NEWSLETTER PRIVACY

NOVEMBRE 2024

Privacy: necessario il consenso esplicito del cliente per l’e-commerce di medicinali riservati alle farmacie.

La Corte di Giustizia UE, con sentenza depositata il 4 ottobre 2024 nella causa C-21/23, afferma che la vendita online di medicinali riservati alle farmacie richiede il consenso esplicito del cliente al trattamento dei suoi dati, anche se tali medicinali non sono soggetti a prescrizione medica.

La sentenza in esame trae origine da un conflitto tra due farmacie online tedesche. La prima, dal 2017, commercializzava medicinali riservati alle farmacie tramite la piattaforma Amazon Marketplace, la quale nell’effettuazione dell’ordine richiedeva agli utenti di inserire informazioni quali il loro nome, l’indirizzo di consegna e i dati necessari per identificare i medicinali.

La seconda farmacia, concorrente della prima, ha convenuto in giudizio quest’ultima, chiedendo di inibire la vendita online su Amazon Marketplace fino a quando i clienti non potessero esprimere il proprio consenso al trattamento dei dati relativi alla salute, sostenendo che la vendita su tale piattaforma di medicinali riservati alle farmacie fosse sleale, non rispettando i requisiti di legge in materia di consenso al trattamento dei dati personali.

Interpellata sulla questione, la Corte UE chiarisce che costituiscono dati relativi alla salute, ai sensi del RGPD, le informazioni inserite dai clienti (quali il loro nome, l’indirizzo di consegna e gli elementi necessari all’individuazione dei medicinali) al momento dell’ordine online.

Infatti, tali dati sono idonei a rivelare informazioni sullo stato di salute di una persona fisica, stabilendo un nesso tra quest’ultima e un medicinale, le sue indicazioni terapeutiche o i suoi usi e ciò indipendentemente dal fatto che tali informazioni riguardino il cliente o qualsiasi altra persona per la quale quest’ultimo effettui l’ordine. Di conseguenza, il venditore deve informare i clienti in modo accurato, completo e facilmente comprensibile in merito alle caratteristiche e alle finalità specifiche del trattamento dei dati e chiedere il loro consenso esplicito al trattamento.

Data breach: il Garante sanziona Postel S.p.A. per 900 mila Euro.

Il Garante Privacy, con Provvedimento n. 10063782 del 4 luglio 2024, ha applicato una sanzione di 900 mila Euro a Postel S.p.A. che non è intervenuta su una vulnerabilità dei propri sistemi, nota da quasi un anno, attraverso la quale ha poi subito una violazione dei dati personali.

Nell’agosto del 2023, la Società è stata oggetto di un attacco informatico di tipo ransomware che ha causato il blocco dei server e di alcune postazioni di lavoro.

L’attacco ha comportato l’esfiltrazione di file contenenti i dati personali di circa 25 mila interessati, fra dipendenti, ex dipendenti, congiunti, titolari di cariche societarie, candidati a posizioni lavorative e rappresentanti di imprese che intrattenevano rapporti commerciali con Postel.

Le informazioni sono state successivamente pubblicate nel dark web e riguardavano dati anagrafici e di contatto, dati di accesso e identificazione, dati di pagamento, nonché dati relativi a condanne penali e reati e dati che rivelano l’appartenenza sindacale e relativi alla salute.

La vulnerabilità, già segnalata, prima dal produttore del software, nel settembre 2022 e poi dall’Agenzia per la cybersicurezza nazionale, nel novembre 2022, era stata trascurata da Postel, la quale è venuta meno agli obblighi previsti dalla normativa in tema di protezione dei dati personali, che richiede l’adozione di misure tecniche e organizzative idonee a garantire un livello di sicurezza adeguato al rischio.

Peraltro, il Garante ha rilevato che nella notifica di data breach, la Società non ha fornito informazioni esaustive sulla violazione e sulle misure di mitigazione o di eliminazione delle vulnerabilità riscontrate, comportando un allungamento dei tempi per le verifiche da parte dell’Autorità.

Di conseguenza, con il provvedimento adottato, il Garante ha ingiunto a Postel, oltre al pagamento della sanzione di 900 mila Euro, anche l’obbligo di effettuare analisi circa le vulnerabilità dei propri sistemi, di predisporre un piano per rilevarle e gestirle e di individuare tempistiche di rilevamento e di risposta adeguate al rischio.

Garante Privacy: stop al software che accede all’e-mail del dipendente.

Il datore di lavoro non può accedere alla posta elettronica del dipendente o del collaboratore, né utilizzare un software per conservare una copia dei messaggi. Lo ha stabilito il Garante Privacy con Provvedimento n. 10053224 del 17 luglio 2024.

Il Garante, intervenuto a seguito del reclamo presentato da un agente di commercio, ha accertato che la Società con cui questi collaborava, per l’intero corso del rapporto di lavoro, attraverso un software, aveva effettuato un backup della posta elettronica, conservando i contenuti ed i log di accesso sia alla e-mail aziendale che al gestionale utilizzato dalla stessa Società. Le informazioni raccolte erano poi state utilizzate dall’impresa nell’ambito di un contenzioso.

L’Autorità ha appurato, inoltre, l’inidoneità dell’informativa resa ai lavoratori, che prevedeva la possibilità, per il datore di lavoro, di accedere alla posta elettronica dei propri dipendenti e collaboratori per garantire la continuità dell’attività aziendale, in caso di loro assenza o cessazione del rapporto, senza citare, peraltro, l’effettuazione del backup ed il relativo tempo di conservazione.

Il Garante ha affermato che la sistematica conservazione delle e-mail e dei log di accesso alla posta elettronica aziendale ed al gestionale utilizzato dai lavoratori risultava non proporzionata e non necessaria al conseguimento delle finalità dichiarate dalla Società di garantire la sicurezza della rete informatica e la continuità dell’attività aziendale.

Ciò, peraltro, aveva consentito alla Società di ricostruire, minuziosamente, l’attività del collaboratore, incorrendo così in una forma di controllo vietata dallo Statuto dei lavoratori.

