o il personale sanitario individuato redige l’elenco di quanto necessario, nel rispetto anche delle indicazioni provenienti dal percorso formativo obbligatorio previsto.

Il datore di lavoro o l’Associazione di categoria di riferimento garantisce l’approvvigionamento a proprio carico di quanto ritenuto necessario dal personale sanitario individuato.

Devono inoltre essere presenti idonei strumenti informatici che permettano la registrazione dell’avvenuta inoculazionedel vaccino secondo le modalità fissate a livello regionale.

Formazione e informazione.

Il Servizio Sanitario Regionale rende disponibile l’accesso a specifici materiali formativi/informativi. Il personale coinvolto nelle operazioni di vaccinazione dovrà effettuare il corso FAD EDUISSCampagna vaccinale Covid-19: la somministrazione in sicurezza del vaccino anti SARS-CoV-2/Covid-19”, che verrà integrato con uno specifico modulo per la vaccinazione nei luoghi di lavoro a cura dell’INAIL in collaborazione con ISS.

Organizzazione della seduta vaccinale.

L’adesione da parte del lavoratore è volontaria e raccolta a cura del medico competente o del personale sanitario individuato, che potrà valutare preliminarmente specifiche condizioni di salute, nel rispetto della privacy, che indirizzino la vaccinazione in contesti sanitari specifici dell’Azienda Sanitaria di riferimento.

L’Azienda Sanitaria di riferimento può valutare di suddividere il totale dei vaccini richiesti in più consegne in base alle disponibilità delle dosi previste per la campagna di vaccinazione ordinaria.

Il vaccino deve essere somministrato tempestivamente, senza possibilità di accantonamento presso le strutture aziendali (fatte salve specifiche deroghe autorizzate dall’Azienda Sanitaria di riferimento, ove ricorrano le condizioni della corretta conservazione).

La campagna di vaccinazione negli ambienti di lavoro deve avvenire secondo modalità che garantiscano:

  • la pianificazione dell’attività con adeguato anticipo;
  • il rispetto delle misure anti-contagio;
  • un’adeguata informazione ai soggetti destinatari delle vaccinazioni;
  • accettazione dei lavoratori aderenti assicurata dal personale incaricato;
  • il rispetto della modulistica predisposta a livello nazionale relativa a scheda anamnestica e consenso informato;
  • rispetto delle indicazioni e buone pratiche relative a conservazione, preparazione e somministrazione del vaccino;
  • programmazione e preparazione alla gestione di eventuali eventi avversi;
  • rispetto delle indicazioni regionali per l’alimentazione dei flussi informativi.

Gestione del consenso.

Il medico vaccinatore:

  • informa il soggetto in merito alla vaccinazione;
  • illustra i contenuti dell’informativa ministeriale;
  • acquisisce il valido consenso alla vaccinazione, utilizzando la modulistica unificata predisposta a livello nazionale.

Registrazione della vaccinazione.

La registrazione della vaccinazione deve essere effettuata subito dopo la somministrazione, direttamente nel luogo della vaccinazione, durante il periodo di osservazione post vaccinazione, secondo le modalità previste dalla Regione/Provincia Autonoma di riferimento.

Per la registrazione di una eventuale reazione avversa occorre utilizzare le modalità di segnalazione previste dalla Regione/Provincia Autonoma di riferimento.

Osservazione post vaccinazione.

Dopo l’esecuzione delle vaccinazioni, il personale vaccinatore deve invitare il vaccinato a sostare per almeno 15 minuti negli spazi della sede vaccinale, allo scopo di intervenire immediatamente in caso di reazioni avverse, con la previsione di risorse adeguate alla gestione delle stesse.

Si raccomanda che eventuali soggetti a rischio siano indirizzati all’Azienda Sanitaria di riferimento per la vaccinazione in ambiente protetto.

Programmazione seconda dose.

L’Azienda assicura la programmazione della somministrazione della seconda dose del vaccino, ove prevista, secondo le modalità e tempistiche di ciascun vaccino.

I vaccini non sono intercambiabili: la seconda dose deve essere effettuata con lo stesso vaccino utilizzato per la prima dose, nel rispetto dell’intervallo di tempo previsto per lo specifico vaccino.

Le persone che hanno manifestato una reazione grave alla prima dose non devono sottoporsi alla seconda dose in ambito lavorativo, ma devono essere inviate alla competente Azienda Sanitaria di riferimento.

Le persone che, invece, hanno manifestato una reazione locale a insorgenza ritardata (ad esempio: eritema, prurito) intorno all’area del sito di iniezione dopo la prima dose, possono ricevere la seconda dosa in ambito lavorativo, preferibilmente nel braccio controlaterale a quello utilizzato per la prima.

Monitoraggio e controllo.

L’intero processo è sotto la supervisione dell’Azienda Sanitaria di riferimento, che per il tramite del Dipartimento di Prevenzione, può effettuare controlli sullo stato dei luoghi, sui requisiti essenziali e sulla correttezza delle procedure adottate per l’effettuazione dell’attività.

Oneri.

Tutti gli oneri sono a carico del datore di lavoro o delle Associazioni di categoria di riferimento, ad eccezione dei vaccini, dei dispositivi per la somministrazione, della messa a disposizione degli strumenti formativi previsti e degli strumenti per la registrazione dell’attività vaccinale.

RIAMMISSIONE IN SERVIZIO DEI LAVORATORI DOPO ASSENZA PER MALATTIA COVID-19 CORRELATA.

Con circolare n. 15127 del 12.04.2021, il Ministero della Salute ha fornito indicazioni per la riammissione in servizio dei lavoratori dopo l’assenza per malattia Covid-19 correlata e la certificazione che il lavoratore deve produrre al datore di lavoro.

  1. Lavoratori positivi con sintomi gravi e ricovero.

Il medico competente, per quei lavoratori che sono stati affetti da Covid-19 e per i quali è stato necessario un ricovero ospedaliero, previa presentazione di certificazione di avvenuta negativizzazione, effettua la visita medica prevista dall’art. 41, comma 2, lett. e-ter del D.Lgs. n. 81 del 2008 (ossia quella precedente alla ripresa del lavoro a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi), al fine di verificare l’idoneità alla mansione – anche per valutare profili specifici di rischiosità – indipendentemente dalla durata dell’assenza per malattia.

  1. Lavoratori positivi sintomatici.

I lavoratori positivi che presentino sintomi di malattia (diversi da quelli di cui al punto A. che precede) possono rientrare in servizio dopo un periodo di isolamento di almeno 10 giorni dalla comparsa dei sintomi (non considerando anosmia e ageusia/disgeusia) accompagnato a test molecolare con riscontro negativo eseguito dopo almeno 3 giorni senza sintomi (dunque: 10 giorni, di cui almeno 3 senza sintomi + test).

  1. Lavoratori positivi asintomatici.

I lavoratori positivi ma asintomatici per tutto il periodo possono rientrare al lavoro dopo un periodo di isolamento di almeno 10 giorni dalla comparsa della positività, al termine del quale risulti eseguito un test molecolare con riscontro negativo (dunque: 10 giorni + test).

I lavoratori di cui ai punti B. e C., ai fini del reintegro, devono inviare, anche in modalità telematica, al datore di lavoro per il tramite del medico competente, ove nominato, la certificazione di avvenuta negativizzazione.

I lavoratori positivi la cui guarigione sia stata certificata da tampone negativo, qualora abbiano nel proprio nucleo familiare convivente casi ancora positivi, non devono essere considerati contratti stretti con obbligo di quarantena e possono dunque essere riammessi in servizio con le modalità sopra richiamate.

  1. Lavoratori positivi a lungo termine.

Chi abbia contratto il Covid-19 e continui ad essere positivo al test molecolare e che non presenti sintomi da almeno una settimana (fatta eccezione per ageusia/disgeusia e anosmia), può interrompere l’isolamento dopo 21 giorni dalla comparsa dei sintomi, ma non può rientrare al lavoro finché non si sarà negativizzato.

Al medico competente, ove nominato dal datore di lavoro, andrà indirizzato il referto molecolare negativo necessario per il rientro.