Con riferimento all’uso dei dati così raccolti in tribunale, il Garante ricorda che il trattamento effettuato accedendo alla posta elettronica del dipendente per finalità di tutela in ambito giudiziario si riferisce a contenziosi già in atto, non, invece, ad ipotesi di tutela astratte e indeterminate, come nel caso di specie.

Pertanto, oltre alla condanna al pagamento di una sanzione di 80 mila Euro, l’Autorità ha disposto il divieto di ulteriore trattamento dei dati attraverso il software sinora utilizzato.

Assegno di inclusione (ADI): Garante Privacy favorevole alle verifiche INPS.

Parere favorevole (n. 10063523 del 12 settembre 2024) del Garante Privacy sulle modalità e sulle misure tecniche ed organizzative che l’INPS adotterà per utilizzare le informazioni necessarie per effettuare i controlli nell’ambito della concessione dell’Assegno di Inclusione (ADI) e del Supporto per la Formazione e il Lavoro (SFL).

Il Garante per la protezione dei dati personali ha espresso parere favorevole sul protocollo che l’INPS adotterà per monitorare i requisiti dell’Assegno di Inclusione (ADI) e del Supporto per la Formazione e il Lavoro (SFL). Le misure si sono rese necessarie a fronte della quantità e delicatezza dei dati trattati, tra i quali figurano quelli relativi alla salute, ai minori ed alle sentenze di condanna.

Le misure di garanzia approvate dal Garante Privacy consentono all’Istituto di utilizzare, per la verifica circa il possesso dei requisiti necessari, i dati provenienti dai propri database e quelli messi a disposizione dalle altre amministrazioni, evitando così che l’erogazione dell’assegno di inclusione venga destinato a chi non ne ha diritto.

È stato stabilito che, nelle ipotesi di scambi informativi tra l’INPS e le amministrazioni competenti – Comuni, Ministero dell’Interno, ACI, Agenzia delle Entrate, Ministero della Giustizia e Ministero dell’Istruzione – i dati oggetto di trattamento debbano essere esclusivamente quelli strettamente necessari ad effettuare i controlli previsti dalla legge.

Nel testo vengono anche definite le procedure per la trasmissione tempestiva di informazioni tra l’INPS e le altre amministrazioni in caso di violazioni di sicurezza (ad esempio in caso di data breach).

La tutela nel caso di utilizzo e diffusione abusiva di una fotografia.

I Tribunali di Firenze e Catanzaro intervengono su alcuni casi di richieste di inibitoria dell’utilizzo da parte di portali e siti web di viaggi e di cronaca locale di fotografie in violazione del diritto d’autore e approfondiscono la tematica della fotografia come opera dell’ingegno.

Il nostro ordinamento distingue tre diverse tipologie di fotografie e la corretta qualificazione della fotografia risulta indispensabile per comprendere l’estensione della tutela accordata secondo la normativa vigente ed evitare di incorrere in violazione di diritti di terzi.

Il Tribunale di Catanzaro è intervenuto sul concetto giuridico di creatività, cui fa riferimento la Legge sul diritto d’autore (L. n. 633/1941) per le opere fotografiche, affermando che: “che un’opera d’ingegno riceve protezione a condizione che sia riscontrabile in essa un atto creativo suscettibile di manifestazione nel mondo esteriore, il quale, però, può non essere solamente costituito dall’idea in sé, ma può anche riguardare la forma della sua espressione o della sua soggettività, di modo che la stessa idea possa essere alla base di diverse opere”. Il medesimo Tribunale ha poi chiarito che occorre verificare, ai fini della tutela, se nell’immagine – di cui si lamenta l’uso senza il consenso dell’autore – è possibile individuare il contributo creativo dell’autore, ossia ciò che consente di distinguere la fotografia dall’oggetto riprodotto e dalle tecniche utilizzate per ritrarlo. La qualificazione dell’immagine come opera dell’ingegno presuppone, infatti, l’accertamento del requisito di creatività e consente di accordare al fotografo il riconoscimento dei diritti d’autore, tra cui quelli morali.

Nello stesso modo si è pronunciato anche il Tribunale di Firenze secondo cui, ai fini di una tutela, è necessario accertare che si tratti di un’opera fotografica, ossia un’opera nella quale è distinguibile l’apporto personale del suo autore, inteso come contributo creativo.

Pubblicato il Decreto di adeguamento della normativa nazionale al Data Governance Act (DGA).

È stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 238 del 10 ottobre 2024 il D.Lgs. n. 144 del 7 ottobre 2024, recante norme di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del Regolamento (UE) 2022/868 del 30 maggio 2022 (Data Governance Act – DGA), relativo alla governance europea dei dati.

Il Data Governance Act è un atto diretto a disciplinare le specifiche condizioni per un “riutilizzo dei dati” in possesso di enti pubblici.

Il Decreto, dunque, disciplina, a livello nazionale, determinati aspetti (tra cui la designazione degli organismi competenti per assistere gli enti pubblici che, ai sensi del DGA, concedono o rifiutano l’accesso al riutilizzo di dati, nonché l’individuazione dell’autorità competente a svolgere i compiti relativi alle procedure connesse ai servizi di intermediazione dei dati), la cui regolamentazione è stata demandata ai singoli Stati.

La novità principale riguarda l’affidamento all’Agenzia per l’Italia digitale (AgID), del ruolo di autorità competente allo svolgimento dei compiti relativi alla procedura di notifica per i servizi di intermediazione dei dati, nonché di autorità competente alla registrazione di organizzazioni per l’altruismo dei dati. L’AgID svolge la propria attività in maniera imparziale, trasparente, coerente, affidabile e tempestiva, salvaguardando la concorrenza leale e la non discriminazione e in conformità agli ulteriori requisiti previsti.

Progetto S.IN.D.A.C.A.: via libera del Garante Privacy.