Per tali lavoratori, non si ravvisa la necessità da parte del medico competente, salvo specifica richiesta del lavoratore, di effettuare la visita medica precedente alla ripresa del lavoro per verificare l’idoneità alla mansione.

Il periodo eventualmente intercorrente tra il rilascio dell’attestazione di fine isolamento e la negativizzazione, nel caso in cui il lavoratore non possa essere adibito a modalità di lavoro agile, dovrà essere coperto da un certificato di prolungamento della malattia rilasciato dal medico curante.

  1. Lavoratori contatti stretti asintomatici.

Il lavoratore contatto stretto di un caso positivo deve informare il proprio medico curante, il quale rilascia la certificazione medica di malattia, salvo che il lavoratore non possa essere collocato in regime di lavoro agile.

Per la riammissione in servizio il lavoratore dovrà effettuare una quarantena di 10 giorni dall’ultimo contatto con il caso positivo, sottoporsi all’esecuzione del tampone ed ottenere il referto di negatività del tampone molecolare o antigienico, per poi informare il datore di lavoro per il tramite del medico competente, ove nominato.

OBBLIGO VACCINO PER IL PERSONALE SANITARIO.

Il D.L. n. 44 del 1.04.2021 ha introdotto, con l’art. 4, la vaccinazione obbligatoria per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario.

Il contrasto tra l’obbligo di sicurezza cui è tenuto il datore di lavoro e la libertà di vaccinazione non poteva risolversi chiaramente se non attraverso un intervento attuativo della riserva di legge di cui all’art. 32 Costituzione, per il quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.

i destinatari dell’obbligo di vaccinazione.

L’art. 4 individua come destinatari dell’obbligo di vaccinazione gli esercenti le professioni sanitarie, nonché gli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socioassistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali.

Il legislatore non differenzia tra lavoratori subordinati ed autonomi e, dunque, indipendentemente dalla qualificazione dei rapporti giuridici, all’interno della suddetta platea rientrano i lavoratori subordinati, gli etero-organizzati, i lavoratori autonomi ed i liberi professionisti.

Lo scopo dichiarato è quello di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza.

Si discute se l’obbligo sia da intendersi esteso anche al personale non iscritto negli albi professionali sanitari e che non esercita professioni sanitarie, ma che comunque lavora all’interno di strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, nelle farmacie, parafarmacie e studi professionali.

  • Una parte della dottrina, ponendo in risalto la ratio della norma, ritiene che destinatario della stessa non sia esclusivamente il personale sanitario strettamente inteso, bensì anche tutti coloro che operano all’interno delle strutture sopracitate (e dunque anche al personale amministrativo, a quello assegnato ai lavori di pulizia e così via). Infatti, chi lavora all’interno delle realtà richiamate dalla norma, a prescindere dalle mansioni, è esposto ad un elevato livello di rischio biologico da Covid-19. Diversamente, si sostiene, si rischierebbe di collidere con quello che sembra essere il criterio funzionale di contenimento del contagio che ispira l’intervento legislativo.
  • Altra parte della dottrina, invece, ritiene esclusi tutti i lavoratori che non sono iscritti negli albi professionali sanitari e che non esercitano professioni sanitarie (così come riconosciute dal Ministero della Salute), compresi quelli che lavorano all’interno di strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, nelle farmacie, parafarmacie e studi professionali (quali, l’addetto alla sicurezza agli ingressi delle hub vaccinali regionali, gli addetti alla reception delle strutture sanitarie ed assistenziali, il personale addetto alla pulizia dei locali ed ai servizi di mensa e distribuzione pasti). Per queste categorie, il Governo non avrebbe imposto alcun obbligo vaccinale e, quindi, tali soggetti potrebbero esercitare legittimamente il diritto di autodeterminazione, anche negativa, al trattamento sanitario, pur essendo comunque a contatto con il pubblico e con altri lavoratori e, quindi, potenziali diffusori del contagio.

L’obbligo di vaccinazione sussiste sino alla completa attuazione del piano di cui all’art. 1, comma 457, della L. n. 178 del 30.12.2020, finalizzato a garantire il massimo livello di copertura vaccinale sul territorio nazionale, e comunque non oltre il 31.12.2021.

L’iter procedurale.

Per l’individuazione delle persone non vaccinate, l’art. 4 disegna la seguente procedura.

  1. Ciascun Ordine professionale territoriale competente trasmette l’elenco degli iscritti alla regione o provincia autonoma in cui ha sede; i datori di lavoro degli operatori di interesse sanitario trasmettono l’elenco dei propri dipendenti, con l’indicazione del luogo di rispettiva residenza, alla regione o alla provincia autonoma nel cui territorio operano.
  2. Entro dieci giorni dalla data di ricezione degli elenchi, le regioni e le province autonome verificano lo stato vaccinale di ciascun nominativo per il tramite dei propri servizi informativi vaccinali.
  3. Quando dai sistemi informativi vaccinali non risulta l’effettuazione della vaccinazione anti SARS-CoV-2 o la presentazione della richiesta di vaccinazione, la regione o la provincia autonoma, nel rispetto delle disposizioni in materia di protezione dei dati personali, segnala immediatamente all’ASL i nominativi dei soggetti che non risultano vaccinati.
  4. Ricevuta la segnalazione, l’ASL invita l’interessato a produrre, entro cinque giorni dalla ricezione dell’invito, la documentazione comprovante l’effettuazione della vaccinazione, l’omissione o il differimento della stessa, ovvero la presentazione della richiesta di vaccinazione o l’insussistenza dei presupposti per l’obbligo vaccinale.
  5. In caso di mancata presentazione della documentazione, l’ASL, successivamente alla scadenza del predetto termine di cinque giorni, senza ritardo, invita formalmente l’interessato a sottoporsi alla somministrazione del vaccino anti SARS-CoV-2, indicando le modalità e i termini entro i quali adempiere all’obbligo. In caso di presentazione di documentazione attestante la richiesta di vaccinazione, l’ASL invita l’interessato a trasmettere immediatamente e comunque non oltre tre giorni dalla somministrazione, la certificazione attestante l’adempimento all’obbligo vaccinale.
  6. Decorsi i termini di cui al punto che precede, l’ASL competente accerta l’inosservanza dell’obbligo vaccinale e ne dà immediata comunicazione all’interessato, all’Ordine professionale di appartenenza ed al datore di lavoro.

Le conseguenze del rifiuto.

  1. L’adozione dell’atto di accertamento da parte dell’ASL determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2.
  2. Ricevuta la comunicazione relativa all’inosservanza dell’obbligo vaccinale, il datore di lavoro adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2 o che, comunque, implicano rischi di diffusione del contagio.
  3. Quando l’assegnazione a diverse mansioni non è possibile, per il periodo di sospensione non è dovuta la retribuzione, altro compenso o emolumento, comunque denominato.
  4. La sospensione mantiene efficacia fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale o, in mancanza, fino al completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31.12.2021.

Salvo quanto disposto dall’art. 26, commi 2 e 2-bis, del D.L. n. 18 del 17.03.2020, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 27 del 24.04.2020 (lavoratori dipendenti pubblici e privati in possesso del riconoscimento di disabilità con connotazione di gravità, nonché lavoratori in possesso di certificazione rilasciata dai competenti organi medicolegali, attestante una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita) per il periodo in cui la vaccinazione è omessa o differita e comunque non oltre il 31.12.2021, il datore di lavoro adibisce i soggetti per cui la vaccinazione può essere omessa o differita a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2.

IL BLOCCO DEI LICENZIAMENTI SI ESTENDE ANCHE AI DIRIGENTI?

SULL’ESTENSIONE DEL BLOCCO DEI LICENZIAMENTI, DI CUI ALL’ART. 46 DEL D.L. N. 18 DEL 2020, ALLA CATEGORIA DIRIGENZIALE, IL TRIBUNALE DI ROMA INTERVIENE CON DUE PRONUNCE DI DIREZIONE OPPOSTA.