Il Garante ha reso parere (n. 10064748 del 18 luglio 2024) sullo schema di Decreto direttoriale (a firma congiunta del Ministero dell’interno e Ministero della giustizia) che individua le specifiche tecniche per la messa a disposizione dell’autorità giudiziaria e dei soggetti abilitati (es. avvocati, cancellieri, ecc.) della videoregistrazione dei colloqui dei richiedenti asilo (c.d. Progetto “S.IN.D.A.C.A” – Sistema Informativo di Documentazione delle Audizioni delle Commissioni Asilo).

Il Decreto direttoriale attua specifiche disposizioni di settore, di derivazione europea, con riferimento alle procedure per il riconoscimento e la revoca dello status di rifugiato negli Stati membri, in particolare quelle relative al colloquio del richiedente asilo innanzi alle Commissioni Asilo territoriali. Il colloquio con gli interessati è videoregistrato con mezzi audiovisivi, trascritto in lingua italiana tramite sistemi automatici di riconoscimento vocale e, di seguito, letto al richiedente in una lingua a lui comprensibile. Il verbale della trascrizione viene conservato, insieme alla videoregistrazione, in un apposito archivio informatico presente presso il Ministero dell’Interno.

Solo in caso di eventuale ricorso promosso contro la decisione della Commissione territoriale, la videoregistrazione e il verbale di trascrizione sono messi a disposizione dell’autorità giudiziaria e dei soggetti abilitati.

Lo schema, che tiene conto delle indicazioni fornite dall’Ufficio del Garante in tema di sicurezza dei dati e del sistema, prevede specifiche misure tecniche e organizzative idonee a tutelare la privacy degli interessati.

L’Autorità, all’interno del parere reso, ha, inoltre, richiesto un ulteriore perfezionamento del decreto, evidenziando la necessità di definire precisamente i termini di conservazione dei dati e di individuare quale titolare del trattamento dei dati personali il Ministero dell’Interno.

Legittima la sospensione del lavoratore che rifiuta la nomina ad incaricato al trattamento dei dati personali.

È legittima, secondo il Tribunale del Lavoro di Udine (ordinanza dell’1 agosto 2024), la sospensione dal servizio e della retribuzione della lavoratrice che si era rifiutata di sottoscrivere l’atto di designazione come incaricata al trattamento dei dati personali.

La vicenda trae origine dal rifiuto di una lavoratrice, con mansioni di portalettere, di firmare la lettera di designazione quale incaricato al trattamento di dati, atto contenente, in conformità a quanto previsto dalla normativa applicabile, le istruzioni sulle modalità di trattamento dei dati, nonché l’accettazione dell’impegno a trattare i dati con la dovuta riservatezza e a svolgere la specifica formazione in materia, fornita dallo stesso datore di lavoro. La dipendente aveva impugnato il provvedimento di sospensione dall’attività comminatole, chiedendo la riammissione al lavoro e, in subordine, l’assegnazione a mansioni diverse, tuttavia, il Tribunale di Udine ha rigettato le sue richieste.

L’azienda ha difeso la propria decisione sostenendo che, senza la sottoscrizione dell’atto di designazione ad incaricato del trattamento, la lavoratrice non poteva operare nel rispetto della normativa sulla privacy, esponendo così l’azienda al rischio di incorrere in responsabilità.

Il GDPR impone, infatti, ai datori di lavoro di garantire che i propri dipendenti, i quali trattano dati personali, siano adeguatamente formati ed autorizzati a procedervi. Il rifiuto della lavoratrice è stato, quindi, interpretato come un comportamento disciplinarmente rilevante, nonché un impedimento allo svolgimento delle sue normali mansioni.

NEWSLETTER 11/2024

Novita’ normative

L. n. 143 del 7 ottobre 2024, di conversione, con modificazioni, del D.L. n. 113 del 9 agosto 2024.

Indennità al lavoratore dipendente: il c.d. bonus Natale.

In sede di conversione del D.L. n. 113/2024 (c.d. decreto Omnibus), la L. n. 143/2024 introduce, sperimentalmente per il solo anno 2024, una indennità una tantum del valore di Euro 100 netti, da erogarsi congiuntamente alla tredicesima mensilità e da riproporzionare in funzione della durata del rapporto di lavoro, a favore dei lavoratori dipendenti che soddisfano specifici requisiti.

In concreto, sono destinatari del c.d. bonus Natale i lavoratori subordinati (compresi i lavoratori domestici e a domicilio) indipendentemente dalla tipologia contrattuale del rapporto di lavoro instaurato (a tempo determinato o indeterminato, a tempo pieno o a tempo parziale) e dalla qualifica assunta, che soddisfano tutti i seguenti requisiti:

  1. titolarità, nell’anno d’imposta 2024, di un reddito complessivo non superiore ad Euro 28 mila;
  2. imposta lorda determinata sui redditi di lavoro dipendente di importo superiore a quello della detrazione da lavoro spettante (ex art. 13, comma 1, TUIR);
  3. presenza di coniuge non legalmente ed effettivamente separato e di almeno un figlio, anche se nato fuori del matrimonio, riconosciuto, adottivo o affidato, entrambi (coniuge e figlio) fiscalmente a carico (ex art. 12, comma 2, TUIR), o in alternativa almeno un figlio fiscalmente a carico nel caso di nucleo familiare monogenitoriale.

L’indennità una tantum va riconosciuta dal datore di lavoro previa richiesta del lavoratore, il quale deve attestare per iscritto di avervi diritto.

Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello n. 4 del 30 settembre 2024.

Chiarimenti sul ruolo del preposto negli appalti.

Con l’interpello n. 4/2024 il Ministero del Lavoro è intervenuto in merito alla corretta interpretazione della modifica all’art. 26 del D.Lgs. n. 81/2008, introdotta dalla L. n. 215/2021 (di conversione del D.L. n. 146/2021).

L’interpello chiarisce che, in considerazione dell’importanza del ruolo del preposto, è da considerarsi sempre obbligatorio che i datori di lavoro, appaltatori o subappaltatori, indichino al datore committente il personale che svolge detta funzione.