A seguito della previsione del blocco dei licenziamenti sancito con l’art. 46 del D.L. n. 18 del 2021, c.d. decreto “Cura Italia”, convertito con modificazioni nella L. n. 27 del 2020, ci si è posti la questione di una possibile estensione di tale disciplina anche alla categoria dirigenziale, da sempre caratterizzata da un regime di libera recedibilità, in virtù del vincolo fiduciario sussistente nel rapporto con il datore di lavoro.

La giurisprudenza non è univoca sul punto, come dimostrano le due recenti pronunce del Tribunale di Roma che a distanza di soli due mesi, interpretano la norma, adottando sul tema, due orientamenti di segno opposto.

Infatti, il Tribunale di Roma, in sitesi:

  • con ordinanza del 26.02.2021 interpretando la ratio dell’articolo, nell’esigenza, comune anche ai dirigenti, che le conseguenze economiche della pandemia non si traducessero nella soppressione immediata di posti di lavoro, aveva ritenuto che il divieto di licenziamento per ragioni oggettive introdotto dalla norma citata dovesse estendersi anche ai dirigenti; mentre
  • con la successiva sentenza del 15.04.2021, si è espresso escludendo tale estensione, valorizzando il testo letterale della norma che non la prevede, nonché della ratio del sistema fondato sull’accompagnamento degli ammortizzatori sociali, non accessibili ai dirigenti in pendenza di rapporto di lavoro.
  • TRIBUNALE DI ROMA, TERZA SEZIONE LAVORO, ORDINANZA DEL 26.02.2021.

Il Tribunale di Roma, valorizzando la ratio dell’art. 46 del D. L. n. 18 del 2020, da ravvisarsi nella volontà di scongiurare, in via provvisoria, che le conseguenze economiche della pandemia possano scaricarsi sui lavoratori in modo automatico, ha ritenuto che il divieto di licenziamento per ragioni oggettive introdotto dalla norma citata debba estendersi anche ai dirigenti. Come sottolineato dal Tribunale, il richiamo svolto dal citato art. 46 all’art. 3 della L. n. 604 del 1966 va correttamente inteso come rinvio alla fattispecie sostanziale, non potendosi assegnare allo stesso funzione di delimitazione della platea dei lavoratori interessati. Una diversa lettura della norma darebbe luogo, infatti, ad un’irragionevole disparità di trattamento, basata unicamente sull’inquadramento dei lavoratori. Il Tribunale accerta dunque la nullità del licenziamento del dirigente, per violazione di norma imperativa e ne ordina la reintegrazione nel posto di lavoro.

Sosteneva il Tribunale, in quell’occasione che la ratio del blocco è quella di evitare in via provvisoria che le pressoché generalizzate conseguenze economiche della pandemia, si traducano nella soppressione immediata di posti di lavoro; l’adito giudice ritiene che tale esigenza sia di certo comune ai dirigenti che, anzi, sono maggiormente esposti a tale rischio. Ancor più, considerando che ciò pone “in limine” un problema di ragionevolezza in considerazione dell’art. 3 della Cost., in quanto questi ultimi si trovano tutelati per quanto riguarda i licenziamenti collettivi; pertanto, la Corte non ravvisa una ragione valida a giustificare il trattamento differenziale per il caso di licenziamento individuale. La lettura costituzionalmente orientata dell’art. 3 della L. n. 604 del 1966 consente di individuarne la ratio, non nel delimitare l’ambito soggettivo dell’applicazione del divieto, bensì nell’identificare la natura della ragione impassibile di essere posta a fondamento del recesso.

  • TRIBUNALE DI ROMA, PRIMA SEZIONE LAVORO, SENTENZA N. 27802 DEL 15.04.2021.

Il Tribunale, valorizza in questo caso, il dato letterale della disposizione, sostenendo che si è stabilito che il datore di lavoro, indipendenti, non possa recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della L. n. 604 del 1966, norma che pacificamente non si applica ai dirigenti, sia per espressa previsione normativa che per consolidato orientamento giurisprudenziale. La ratio di tale esclusione si fonda sul funzionamento del sistema del blocco dei licenziamenti che è stato accompagnato dalla possibilità per le aziende di ricorrere agli ammortizzatori sociali.Tale binomio: divieto di licenziamento e costo del lavoro a carico della collettività, cheè ciò che rende il sistema ragionevole, non sta in piedi con riguardo ai dirigenti, ai quali non è consentito accedere agli ammortizzatori sociali, almeno in pendenza del rapporto di lavoro, con la conseguenza che del costo della loro categoria dovrebbe farsi carico il datore di lavoro pur in presenza di motivi tali da configurare un’ipotesi di giustificatezza del recesso.

Il Tribunale riprende in considerazione anche l’argomento precedentemente sostenuto ai fini di sostenere l’opposta tesi, riguardo all’irragionevolezza determinata dal fatto che il dirigente è protetto dal blocco nel caso di licenziamento collettivo, mentre invece non è protetto nel caso di licenziamento individuale. Affermando, di contro, il giudice che la diversità delle due fattispecie è ragione tale da giustificarne una diversità di trattamento tra le due ipotesi econcludendo nel senso che il parametro del principio di buona fede e correttezza, su cui misurare la legittimità del licenziamento deve essere coordinato con quello della libertà di iniziativa economica.

Nel caso di specie pertanto, verificata la sussistenza dei requisiti di giustificatezza, il Tribunale rigetta il ricorso proposto dal lavoratore, ritenendo non estendibile la tutela del blocco dei licenziamenti alla categoria dirigenziale.

NEWSLETTER CIRCOLARE DEL MINISTERO DELLA SALUTE N. 15127 DEL 12.04.2021

Con circolare n. 15127 del 12.04.2021 avente ad oggetto “Indicazioni per la riammissione in servizio dei lavoratori dopo assenza per malattia Covid-19 correlata” il Ministero della Salute intende offrire ai datori di lavoro importanti indicazioni pratiche e concrete con riguardo alle modalità di riammissione dei lavoratori dipendenti dopo l’assenza per malattia da Covid-19, alla luce delle novità normative stabilite con il recente “Protocollo condiviso di aggiornamento delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus SARS-CoV-2/COVID-19 negli ambienti di lavoro” siglato in data 6.04.2021 da Governo e parti sociali. Il documento delinea puntualmente le diverse fattispecie che possono verificarsi, catalogandole alle lettere da A ad E in ordine di gravità rispetto alle modalità di contrazione dell’infezione, dal grado più alto a quello più basso, come di seguito indicato.

A) Lavoratori positivi con sintomi gravi e ricovero

In questa prima categoria, comprendente coloro che hanno contratto il virus nelle forme più gravi, rientrano:

  • soggetti che hanno manifestato una polmonite o un’infezione respiratoria acuta grave;
  • soggetti che sono stati ricoverati in terapia intensiva.

Nel primo caso i soggetti sopra indicati, potrebbero presentare una ridotta capacità polmonare a seguito della malattia (anche fino al 20-30% della funzione polmonare) con possibile necessità di sottoporsi a cicli di fisioterapia respiratoria.

Nel secondo caso per i summenzionati soggetti, possono continuare ad accusare disturbi rilevanti, la cui presenza necessita di particolare attenzione ai fini del reinserimento lavorativo.

In riferimento a questa prima categoria il Ministero della Salute stabilisce ai fini della riammissione al servizio, è sempre necessario un apposito certificato di avvenuta negativizzazione secondo le modalità previste dalla normativa vigente, presentato il quale, il medico competente, ove nominato

  • qualora il lavoratore sia stato sottoposto ad un ricovero ospedaliero
  • deve effettuare la visita medica prevista dall’art.41, c. 2 lett. e-ter del D.lgs. 81/08 e s.m.i (quella precedente alla ripresa del lavoro a seguito di assenza per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi), al fine di verificare l’idoneità alla mansione.

Valutando l’esistenza di eventuali profili specifici di rischiosità ed indipendentemente dalla durata dell’assenza per malattia.

B) Lavoratori positivi sintomatici

In tale categoria rientrano tutti i lavoratori risultati positivi alla ricerca di SARS-CoV-2 e che presentano sintomi di malattia diversi da quelli previsti al punto A).

Tali soggetti potranno rientrare in servizio a seguito di:

  • isolamento di almeno 10 giorni dalla comparsa dei sintomi (non considerando anosmia e ageusia/disgeusia che possono avere prolungata persistenza nel tempo)
  • test molecolare con riscontro negativo eseguito dopo almeno 3 giorni senza sintomi.

Sussiste l’onere in capo al lavoratore di presentare ai fini del reintegro, anche in modalità telematica, al datore di lavoro (per il tramite del medico competente ove nominato) la certificazione di avvenuta negativizzazione, secondo le modalità previste dalla normativa vigente.

C) Lavoratori positivi asintomatici

Compresi in questa fattispecie sono i lavoratori risultati positivi alla ricerca di SARS-CoV-2 ma asintomatici per tutto il periodo.

Potranno rientrare al lavoro esclusivamente dopo aver effettuato

  • un periodo di isolamento di almeno 10 giorni dalla comparsa della positività
  • un test molecolare con risultato negativo al termine dell’isolamento.

Anche in questo caso è previsto l’onere del lavoratore di presentare ai fini del reintegro, anche in modalità telematica, al datore di lavoro (per il tramite del medico competente ove nominato) la certificazione di avvenuta negativizzazione, secondo le modalità previste dalla normativa vigente.

D) Lavoratori positivi a lungo termine 

Rientrano in questa ipotesi i lavoratori che, secondo le più recenti evidenze scientifiche, continuano a risultare positivi al test molecolare per SARS-CoV-2, senza presentare sintomi da almeno una settimana (fatta eccezione per ageusia/disgeusia e anosmia che possono perdurare per diverso tempo dopo la guarigione).

Tali soggetti potranno interrompere l’isolamento dopo 21 giorni dalla comparsa dei sintomi (cfr. Circolare Ministero della salute 12 ottobre 2020), tuttavia, non potranno essere riammessi in servizio prima di aver effettuato:

  • un tampone molecolare o antigenico risultato negativo, effettuato in struttura accreditata o autorizzata dal servizio sanitario.

Ciò in applicazione del principio di massima precauzione ed in applicazione di quanto disposto dal richiamato Protocollo condiviso del 6 aprile 2021.

Anche in questo caso il Ministero precisa che incombe sul lavoratore l’onere di inviare il referto del test, anche in modalità telematica, al datore di lavoro, per il tramite del medico competente, ove nominato e specifica che per il periodo eventualmente intercorrente tra il rilascio dell’attestazione di fine isolamento ai sensi della Circolare del 12 ottobre e la negativizzazione, nel caso in cui il lavoratore non possa essere adibito a modalità di lavoro agile, dovrà essere coperto da un certificato di prolungamento della malattia rilasciato dal medico curante.

Inoltre nella fattispecie prevista a questo paragrafo, viene espressamente previsto che non è necessaria la la visita medica precedente alla ripresa del lavoro per verificare “l’idoneità alla mansione” (art. 41, comma 2, lett. e-ter) del D.lgs. 81/08, da parte del medico competente, salvo specifica richiesta del lavoratore intervenuta da parte del stesso.

E) Lavoratore contatto stretto asintomatico

L’ultima categoria delinea il profilo del lavoratore che sia un contatto stretto di un caso positivo.

Per tale fattispecie il Ministero prevede l’adibizione del soggetto alla modalità di lavoro agile.

Solo qualora ciò non sia possibile, sarà necessario ai fini di giustificare l’assenza, che il proprio medico curante che rilasci una certificazione medica di malattia (cfr. messaggio Inps n. 3653 del 9 ottobre 2020).

Per la riammissione in servizio, tale lavoratore deve aver effettuato

  • una quarantena di 10 giorni dall’ultimo contatto con il caso positivo,
  • tampone molecolare o antigenico con referto di negatività, trasmesso dal Dipartimento di Sanità Pubblica o dal laboratorio dove il test è stato effettuato.

Anche in questa ipotesi è onere del lavoratore informare il datore di lavoro, dell’esito del test, anche per il tramite del medico competente, ove nominato.

Il Ministero stabilisce inoltre una previsione generale per cui “i lavoratori positivi la cui guarigione sia stata certificata da tampone negativo, qualora abbiano contemporaneamente nel proprio nucleo familiare convivente casi ancora positivi non devono essere considerati alla stregua di contatti stretti con obbligo di quarantena ma possono essere riammessi in servizio con la modalità sopra richiamate”.

Informa infine, che la Circolare sarà passibile di ulteriori aggiornamenti che terranno conto dell’evolversi del quadro epidemiologico, delle conoscenze scientifiche e del quadro normativo nazionale.

NEWSLETTER AGGIORNAMENTO PROTOCOLLI ANTI-CONTAGIO E VACCINI IN AZIENDA

Il 6.04.2021 il Governo e parti sociali hanno sottoscritto il “Protocollo nazionale per la realizzazione dei piani aziendali finalizzati all’attivazione di punti straordinari di vaccinazione anti SARS-CoV-2/Covid-19 nei luoghi di lavoro” ed il “Protocollo condiviso di aggiornamento delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus SARS-CoV-2/COVID-19 negli ambienti di lavoro”.

Il primo protocollo contiene le linee guida per definire ed attuare piani aziendali per la vaccinazione dei lavoratori, mentre il secondo protocollo aggiorna i precedenti accordi del 14 marzo e 24 aprile 2020 per il contrasto ed il contenimento della diffusione del virus negli ambienti di lavoro.

VACCINAZIONE IN AZIENDA: IL PROTOCOLLO.

Con il Protocollo sulla realizzazione di punti straordinari di vaccinazione, le aziende potranno procedere alla vaccinazione diretta dei lavoratori che, a prescindere dalla tipologia contrattuale, prestano la loro attività in favore dell’azienda.

I piani aziendali.

I datori di lavoro, singolarmente o in forma aggregata ed indipendentemente dal numero di lavoratori occupati, con il supporto o il coordinamento delle Associazioni di categoria di riferimento, possono manifestare la disponibilità ad attuare piani aziendali per la predisposizione di punti straordinari di vaccinazione anti-SARS-CoV-2/Covid-19 nei luoghi di lavoro.

Per le attività vaccinali nei luoghi di lavoro, è stato adottato uno specifico documento (Indicazioni ad interim per la vaccinazione anti-SARS-CoV-2/Covid-19 nei luoghi di lavoro), da applicare sull’intero territorio nazionale per la costituzione, l’allestimento e la gestione dei punti vaccinali straordinari e temporanei nei luoghi di lavoro.

I piani aziendali sono proposti dai datori di lavoro, anche per il tramite delle rispettive organizzazioni di rappresentanza, all’Azienda Sanitaria di riferimento. Contestualmente, i datori di lavoro dovranno specificare il numero di vaccini richiesti per i lavoratori disponibili a ricevere la somministrazione.

Adesione del lavoratore su base volontaria.

Le procedure finalizzate alla raccolta delle adesioni dei lavoratori interessati alla somministrazione del vaccino dovranno essere realizzate e gestite nel pieno rispetto della scelta volontaria rimessa esclusivamente al singolo lavoratore, nonché delle disposizioni in materia di tutela della riservatezza e della sicurezza delle informazioni raccolte.

Dovrà, inoltre, essere evitata ogni forma di discriminazione dei lavoratori coinvolti.

Il ruolo del medico competente.

Il medico competente deve fornire adeguate informazioni sui vantaggi e sui rischi connessi alla vaccinazione e sulla specifica tipologia di vaccino, nonché assicurare l’acquisizione del consenso informato del soggetto interessato.

La somministrazione del vaccino è riservata ad operatori sanitari in grado di garantire il pieno rispetto delle prescrizioni sanitarie adottate per tale finalità, nonché adeguata formazione per la vaccinazione anti-Covid-19.

Per l’attività di somministrazione del vaccino, il medico competente potrà avvalersi di personale sanitario in possesso di adeguata formazione.

Il medico competente, nel rispetto della disciplina a tutela della riservatezza dei dati personali, deve assicurare la registrazione delle vaccinazioni eseguite mediante gli strumenti messi a disposizione dai Servizi Sanitari Regionali.

I costi.