Inoltre, la Commissione sottolinea come la scelta del preposto debba ricadere solo su personale che possa effettivamente adempiere alle funzioni ed agli obblighi ad esso attribuiti, condizione quest’ultima che non sembra potersi rivenire se non quando il responsabile di commessa si reca presso il luogo dove si svolgono le attività.

Ispettorato Nazionale del Lavoro, nota n. 7020 del 25 settembre 2024.

L’INL ha fornito indicazioni operative in ordine al rilascio di provvedimenti autorizzativi per l’impiego di impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo (art. 4, comma 1, L. n. 300/1970).

L’INL rileva che solo il datore di lavoro può richiedere l’autorizzazione all’installazione di sistemi di impianti audiovisivi e di altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. Per tale motivo, non è possibile autorizzare l’installazione e l’utilizzo di strumenti qualora l’istante sia soggetto diverso dal datore di lavoro, ancorché titolare di rapporto di natura commerciale con quest’ultimo, al fine di evitare che vengano disattese le finalità per le quali la installazione di tali impianti può essere autorizzata.

In ogni caso tali sistemi di controllo, per essere autorizzati, devono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro ovvero per la tutela del patrimonio aziendale.

Novita’ GIURISPRUDENZIALI

Corte di Cassazione, ordinanza 15 ottobre 2024, n. 26770.

Arrivare con un ritardo di 40 minuti sul luogo di espletamento del servizio di vigilanza comporta il licenziamento.

Il ritardo nel prendere servizio, considerata la natura del lavoro ed i rischi legati alla mancanza di vigilanza di una banca, costituisce una violazione grave: è, quindi, legittimo il licenziamento per grave negligenza e recidiva dell’addetto alla vigilanza con un ritardo 40 minuti nella presa di servizio.

La Corte di Cassazione con questa sentenza, nel confermare la legittimità del licenziamento, ha considerato la particolarità del servizio di vigilanza e ha rilevato che la disattenzione del lavoratore nella lettura della comunicazione delle variazioni di turno integrava un inadempimento di significativa gravità, lasciando l’istituto di credito committente privo del servizio di vigilanza.

Nel caso specifico, sulla sanzione comminata ha inciso anche la recidiva del lavoratore.

Corte di Cassazione, sentenza 14 ottobre 2024, n. 26634.

È legittimo il licenziamento per superamento del periodo di comporto durante il blocco dei licenziamenti Covid.

La vicenda riguarda una lavoratrice che aveva impugnato il proprio licenziamento, irrogato per superamento del periodo di comporto, in quanto intimato nel periodo di blocco dei licenziamenti per l’emergenza Covid. La Cassazione, confermando il rigetto delle sue domande, rileva che: (i) la legge del “blocco” riguarda esplicitamente, oltre i licenziamenti collettivi, solo quelli per giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 3 della L. n. 300/70, tra i quali non rientra il superamento del periodo di comporto, specificatamente disciplinato dall’art. 2110 c.c., senza che ne sia possibile una inclusione nella legge sul “blocco” per analogia, data la specialità biunivoca delle norme citate; (ii) la possibilità di licenziamento per superamento del comporto anche nel periodo interessato dal blocco si ricava, d’altro canto, dalla previsione di non computabilità, ai suoi fini, del periodo trascorso in quarantena domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva.

Corte di Cassazione, ordinanza 10 ottobre 2024, n. 26446.

Licenziamento per offese al datore di lavoro su Facebook.

Una dipendente, dopo aver denunciato più volte la contaminazione del luogo di lavoro per la fuoriuscita di sostanze nocive ed a seguito di un infortunio per intossicazione che aveva coinvolto il marito, aveva pubblicato su Facebook commenti denigratori nei confronti della Società datrice di lavoro e del suo amministratore delegato. L’azienda, pertanto, licenziava immediatamente per insubordinazione e diffamazione la lavoratrice, che impugnò il provvedimento, portando il caso fino alla Suprema Corte.

La Corte di Cassazione, nell’accogliere le ragioni della dipendente, ha affermato che le offese pubblicate sui social network, se inserite in un contesto di reazione emotiva ad un fatto ingiusto, non costituiscono in automatico un reato o, come nel caso di specie, una giusta causa di licenziamento. Infatti, i giudici, pur riconoscendo come offensivo il comportamento della lavoratrice, hanno riconosciuto che fosse riconducibile ad uno sfogo e che non si potesse parlare di delitto né di insubordinazione in senso stretto. Le frasi denigratorie, secondo la Corte, non erano collegate all’inosservanza di direttive o ad un rifiuto di eseguire ordini, ma derivavano da una situazione di stress causata da un evento che la lavoratrice riteneva responsabilità del datore di lavoro.

Corte di Cassazione, ordinanza 10 ottobre 2024, n. 26440.

Legittimo il licenziamento del dipendente sgarbato e volgare.

Il caso ha avuto origine dal licenziamento disciplinare di un dipendente addetto al banco macelleria di un supermercato, accusato di aver utilizzato toni aggressivi e volgari verso un cliente. In primo grado, il Tribunale aveva accolto il ricorso del lavoratore contro il licenziamento, ma la Corte d’Appello di Cagliari, riformando tale decisione, ha confermato la legittimità del provvedimento.

La Cassazione, respingendo il ricorso del lavoratore avverso la sentenza di secondo grado, ha sottolineato che la giusta causa rappresenta una clausola generale, il cui contenuto viene definito dal giudice attraverso la considerazione di fattori esterni e principi sottesi. Il controllo effettuato dal giudice, in sede di legittimità, è limitato al giudizio di coerenza con gli standard dell’ordinamento e della realtà sociale. In questo caso, il ricorso del dipendente è stato respinto perché si limitava a contestare genericamente il giudizio della Corte territoriale, senza specificare quali fossero i parametri della clausola generale che sarebbero stati violati.

Corte di Cassazione, ordinanza 26 settembre 2024 n. 25724.

Legittimo il licenziamento del dipendente alla guida del mezzo aziendale senza patente.

La Corte di Cassazione ha giudicato legittimo il licenziamento disciplinare di un lavoratore per aver circolato con il mezzo aziendale senza patente valida e con il casco non allacciato.

Il dipendente, con mansioni di postino a mezzo di un ciclomotore, aveva sostenuto che il suo comportamento fosse colposo e non doloso, contestando la legittimità del licenziamento e la proporzionalità della sanzione.

Tuttavia, i giudici hanno dichiarato inammissibile il ricorso: è stata confermata la condotta dolosa del dipendente che non aveva comunicato la sospensione della patente, elemento che rappresentava un forte pregiudizio, anche potenziale, per l’azienda.

Corte di Cassazione, sentenza 16 ottobre 2024, n. 26881.

Contratti di lavoro atipici nella grande distribuzionee responsabilità solidale.

Due lavoratrici agivano in giudizio, deducendo di avere lavorato alle dipendenze di una società come commesse dei reparti di pescheria siti all’interno di due supermercati di altra società e chiedendo la condanna di quest’ultima al pagamento delle differenze retributive loro spettanti, a titolo di responsabilità solidale ex art. 29 D.Lgs. n. 276/2003.

La Suprema Corte ha riformato la sentenza di secondo grado, che aveva respinto le domande delle due lavoratrici, sul presupposto che, nel caso di specie, non sussistendo un contratto di appalto né di cessione di ramo di azienda ma essendo un contratto atipico, nato dalla prassi commerciale della grande distribuzione, non fosse applicabile l’art. 29 del D.Lgs n. 276/2003 che menziona esclusivamente l’appalto.

Pertanto, la Cassazione ha accolto il ricorso delle dipendenti e ha specificato che, in casi come quello di specie, è necessario verificare se vi sia stato un meccanismo che possa giustificare una applicazione della garanzia di cui all’art. 29 D.Lgs. n. 276/2003.

Sulla base di tali presupposti il Collegio ha enunciato il principio di diritto secondo cui, in ipotesi di contratto atipico, a causa mista, adottato nella prassi della grande distribuzione commerciale, in cui la titolare dell’impresa ceda la gestione di un autonomo reparto, non preesistente, ad altra azienda, va verificato, analizzando gli elementi del contratto, l’interesse economico concreto della operazione, al fine di accertare se si verta in una ipotesi di decentramento e di dissociazione tra la titolarità del contratto di lavoro e l’utilizzazione della prestazione lavorativa che giustifichi la responsabilità solidale, ai sensi dell’art. 29 D.Lgs. n. 276/2003.

Corte di Cassazione, ordinanza 10 ottobre 2024 n. 26417.

Modalità di fruizione dei permessi per assistere un familiare disabile.

La vicenda ha coinvolto una lavoratrice dipendente, licenziataper giusta causa per l’utilizzo indebito dei permessi per assistere il padre gravemente disabile, fruiti in cinque giornate lavorative. Secondo l’accusa la lavoratrice avrebbe dedicato all’assistenza familiare soltanto parte della giornata, mentre per il resto si sarebbe dedicata ad attività personali. Tuttavia, in giudizio era emerso che anche le attività apparentemente estranee (quali spesa, posta, farmacia, medico) erano, invece, riconducibili all’assistenza effettuata a favore del genitore. La Cassazione, nel rigettare il ricorso della società contro la sentenza di appello, riassume i seguenti principi: (i) elemento essenziale della fattispecie è l’esistenza di un diretto nesso causale tra la fruizione del permesso e l’assistenza del disabile; (ii) il permesso in questione è un diritto del lavoratore, non subordinato all’assenso o a condizionamenti da parte del datore di lavoro; (iii) la sua fruizione deve essere comunicata ex ante, per consentire al datore di organizzare di conseguenza l’attività di impresa; (iv) il dipendente non può conoscere a priori quali saranno le concrete esigenze di assistenza del disabile nel giorno indicato, pertanto la richiesta è riferita all’intera giornata e non ad ore predeterminate, fermo restando che l’assistenza potrà essere distribuita nell’arco della giornata secondo le variabili concrete esigenze del disabile.

Corte di Cassazione, ordinanza 4 ottobre 2024, n. 26071.

Dovuto il TFR anche ai soci lavoratori di cooperativa.

Confermando la decisione della Corte d’Appello, che aveva riconosciuto il diritto al TFR di un lavoratore socio di una cooperativa, la Cassazione osserva che: (i) la L. n. 142/01 riconosce al socio lavoratore di cooperativa le garanzie comuni previste dall’ordinamento a tutela del lavoro in generale, purché compatibili con la posizione di socio lavoratore dipendente come delineata dalla medesima legge; (ii) relativamente al diritto al TFR, nella L. n. 142/01 non vi è alcuna previsione che lo escluda; (iii) lo stesso Ministero del Lavoro, con risposta a interpello del 19 agosto 2008, n. 34, ha affermato che “per i soci lavoratori con rapporto di lavoro di tipo subordinato sussiste l’obbligo di applicazione di istituti normativi che la legge disciplina per la generalità dei lavoratori, tra i quali il trattamento di fine rapporto”.

Corte di Cassazione, ordinanza 27 settembre 2024, n. 25840.

Diritto alla retribuzione ordinaria e ticket mensa anche durante le ferie.

La Cassazione, nel confermare la pronuncia di merito, rileva che la retribuzione dovuta nel periodo di godimento delle ferie annuali, per come interpretata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, comprende qualsiasi importo pecuniario collegabile all’esecuzione delle mansioni ed è correlato allo status personale e professionale del lavoratore. In ragione di ciò, la Corte ha affermato il principio secondo cui i buoni pasto regolarmente forniti durante il periodo lavorativo, trattandosi di un beneficio economico e costituendo una componente della retribuzione, non possono essere esclusi dalla retribuzione spettante al lavoratore durante le ferie.

Invero, secondo i giudici, una diminuzione della retribuzione ordinaria durante i periodi feriali potrebbe dissuadere il lavoratore dall’esercitare il proprio diritto al godimento delle ferie.

Ciò, secondo la Corte, è incompatibile con gli obiettivi del legislatore europeo che si propone di assicurare ai lavoratori il diritto ad un riposo effettivo, anche a garanzia della tutela della salute e sicurezza.