I costi per la realizzazione e gestione dei suddetti piani aziendali, ivi inclusi i costi per la somministrazione, sono interamente a carico del datore di lavoro, mentre la fornitura dei vaccini, dei dispositivi per la somministrazione, la messa a disposizione degli strumenti formativi previsti e degli strumenti per la registrazione delle vaccinazioni eseguite è a carico dei Servizi Sanitari Regionali territorialmente competenti.

Alternativa alla vaccinazione diretta in azienda.

Laddove i datori di lavoro intendano collaborare all’iniziativa di vaccinazione attraverso il ricorso a strutture sanitarie private, e dunque in alternativa alla modalità di vaccinazione diretta in azienda, questi possono concludere, anche per tramite delle associazioni di categoria di riferimento o nell’ambito della bilateralità, una specifica convenzione con strutture in possesso dei requisiti per la vaccinazione, con oneri a proprio carico, ad esclusione della fornitura dei vaccini (assicurata dai Servizi Sanitari Regionali territorialmente competenti).

I datori di lavoro che non sono tenuti alla nomina del medico competente, ovvero non possano fare ricorso a strutture sanitarie private, possono avvalersi delle strutture sanitarie dell’INAIL, con oneri a carico dell’Istituto.

Nelle due ipotesi descritte, il datore di lavoro, direttamente o attraverso il medico competente, ove presente, comunica alla struttura sanitaria privata o all’INAIL il numero complessivo di lavoratori che hanno manifestato l’intenzione di ricevere il vaccino e sarà la struttura a curare tutti i necessari adempimenti che consentono la somministrazione, ivi compresa la registrazione delle vaccinazioni eseguite.

Vaccinazione durante l’orario di lavoro.

Se la vaccinazione viene eseguita in orario di lavoro, il tempo necessario alla medesima è equiparato a tutti gli effetti all’orario di lavoro.

AGGIORNAMENTO DEI PROTOCOLLI DEL 14 MARZO E 24 APRILE 2020.

Il nuovo “Protocollo condiviso di aggiornamento delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus SARS-CoV-2/COVID-19 negli ambienti di lavoroaggiorna e rinnova i precedenti accordi del 14 marzo e 24 aprile 2020 destinati agli ambienti di lavoro non sanitari.

In particolare, si rileva che ha trovato conferma e condivisione il principio fondamentale secondo cui la pandemia ha natura di rischio biologico generico.

Sono state inserite le novità intervenute in questo anno mantenendo inalterato l’impianto dei precedenti protocolli.

Infine, si segnala:

  • che sono considerati dispositivi di protezione individuale (DPI), ai sensi dell’art. 74, comma 1, del D.Lgs. n. 81 del 2008, le “mascherine chirurgiche” di cui all’art. 16, comma 1, del D.L. n. 18 del 17.03.2020, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 27 del 24.04.2020;
  • di utilizzare in via prioritaria gli ammortizzatori sociali disponibili nel rispetto degli istituti contrattuali (par, rol, banca ore) generalmente finalizzati a consentire l’astensione dal lavoro senza perdita della retribuzione. Nel caso in cui l’utilizzo di tali istituti non risulti sufficiente, si utilizzeranno i periodi di ferie arretrati e non ancora fruiti;
  • che è stata modificata la precedente formulazione relativa alle trasferte, eliminando ogni riferimento al divieto di effettuarne in Italia e all’estero: ora è opportuno che il datore di lavoro, in collaborazione con il medico competente ed il RSPP, tenga conto del contesto associato alle diverse tipologie di trasferta previste, anche in riferimento all’andamento epidemiologico delle sedi di destinazione;
  • che la riammissione al lavoro dopo l’infezione da virus SARS-CoV-2/COVID-19 avverrà secondo le modalità previste dalla normativa vigente (circolare del Ministero della salute del 12.10.2020 ed eventuali istruzioni successive). I lavoratori positivi oltre il ventunesimo giorno saranno riammessi al lavoro solo dopo la negativizzazione del tampone molecolare o antigenico effettuato in struttura accreditata o autorizzata dal servizio sanitario.

NEWSLETTER D.L. N. 44 DEL 1 APRILE 2021

È stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 79 del 1.04.2021 il D.L. n. 44 del 1.04.2021, recante misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni anti SARS-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici.

Di seguito le principali novità.

LE MISURE RESTRITTIVE DI APRILE.

Il decreto prevede la proroga fino al 30.04.2021 dell’applicazione delle disposizioni del DPCM 2.03.2021 (salvo che le stesse contrastino con quanto disposto dal medesimo D.L.) e di alcune misure già previste dal D.L. n. 30 del 13.03.2021, in particolare:

  • l’applicazione nelle zone gialle delle misure della zona arancione;
  • l’estensione delle misure previste per la zona rossa in caso di particolare incidenza di contagi, sia con ordinanza del Ministro della salute che con provvedimento dei Presidenti delle Regioni;
  • la possibilità, nella zona arancione, di uno spostamento giornaliero verso una sola abitazione privata abitata in ambito comunale.

RESPONSABILITA’ PENALE DA SOMMINISTRAZIONE DEL VACCINO.

Per i fatti di cui agli articoli 589 (omicidio colposo) e 590 (lesioni personali colpose) del codice penale, verificatisi a causa della somministrazione di un vaccino per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2, effettuata nel corso della campagna vaccinale, la punibilità è esclusa quando l’uso del vaccino è conforme alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio emesso dalle competenti autorità ed alle circolari pubblicate sul sito istituzionale del Ministero della salute relative alle attività di vaccinazione.

OBBLIGATORIETà DEL VACCINO ANTI SARS-COV-2.

Fino alla completa attuazione del piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2 e comunque non oltre il 31.12.2021, al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza, gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, farmacie, parafarmacie e studi professionali sono obbligati a sottoporsi a vaccinazione gratuita per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2.

La vaccinazione costituisce requisito essenziale all’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati.

La vaccinazione non è obbligatoria e può essere omessa o differita solo in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestato dal medico di medicina generale.

OBBLIGATORIETA’ DEL VACCINO: procedura e conseguenze.

  1. Entro cinque giorni dalla data di entrata in vigore del decreto:
  2. ciascun Ordine professionale territoriale competente trasmette l’elenco degli iscritti, e
  3. i datori di lavoro degli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie, socioassistenziali, pubbliche o private, farmacie, parafarmacie e studi professionali trasmettono l’elenco dei propri dipendenti con tale qualifica, con l’indicazione del luogo di rispettiva residenza, alla regione o alla provincia autonoma nel cui territorio operano.
  4. Entro dieci giorni dalla data di ricezione degli elenchi, le regioni e le province autonome verificano lo stato vaccinale di ciascuno dei soggetti rientranti negli elenchi.
  5. Quando dai sistemi informativi vaccinali non risulta l’effettuazione della vaccinazione anti SARS-CoV-2 o la presentazione della richiesta di vaccinazione, la regione o la provincia autonoma, nel rispetto delle disposizioni in materia di protezione dei dati personali, segnala immediatamente all’azienda sanitaria locale di residenza i nominativi dei soggetti che non risultano vaccinati.
  6. Ricevuta la segnalazione, l’azienda sanitaria locale di residenza invita l’interessato a produrre, entro cinque giorni dalla ricezione dell’invito, la documentazione comprovante l’effettuazione della vaccinazione, l’omissione o il differimento della stessa, ovvero la presentazione della richiesta di vaccinazione o l’insussistenza dei presupposti per l’obbligo vaccinale.
  7. In caso di mancata presentazione della documentazione, l’azienda sanitaria locale, successivamente alla scadenza del predetto termine di cinque giorni, senza ritardo, invita formalmente l’interessato a sottoporsi alla somministrazione del vaccino anti SARS-CoV-2, indicando le modalità e i termini entro i quali adempiere all’obbligo. In caso di presentazione di documentazione attestante la richiesta di vaccinazione, l’azienda sanitaria locale invita l’interessato a trasmettere immediatamente e comunque non oltre tre giorni dalla somministrazione, la certificazione attestante l’adempimento all’obbligo vaccinale.
  8. Decorsi i termini di cui al punto che precede, l’azienda sanitaria locale competente accerta l’inosservanza dell’obbligo vaccinale e ne dà immediata comunicazione all’interessato, al datore di lavoro e all’Ordine professionale di appartenenza. L’adozione dell’atto di accertamento da parte dell’azienda sanitaria locale determina la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2.
  9. Ricevuta la comunicazione di cui al punto 6, il datore di lavoro adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle indicate al punto 6, con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate, e che, comunque, non implicano rischi di diffusione del contagio. Quando l’assegnazione a diverse mansioni non è possibile, per il periodo di sospensione, non è dovuta la retribuzione, altro compenso o emolumento, comunque denominato.
  10. La sospensione mantiene efficacia fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale o, in mancanza, fino al completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31.12.2021.
  11. Salvo quanto disposto dall’art. 26, commi 2 e 2-bis, del D.L. n. 18 del 17.03.2020, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 27 del 24.04.2020 (lavoratori dipendenti pubblici e privati in possesso del riconoscimento di disabilità con connotazione di gravità, nonché lavoratori in possesso di certificazione rilasciata dai competenti organi medico-legali, attestante una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita) per il periodo in cui la vaccinazione è omessa o differita e comunque non oltre il 31.12.2021, il datore di lavoro adibisce i soggetti per cui la vaccinazione può essere omessa o differita a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2.