Corte di Cassazione, ordinanza 12 settembre 2024, n. 24473.

Non è sciopero l’astensione dal lavoro che non è preceduta da una deliberazione collettiva.

La Corte d’Appello aveva dichiarato la legittimità della sanzione disciplinare applicata a cinque lavoratori per essersi astenuti dall’attività lavorativa in due diverse giornate, ritenendo che, in assenza di una deliberazione collettiva che attribuisse il carattere di sciopero al comportamento adottato dai lavoratori, questo fosse da qualificarsi come astensione ingiustificata dal lavoro assunta da singoli. La Cassazione, nel confermare la decisione dei giudici di merito, osserva che: (i) gli elementi che qualificano l’astensione dal lavoro come sciopero legittimo sono la natura dell’interesse collettivo da tutelare e la decisione concordata e preventiva circa l’adozione del comportamento di astensione dal lavoro; (ii) ove la decisione dell’astensione e delle modalità di esecuzione di essa siano lasciate totalmente ai singoli interessati, senza una loro predeterminazione collettiva, il datore di lavoro potrebbe essere esposto alla seria impossibilità di prevenire eventuali rischi per la salute di tutti i lavoratori ovvero rischi sulla produttività aziendale.

Corte di Cassazione, ordinanza 27 agosto 2024, n. 23176.

Patto di non concorrenza: corrispettivo solo dopo la documentazione.

La Corte di Cassazione ha affermato la legittimità della clausola inserita nel patto di non concorrenza che prevedeva che il compenso dovesse essere erogato alla fine di ogni trimestre, partendo dal trimestre successivo alla data di cessazione, sempre che il lavoratore presentasse la documentazione utile alla verifica del rispetto del patto.

Secondo la Corte, come condizione indispensabile per percepire il corrispettivo, il lavoratore doveva presentare, quindici giorni prima del pagamento, la documentazione che consentisse di verificare il rispetto del patto di non concorrenza e la mancata esibizione in tal senso avrebbe comportato il mancato indennizzo per ciascun periodo di tre mesi.

Tribunale di Trento, sentenza 16 luglio 2024, n. 132.

Utilizzo dello smartphone come cartellino presenze.

Il datore di lavoro può sostituire il sistema analogico di controllo dei turni di lavoro ed introdurre strumenti software, applicazioni e dispositivi elettronici per rilevare le presenze, se ciò consente di facilitare la timbratura da parte dei lavoratori. Infatti, il potere datoriale di organizzare il lavoro si esprime anche rispetto al meccanismo più funzionale alle esigenze aziendali per la rilevazione delle presenze ad inizio turno e al termine dell’orario di servizio. Secondo i giudici, i lavoratori, pertanto, hanno l’obbligo di attestare l’orario di ingresso e quello di uscita con le nuove modalità impartite dal datore di lavoro, anche se il sistema utilizzato, consistendo nell’accostamento del badge personale agli smartphone aziendali sui quali è stata installata un’apposita applicazione, risulta più invasivo rispetto al trattamento dei dati personali.

Newsletter Speciale

PATENTE A PUNTI

LA PATENTE A PUNTI NEI CANTIERI TEMPORANEI E MOBILI.

La patente a punti (o patente a crediti) per le imprese e per i lavoratori autonomi che lavorano nei cantieri è uno strumento a tutela dei lavoratori, introdotto dal D.L. n. 19/2024.

La patente, necessaria per le imprese e per i lavoratori autonomi per poter operare nei cantieri temporanei o mobili, è stata introdotta con l’obbiettivo di aumentare la sicurezza nei luoghi di lavoro, combattere il lavoro sommerso e tracciare il numero e la gravità degli incidenti sul lavoro.

Dal 1° ottobre è possibile presentare la domanda per ottenere la patente a punti.

Le due opzioni per la prima fase.

Sono due le opzioni messe a disposizione per ottenere la patente:

  • le imprese e i lavoratori autonomi possono presentare la domanda per ottenere la patente accedendo al “Portale dei Servizi” dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL), tramite SPID personale o CIE;
  • le imprese ed i lavoratori autonomi che già operano in cantieri attivi, possono presentare una autocertificazione/dichiarazione sostitutiva, concernente il possesso dei requisiti richiesti, tramite PEC (all’indirizzo: dichiarazionepatente@pec.ispettorato.gov.it), secondo il modello allegato alla circolare dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro dello scorso 23 settembre (reperibile sul sito dell’INL).

Tuttavia, dal 1° novembre, scade la fase transitoria e, pertanto, non sarà più possibile operare in cantiere in forza della semplice autocertificazione/dichiarazione sostitutiva, risultando necessaria la presentazione della domanda.

Chi non deve presentare la domanda.

Le sole esclusioni riguardano:

  • i soggetti che nei cantieri effettuano “mere forniture”;
  • i soggetti che nei cantieri forniscono “prestazioni di natura intellettuale” (ad esempio, ingegneri, architetti, geometri);
  • le imprese in possesso dell’attestazione di qualificazione SOA, in classifica pari o superiore alla III.

I passaggi successivi.

Possono presentare la domanda di rilascio della patente, il legale rappresentante dell’impresa e il lavoratore autonomo, anche tramite un soggetto delegato, ivi compresi consulenti del lavoro, commercialisti, avvocati e CAF.

All’esito della richiesta, il portale dell’INL genererà un codice alfanumerico e univoco associato alla patente. Una volta completata la fase di verifica sul possesso dei requisiti, la patente sarà poi rilasciata in formato digitale.

In ogni caso, già dopo la presentazione della domanda, nelle more del rilascio della patente è consentito lo svolgimento delle attività, salva diversa comunicazione notificata dall’INL.

I requisiti richiesti.

Per il rilascio della patente è richiesto il possesso di specifici requisiti. Se, in sede di controllo successivo al rilascio, risulti la non veridicità di una o più dichiarazioni rese in ordine alla sussitenza dei requisiti, la patente è revocata.