INCAPACITA’ NATURALE: MANIFESTAZIONE DEL CONSENSO AL TRATTAMENTO.

Il decreto stabilisce che le previsioni già vigenti per i soggetti incapaci ricoverati presso strutture sanitarie assistite in merito alla manifestazione del consenso alla somministrazione del vaccino anti-SARS-CoV-2 siano estese anche alle persone che, pur versando in condizioni di incapacità naturale, non siano ricoverate nelle predette strutture sanitarie assistite o in altre strutture analoghe.

PROROGHE IN MATERIA DI LAVORO E TERZO SETTORE.

Il decreto inoltre:

  • dispone la proroga al 31.05.2021 del termine concernente le procedure di assunzione a tempo indeterminato dei lavoratori socialmente utili (LSU) e dei lavoratori impegnati in attività di pubblica utilità (LPU) (Basilicata, Calabria, Campania e Puglia) nonché i contratti a tempo determinato degli LSU e LPU (Calabria), con oneri a carico del Ministero del lavoro e delle politiche sociali;
  • estende agli enti del Terzo settore (ONLUS, organizzazioni di volontariato e associazioni di promozione sociale) la disciplina prevista per lo svolgimento delle assemblee ordinarie con modalità semplificate per le società sino al 31.07.2021.

NEWSLETTER N. 4/2021 NOVITÀ NORMATIVE E GIURISPRUDENZIALI

NOVITA’ GIURISPRUDENZIALI

LESIONI AD UN DIPENDENTE NEL CORSO DI UNA RAPINA.

La Corte di Cassazione, con ordinanza del 25 febbraio 2021 n. 5255, afferma la responsabilità datoriale per la mancata installazione di sistemi di protezione, in caso di lesioni ad un dipendente durante una rapina.

La Corte dichiara che in caso di lesioni ad un dipendente nel corso di una rapina presso un ufficio postale, il datore di lavoro è responsabile per non aver istallato efficaci sistemi di protezione. A fronte della difesa della società secondo cui nessuna norma specifica impone l’istallazione di dispositivi di controllo in ingresso o la configurazione di ambienti separati e protetti per il settore valori per un ufficio postale che custodisce in genere poco denaro contante, la Corte ribadisce la regola generale della massima cautela anche al di là di quelle specificatamente previste dalla legge. A seguito di rapina, durante la quale un dipendente veniva malmenato, quest’ultimo agiva in giudizio nei confronti del datore di lavoro per richiedere il risarcimento del danno biologico ed esistenziale, conseguente all’accaduto, ottenendo la condanna della parte datoriale nei primi due gradi di giudizio. La Cassazione, adita dal soccombente, rileva che la responsabilità imprenditoriale per la mancata predisposizione di sistemi di tutela del lavoratore, discende o da norme specifiche ovvero, ove queste non siano rinvenibili, dalla regola generale ai sensi dell’art. 2087 c.c. secondo cui, l’imprenditore, nell’adottare le misure necessarie alla tutela dell’integrità fisica e personalità morale dei prestatori di lavoro, deve tenere conto della particolarità del lavoro, della realtà aziendale in concreto e del rischio ad essa connesso. Vengono qui in rilievo, i valori apicali dell’ordinamento giuridico, che impongono la tutela della salute, sicurezza, dignità e libertà della persona umana, anche sul luogo di lavoro. La Suprema Corte, sposa un’interpretazione estensiva dell’art. 2087 c.c., che si giustifica, secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, ai sensi della previsione di cui all’art. 32 della Costituzione, nonché dei principi di correttezza e buona fede durante il rapporto obbligatorio previsti dagli artt. 1175 e 1375 c.c., cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, ed infine, ex art. 2043 c.c. in tema di neminem laedere anche in un caso di comportamento omissivo. Pertanto, sussistendo il nesso causale tra il danno e l’evento cagionato dalla mancata adozione di adeguate misure di tutela, la Corte rigetta il ricorso e conferma la soccombenza della società datrice di lavoro.

ESTENSIONE DEL BLOCCO DEI LICENZIAMENTI AI DIRIGENTI.

Il Tribunale di Roma, con ordinanza del 26 febbraio 2021, ha ritenuto che il divieto di licenziamento per ragioni oggettive introdotto dalla norma citata debba estendersi anche ai dirigenti.

Il Tribunale di Roma, valorizzando la ratio dell’art. 46 del d.l. 18/2020, da ravvisarsi nella volontà di scongiurare, in via provvisoria, che le conseguenze economiche della pandemia possano scaricarsi sui lavoratori in modo automatico, ha ritenuto che il divieto di licenziamento per ragioni oggettive introdotto dalla norma citata debba estendersi anche ai dirigenti. Come sottolineato dal Tribunale, il richiamo svolto dal citato art. 46 all’art. 3 della L. 604/1966 va correttamente inteso come rinvio alla fattispecie sostanziale, non potendosi assegnare allo stesso funzione di delimitazione della platea dei lavoratori interessati. Una diversa lettura della norma darebbe luogo, infatti, ad un’irragionevole disparità di trattamento, basata unicamente sull’inquadramento dei lavoratori. Il Tribunale accerta dunque la nullità del licenziamento del dirigente, per violazione di norma imperativa e ne ordina la reintegrazione nel posto di lavoro. La ratio del blocco è di evitare in via provvisoria che le pressoché generalizzate conseguenze economiche della pandemia, si traducano nella soppressione immediata di posti di lavoro; l’adito giudice ritiene che tale esigenza sia di certo comune ai dirigenti che, anzi, sono maggiormente esposti a tale rischio. Ancor più, considerando che ciò pone in limine” un problema di ragionevolezza in considerazione dell’art. 3 della Cost., in quanto questi ultimi si trovano tutelati per quanto riguarda i licenziamenti collettivi; pertanto, la Corte non ravvisa una ragione valida a giustificare il trattamento differenziale per il caso di licenziamento individuale. La lettura costituzionalmente orientata dell’art. 3 della L. n. 604/66 consente di individuarne la ratio, non nel delimitare l’ambito soggettivo dell’applicazione del divieto, bensì nell’identificare la natura della ragione impassibile di essere posta a fondamento del recesso.

CORRETTO INQUADRAMETO CONTRATTUALE PER LA DETERMINAZIONE DELLA RETRIBUZIONE SUFFICIENTE.

Il Tribunale di Milano, con sentenza del 24 febbraio 2021, stabilisce che la retribuzione sufficiente possa essere individuata sulla base di un CCNL diverso da quello applicato dall’impresa.