È possibile richiedere il rilascio di una nuova patente solo una volta decorsi 12 mesi dalla intervenuta revoca.

Nello specifico, i requisiti richiesti sono i seguenti:

  1. iscrizione presso la Camera di Commercio, Industria e Artigianato;
  2. adempimento degli obblighi formativi da parte del datore di lavoro, dei dirigenti, dei preposti, dei lavoratori autonomi e dei lavoratori dell’impresa;
  3. possesso del Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC) in corso di validità;
  4. possesso del Documento di Valutazione dei Rischi (DVR);
  5. possesso del Documento Unico di Regolarità Fiscale (DURF);
  6. avvenuta designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, nei casi previsti dalla normativa vigente.

Informazioni contenute nella patente.

Le informazioni relative alla patente confluiscono in un’apposita sezione del portale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Nello specifico, sono rinvenibili, nel portale, le seguenti informazioni:

  1. dati identificativi della persona giuridica, dell’imprenditore individuale o del lavoratore autonomo titolare della patente;
  2. dati anagrafici del soggetto richiedente la patente;
  3. data di rilascio e numero della patente;
  4. punteggio attribuito al momento del rilascio;
  5. punteggio aggiornato alla data di interrogazione del portale;
  6. eventuali provvedimenti di sospensione di cui all’art. 27, comma 8, del TUSL;
  7. eventuali provvedimenti definitivi ai quali consegue la decurtazione dei crediti ai sensi dell’art. 27, comma 6, del TUSL.

Attribuzione dei punti.

La patente può ottenere un punteggio massimo di 100 crediti, così assegnati:

  1. crediti base: 30 crediti attribuiti al momento di rilascio della patente;
    1. crediti per storicità dell’azienda: fino a 30 crediti complessivi, di cui:
      1. fino a 10 crediti attribuiti al momento del rilascio della patente in base alla data di iscrizione del soggetto richiedente alla camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura, secondo la tabella allegata al decreto;
      1. in ragione della mancanza di provvedimenti di decurtazione del punteggio, la patente è incrementata di un credito per ciascun biennio successivo al rilascio della stessa, sino ad un massimo di 20 crediti;
    1. crediti ulteriori: fino a 40 crediti attribuibili per investimenti o formazione in tema di salute e sicurezza sul lavoro.

In caso di patente con punteggio inferiore a 15 crediti, è consentito il completamento delle attività oggetto di appalto o subappalto in corso di esecuzione, quando i lavori eseguiti sono superiori al 30% del valore del contratto.

Decurtazione dei crediti.

Quando un’azienda riceve sanzioni, in caso di violazione delle normative vigenti in tema di salute e sicurezza, il punteggio della sua patente diminuisce proporzionalmente alla gravità delle infrazioni commesse.

Se nell’ambito del medesimo accertamento ispettivo sono contestate più violazioni, i crediti sono decurtati in misura non eccedente il doppio di quella prevista per la violazione più grave.

In caso di patente con punteggio inferiore alla soglia di 15 crediti, il recupero del punteggio fino a tale soglia è subordinato alla valutazione di una Commissione territoriale composta dai rappresentanti dell’INL e dell’INAIL.

La valutazione della Commissione territoriale tiene conto dell’adempimento dell’obbligo formativo in relazione ai corsi in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, da parte dei soggetti responsabili di almeno una delle violazioni di cui all’allegato I-bis, nonché dei lavoratori occupati presso il cantiere o i cantieri ove si è verificata la predetta violazione e della eventuale realizzazione di uno o più investimenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro, secondo quanto indicato dall’art. 5, comma 2, del decreto che li elenca.

Sospensione della patente.

La sospensione della patente:

  • è obbligatoria se si verificano infortuni da cui deriva la morte di uno o più lavoratori imputabile al datore di lavoro, al suo delegato ovvero al dirigente per colpa grave;
  • può essere adottata nel caso di infortuni da cui deriva l’inabilità permanente di uno o più lavoratori o una irreversibile menomazione, suscettibile di essere accertata immediatamente, imputabile a colpa grave.

La sospensione è determinata tenendo conto della gravità degli infortuni, nonché della gravità della violazione in materia di salute e sicurezza e delle eventuali recidive.

Il provvedimento è adottato dall’Ispettorato del lavoro territorialmente competente e la durata della sospensione non può, in ogni caso, essere superiore a 12 mesi. Avverso il provvedimento cautelare di sospensione è ammesso ricorso.

Sanzioni per chi opera senza patente o con crediti insufficienti.

I soggetti che, in violazione della normativa, operino in cantiere senza patente o con crediti inferiori a 15 sono puniti con:

  • sanzione amministrativa fino al 10% del valore complessivo dei lavori, con un minimo di 6.000 euro;
  • interruzione immediata delle attività nel caso in cui il punteggio della patente scenda sotto i 15 crediti, con la possibilità di riprendere le attività solo una volta che i crediti saranno reintegrati.

NEWSLETTER 10/2024

Novità normative

Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, D.M. 18 settembre 2024 n. 132, pubblicato in G.U. n. 221 del 20 settembre 2024.

Patente a crediti per le imprese e i lavoratori autonomi operanti nei cantieri temporanei o mobili: modalità di presentazione della domanda.

Il Ministro del Lavoro ha emanato il Decreto n. 132/2024, contenente il Regolamento relativo all’individuazione delle modalità di presentazione della domanda per il conseguimento della patente per le imprese e i lavoratori autonomi operanti nei cantieri temporanei o mobili, indipendentemente dal tipo di attività svolta. Tale decreto era stato previsto dal D.L. n. 19/2024 (cd. Decreto PNRR), che ha modificato il Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

Al riguardo, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL), con la Circolare n. 4 del 23 settembre 2024, ha fornito le prime indicazioni, specificando che il portale per effettuare la richiesta di rilascio della patente a crediti sarà attivo, sul sito dell’INL, dal 1° ottobre 2024 e l’accesso sarà possibile attraverso SPID personale o CIE.