Il Tribunale accerta il diritto di un lavoratore a percepire le differenze retributive, salvo la quattordicesima mensilità, derivanti dall’applicazione del CCNL “Trasporto merci e Logistica”, in luogo del CCNL “Legno Artigiani”. Stante l’assenza dei presupposti che consentano al datore di applicare tale secondo CCNL, il Giudice individua il CCNL applicabile a fronte delle mansioni svolte dal lavoratore e in forza dell’art. 36 della Costituzione. Il Giudice, qualificando come contratto di appalto di servizi di trasporto e non come mero contratto di trasporto il rapporto contrattuale intercorso tra il datore di lavoro e l’impresa presso la quale il lavoratore svolgeva l’attività, accerta la responsabilità solidale di quest’ultima ai sensi dell’art. 29 del D.lgs. 276/2003. Il potere/dovere del Giudice di sostituzione nell’individuazione dell’ammontare retributivo rispondente alle caratteristiche di sufficienza e proporzionalità rispetto al lavoro svolto dal dipendente, sussiste ai sensi del co.2 dell’art. 1419 c.c., conseguentemente alla nullità della clausola retributiva del contratto di lavoro che fa riferimento al CCNL errato, per il caso di specie, per contrarietà a norma imperativa (art.36 Cost.).

LICENZIAMENTO NELLE PICCOLE IMPRESE.

Il Tribunale di Roma, con ordinanza del 2 febbraio 2021, solleva questione di legittimità costituzionale sostenendo che il criterio soglia del numero dei dipendenti sia obsoleto: all’esame della Corte costituzionale anche il regime di (debole) tutela del licenziamento nelle piccole imprese, previsto per il contratto a tutele crescenti.

La serie dei giudizi di costituzionalità sul Jobs Act, dopo la nota sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018, è destinata ad arricchirsi di un nuovo importante capitolo. Il Tribunale di Roma solleva la questione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3, 4, 35 e 117 Cost., dell’art. 9 del D.Lgs. n. 23/2015, nella parte in cui impone un limitatissimo range – da tre a sei mensilità di retribuzione – entro il quale il giudice può individuare l’indennizzo per un licenziamento che si riveli privo di giustificazione, intimato da un datore di lavoro “minore”, intendendosi per tale quello che non supera la soglia occupazionale fissata dall’art. 18, commi 8 e 9 Stat. Lav. (principalmente, il limite dei 15 dipendenti). Il limite delle sei mensilità di indennizzo entrerebbe in contrasto con i criteri di adeguatezza e dissuasività dell’indennizzo già sottolineati dalla Corte nelle sentenze di questi anni. Osserva il Tribunale, da un lato, che il vecchio regime dell’art. 8 L. 604/1966 prevedeva comunque, anche per le piccole imprese, la possibilità di elevare in certi casi e in relazione all’anzianità di servizio la misura dell’indennizzo, anche fino a quattordici mensilità; dall’altro, che considerati gli attuali modelli organizzativi ed economici, il criterio del numero dei dipendenti non appare più adeguato, in relazione alle esigenze di tutela espresse dalla disciplina dei licenziamenti, rispetto ad altri criteri come quello della dimensione economica dell’attività di impresa.

IL LICENZIAMENTO PER SOPRAVVENUTA INIDONEITA’ ALLA MANSIONE RIENTRA NEL BLOCCO DEI LICENZIAMENTI.

Il Tribunale di Ravenna, con sentenza del 7 gennaio 2021, si pronuncia in senso favorevole alla assoggettabilità al blocco del licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione del lavoratore.

Il Tribunale afferma che il divieto di licenziamento per ragioni oggettive, introdotto dall’art. 46 del d.l. 18/2020, debba estendersi anche al licenziamento adottato per sopravvenuta inidoneità alla mansione. Il Giudice giunge a tale conclusione, sia a fronte della natura pacificamente “oggettiva” di tale motivo di recesso, sia considerando l‘onere del datore di lavoro di adottare ogni possibile modifica organizzativa che consenta di scongiurare il licenziamento. Il Tribunale dichiara dunque la nullità del licenziamento con condanna alla reintegrazione. Il licenziamento per inabilità sopravvenuta, secondo concorde giurisprudenza rientra nel giustificato motivo oggettivo. Era tuttavia discusso tra le parti se esso rientrasse o meno nell’applicazione della disciplina del blocco dei licenziamenti, in quanto secondo la difesa della convenuta, esso non avrebbe natura di licenziamento economico e sarebbe indipendente dalle condizioni determinate dalla pandemia.

RILASCIO DEL DURC E COMPETENZA DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 5825 del 2021, stabilisce il divieto per il giudice ordinario di condannare l’INPS al rilascio del DURC.

Afferma la Corte, che debba escludersi che il giudice ordinario, chiamato a decidere su una controversia in cui un’impresa o un lavoratore autonomo lamenti il mancato rilascio del DURC per presunte irregolarità contributive, possa condannare l’ente previdenziale a rilasciarlo. Infatti, osta al riguardo la previsione dell’art. 4, L. n. 2248/1865, All. E, la quale, nel prevedere il divieto, a carico del giudice ordinario, di condannare la P.A., o un concessionario di un pubblico servizio, ad un facere, non detta una regola sul riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, ma investe piuttosto, l’individuazione dei limiti interni posti dall’ordinamento alle attribuzioni del giudice ordinario, che concernono appunto, il divieto di annullare, modificare o revocare il provvedimento amministrativo. Dunque, non potendo validamente proporsi davanti al giudice ordinario alcuna domanda di condanna al rilascio del DURC, ma solo – e in presenza di un interesse ex art. 100 c.p.c. all’accertamento di una situazione di “regolarità contributiva”, la Corte cassa parzialmente la sentenza impugnata cassata.

PRIMA PRONUNCIA SUL VACCINO COVID-19.

Il Tribunale di Belluno, con ordinanza del 19 marzo 2021 afferma che non è illegittima la sospensione in ferie forzate di alcuni dipendenti di una RSA che non si sono sottoposti al vaccino.

Dopo settimane di dibattito tra gli operatori, arriva all’attenzione del Giudice bellunese un primo caso: da quel che si comprende dalla pronuncia, alcuni lavoratori di una residenza per anziani non si erano sottoposti al vaccino e per questo il datore di lavoro li aveva sospesi in ferie. Il Tribunale respinge il ricorso d’urgenza proposto dai lavoratori per essere riammessi al servizio, affermando che, dato il loro impiego in mansioni a contatto col pubblico e l’elevato rischio di contagio, l’impresa può e deve adottare misure dirette a tutelarne l’integrità fisica pe via dell’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c.: misure tra le quali ora rientrerebbe, ove disponibile, anche il vaccino. Il Giudice si pronuncia su un caso nel quale era in questione la sola legittimità della sospensione in ferie, poiché dalla pronuncia si desume che, in concreto, non era stata disposta né una sospensione dei lavoratori senza retribuzione, né un licenziamento. Il giudice sostiene per il caso di specie, l’insussistenza del periculum in mora e valorizza l’interpretazione in combinato disposto degli articoli 2109 c.c. – per cui il prestatore ha diritto ad “un periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro” e 2087 c.c. da cui deriva l’esigenza del datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, rilevando che quest’ultima, rientrante nelle “esigenze dell’impresa” risulti prevalente rispetto all’interesse del lavoratore di usufruire delle ferie in un periodo diverso.

PERIODO DI REPERIBILITA’.

La Corte di giustizia, con sentenza 9 marzo 2021, nella causa n. C-344/19, chiarisce che il periodo di reperibilità costituisce orario di lavoro se i vincoli imposti al lavoratore gli impediscano in maniera significativa di dedicarsi ai suoi interessi.

La pronuncia della Corte di giustizia era stata sollecitata da un caso in cui un impiegato tecnico lavorava presso un impianto di trasmissione isolato e molto distante dalla propria abitazione, per cui, in caso di turno di reperibilità, era di fatto costretto a non allontanarsi e fruiva di un locale messo a disposizione dalla datrice di lavoro. In queste condizioni, aveva promosso un giudizio per ottenere il riconoscimento che il periodo di servizio di reperibilità fosse considerato orario di lavoro e come tale retribuito. La Corte di giustizia afferma che non tutte le difficoltà di fatto di una qualche significativa mobilità durante il servizio di reperibilità qualificano quest’ultima come orario di lavoro, ma solo quando durante la reperibilità il lavoratore è giuridicamente obbligato a permanere in luogo diverso dal suo domicilio a disposizione del datore di lavoro per le prestazioni eventualmente richieste (queste si, retribuite come orario di lavoro), senza poter dedicarsi ai propri interessi familiari e sociali. Oppure ancora, nel caso che gli obblighi impostogli siano di tale intensità (ad es. di rendersi disponibile a richiesta immediatamente o con un margine di tempo assolutamente esiguo) siano tali da impedirgli, per altra via, in maniera significativa di dedicarsi ai propri interessi. La Corte precisa che nella sentenza in oggetto, con l’espressione “guardia e prontezza” si intendono in maniera generica i periodi nel corso dei quali il lavoratore resta a disposizione del suo datore di lavoro al fine di poter assicurare una prestazione di lavoro, su domanda di quest’ultimo, mentre invece l’espressione “prontezza in regime di reperibilità” si riferisce, tra tutti i periodi suddetti, a quelli durante i quali il lavoratore non è costretto a restare sul luogo di lavoro. Il datore di lavoro nel caso di specie avrebbe abusato del ricorso ai periodi di prontezza in regime di reperibilità, con conseguente pregiudizio del diritto del lavoratore di gestire liberamente il proprio tempo, alla luce della corretta interpretazione dell’art.2 punto 1 della direttiva 2003/88 CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 4 novembre 2003, valutate le effettive circostanze di fatto del caso di specie.

LICENZIAMENTO PER SOPRAVVENUTA INIDONEITA’ DEL LAVORATORE.

La Corte di cassazione, con sentenza 9 marzo 2021 n. 6497, si pronuncia sul licenziamento per sopraggiunta inidoneità del lavoratore e impossibilità di ragionevoli accomodamenti per consentirne la ricollocazione.

In un caso in cui, a giustificazione del licenziamento di un dipendente per sopravvenuta inidoneità alle specifiche mansioni, il datore di lavoro aveva addotto l’inesistenza, nel luogo della prestazione, di posti della qualifica dell’interessato e l’assenza, nell’organigramma aziendale dell’ufficio, di altri posti liberi, la Corte, richiamando la disciplina di recepimento della direttiva comunitaria n. 2000/78/CE, ribadisce che l’azienda avrebbe invece dovuto ulteriormente dimostrare che la destinazione del portatore di handicap nell’ufficio o in altro incarico avrebbe comportato un onere finanziario sproporzionato e comunque eccessivo, anche con riferimento all’eventuale necessità di una qualche formazione professionale del dipendente.

FERIE DOVUTE IN RELAZIONE AL PERIODO TRA IL LICENZIAMENTO ILLEGGITTIMO E LA REINTEGRAZIONE.

La Corte di cassazione, con sentenza 8 marzo 2021 n. 6319 riconosce come dovute le ferie anche con riferimento al periodo tra il licenziamento illegittimo e la reintegrazione.

Nel giudizio promosso da una lavoratrice licenziata e poi reintegrata, la questione del suo diritto a godere delle ferie con riferimento al periodo intercorrente tra il licenziamento poi dichiarato illegittimo e la reintegrazione giudiziale era stata risolta in senso negativo dalla Corte d’appello, in dichiarata adesione alla giurisprudenza della Cassazione (cfr. Cass. n. 28270/08), sulla base della considerazione che le ferie e i ROL spettano solo in caso di lavoro effettivo. Dopo aver interpellato la Corte di giustizia sulla conformità o non di tale orientamento al diritto dell’Unione, la Corte di cassazione muta radicalmente orientamento e, aderendo alla decisione della Corte comunitaria, afferma che le ferie spettano anche con riferimento al periodo di non lavoro per fatto non imputabile al lavoratore e quindi anche nell’ipotesi considerata. Conseguentemente, in caso di successiva cessazione legittima del rapporto, spetta l’indennità sostitutiva delle ferie non godute anche in relazione al periodo in questione. L’adita Corte di Lussemburgo (Prima Sezione), aveva infatti, con sentenza del 25.06.2020 emessa nelle cause riunite C-762/18 e C-37/19, ha dichiarato che l’art.7, paragrafo 1 della direttiva 2003/88 CE del Parlamento europeo e del consiglio, concernente l’orario di lavoro “deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una giurisprudenza nazionale in forza della quale un lavoratore illegittimamente licenziato e successivamente reintegrato nel suo posto di lavoro, conformemente al diritto nazionale, a seguito dell’annullamento del suo licenziamento mediante una decisione giudiziaria, non ha diritto a ferie annuali retribuite, per il periodo compreso tra la data del licenziamento e la data della sua reintegrazione nel posto di lavoro”. La Corte ha ribadito altresì che il diritto alle ferie annuali retribuite costituisce un principio del diritto sociale dell’Unione, espressamente sancito dall’art. 31 paragrafo 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, cui l’art. 6 paragrafo 1 TUE attribuisce medesimo valore giuridico dei Trattati.

ACCERTAMENTO DELLA TITOLARITA’ DEL RAPPORTO DI LAVORO NELL’APPALTO.

La Corte d’appello di Roma, con sentenza del 4 marzo 2021 stabilisce che se il lavoratore chiede l’accertamento della titolarità del rapporto di lavoro in capo al committente, è onere del sostanziale utilizzatore della prestazione provare l’esistenza di un genuino rapporto di appalto.

L’accertamento della sussistenza del rapporto di lavoro in capo al committente, se funzionale alla tutela ex art. 18 Stat. lav., può avvenire nell’ambito del c.d. “Rito Fornero”. La Corte, confermando la pronuncia di primo grado, ritiene che quando il lavoratore abbia svolto la prestazione lavorativa a vantaggio del committente, spetti a questo provare l’esistenza di un genuino contratto di appalto, senza che incomba sul lavoratore l’onere di provare chi abbia esercitato il potere direttivo. Ove, come nel caso in oggetto, manchi il titolo e non sia provato lo schermo formale del contratto di appalto, conformemente a quanto affermato dalla Cass. 29889/2019 “consegue l’individuazione del datore di lavoro nel soggetto che effettivamente utilizza la prestazione lavorativa”, in base alla norma inderogabile dell’art. 2094 c.c., che si riferisce alla collaborazione “nell’impresa”, alle dipendenze dell’imprenditore, tipicamente individuato in colui che organizza i fattori della produzione. In ogni caso, l’onere della prova della genuinità del contratto di appalto, non può gravare sul lavoratore, anche a norma dell’art.29 co.3-bis del d.lgs. n. 276 del 2003.

TERMINE PER L’IMPUGNAZIONE DEL TRASFERIMENTO.

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza del 3 febbraio 2021 considera che non è soggetta a decadenza entro 60 giorni l’impugnazione del trasferimento, quando quest’ultimo configuri un mero escamotage del datore di lavoro per aggirare l’ordine di reintegrazione del lavoratore.

La Corte d’appello accerta l’illegittimità del licenziamento irrogato a un lavoratore, motivato dal rifiuto di quest’ultimo di svolgere l’attività lavorativa presso un’altra sede, a seguito di trasferimento. La Corte, riformando la sentenza di primo grado, ravvisa, nel trasferimento imposto dal datore, un mero strumento rispetto al reale intento di aggirare, in frode alla legge, l’ordine di reintegrazione disposto con sentenza per un precedente licenziamento. Essendo quest’ultimo il vero obiettivo della società e non già il trasferimento del dipendente, la Corte ritiene che il lavoratore non decada dall’impugnazione del licenziamento per non aver impugnato il trasferimento entro il termine di sessanta giorni. Prevale dunque, secondo la Corte, l’interesse di giustizia del lavoratore, sull’interesse del datore di lavoro, qualora si accertato l’intento fraudolento di quest’ultimo, con conseguente non rilevabilità dello scaduto termine di decadenza per il lavoratore. Conformemente all’orientamento della Cassazione (Cass. 29007/2020) richiamato nella sentenza, infatti, l’avere tempestivamente impugnato l’atto finale della condotta illecita, ovvero il licenziamento, esonera il lavoratore dalla necessità di contestare l’illegittimità del provvedimento emanato dalla società datrice nell’esercizio dello jus variandi, ossia il trasferimento, in considerazione dello stretto legame logico-giuridico intercorrente tra i due provvedimenti nell’ambito della complessa fattispecie che definisce la frode alla legge.