Inoltre, dal 23 settembre 2024 è possibile presentare una autocertificazione/dichiarazione sostitutiva (tramite PEC, all’indirizzo: dichiarazionepatente@pec.ispettorato.gov.it) concernente il possesso dei requisiti previsti dall’art. 27, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2008, laddove richiesti dalla normativa vigente. La trasmissione della autocertificazione/dichiarazione sostitutiva avrà efficacia fino al 31 ottobre 2024 e vincola l’operatore a presentare la domanda per il rilascio della patente mediante il portale dell’INL entro la medesima data, non essendo infatti possibile operare in cantiere in forza della sola autocertificazione/dichiarazione sostitutiva.

D.L. 16 settembre 2024 n. 131, pubblicato in G.U. n. 217 del 16 settembre 2024.

Violazione della normativa sui contratti a termine: in caso di conversione in contratto a tempo indeterminato il Giudice del lavoro potrà riconoscere un indennizzo superiore a 12 mensilità nel privato e compreso tra 4 e 24 mensilità nel pubblico impiego.

Il 17 settembre 2024 è entrato in vigore il D.L. n. 131/2024 (c.d. Decreto salva infrazioni), il quale è intervenuto anche sulla disciplina dei contratti di lavoro a termine, in particolare sul regime sanzionatorio, dando seguito alla richiesta dell’UE di conformare la normativa interna alla direttiva 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato. L’intervento consiste in due norme distinte, ossia gli artt. 11 e 12, relativi rispettivamente ai datori di lavoro privati e al settore pubblico.

  • L’art. 11 ha modificato l’art. 28 del D.Lgs. n. 81/2015, commi 2 e 3, inerente alla quantificazione del risarcimento dovuto ai lavoratori nelle ipotesi di conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato. L’art. 11, comma 1, lettera a) ha aggiunto alla precedente formulazione dell’art. 28, comma 2, la seguente disposizione: «Resta ferma la possibilità per il giudice di stabilire l’indennità in misura superiore se il lavoratore dimostra di aver subito un maggior danno», introducendo la possibilità per il giudice, in caso di conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, di riconoscere al lavoratore un indennizzo superiore a 12 mensilità. L’art. 11, comma 1, lettera b), ha abrogato il comma 3 dell’art. 28, che stabiliva che la soglia massima dell’indennizzo, pari a 12 mensilità, fosse dimezzata in presenza di contratti collettivi che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie.
  • L’art. 12 del D.L. n. 131/2024 interviene, invece, sulla disciplina dei contratti a termine nelle amministrazioni pubbliche, e, nello specifico, sull’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001, nel quale si afferma che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori (tra le quali rientrano quelle che pongono limiti ai rapporti a termine) non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le pubbliche amministrazioni, diversamente da quanto accade nel settore privato. Pertanto, l’unica sanzione prevista per le violazioni rimane il risarcimento del danno. Sulla scorta delle intimazioni da parte dell’UE, nella norma ora introdotta, si prevede che, nel caso di abuso nell’utilizzo di una successione di contratti o rapporti a termine, l’indennizzo sia compreso tra un minimo di 4 e un massimo di 24 mensilità, avuto riguardo alla gravità della violazione, anche in base al numero dei contratti intervenuti tra le parti e alla durata complessiva del rapporto e – come nella modificata normativa sui contratti a tempo determinato nel settore privato – fatta salva la facoltà per il lavoratore di provare il maggior danno.

INPS, messaggio 30 agosto 2024, n. 2909.

Pagamento diretto delle indennità di malattia e maternità nei casi di mancata anticipazione da parte del datore di lavoro.

L’INPS, con il messaggio n. 2909/2024, riepiloga le ipotesi di pagamento diretto delle indennità di malattia, maternità, permessi ex L. n. 104/1992 e congedo straordinario di cui all’art. 42, comma 5, del D.Lgs. n. 151/2001.

L’Istituto individua le seguenti ipotesi di pagamento diretto delle indennità in questione:

  • ipotesi in cui il datore di lavoro sia stato sottoposto a procedura concorsuale;
  • ipotesi di aziende tuttora attive che rifiutino espressamente di anticipare le indennità agli aventi diritto;
  • ipotesi in cui l’Istituto stia effettuando il pagamento diretto del trattamento di integrazione salariale, anche in deroga;
  • ipotesi in cui l’Ispettorato territoriale del lavoro, previo accertamento dell’inadempimento datoriale, abbia disposto il pagamento diretto della prestazione;
  • ipotesi in cui l’omessa anticipazione sia riferita ad eventi indennizzabili insorti nel corso dell’attività di azienda successivamente cessata;
  • ipotesi di aziende per le quali non sussiste l’obbligo di anticipazione prevista al comma 7 dell’art. 1, DL n. 663/1979, in carenza di relativa previsione nel CCNL di riferimento.

Novita’ GIURISPRUDENZIALI

Corte di Cassazione, ordinanza 5 settembre 2024, n. 23852.

Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, può configurare la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà.

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 23852, ha affermato che può essere licenziato il lavoratore che fa sport (nella fattispecie, si trattava della partecipazione ad un torneo di calcio, da tempo programmato) durante l’assenza dal lavoro per malattia.

I giudici hanno evidenziato che lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, può integrare una violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà oltre che dei doveri generali di correttezza e buona fede. A ciò si aggiunga che tale attività esterna può, di per sé, risultare sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia. Nel caso in esame la Corte ha ritenuto la condotta del dipendente diretta, tramite la simulazione

di uno stato fisico incompatibile con lo svolgimento dell’attività lavorativa, non solo all’assenza dal lavoro, ma anche al vantaggio indebito della partecipazione, in orario lavorativo, ad una partita di calcio previamente programmata.

Corte di Cassazione, ordinanza interlocutoria 5 settembre 2024, n. 23874.

Ancora una possibile anomalia nella disciplina dei licenziamenti sottoposta all’esame della Corte costituzionale.

La sezione lavoro della Cassazione era stata chiamata a pronunciarsi sui fatti inerenti ad una lavoratrice, la quale chiedeva che il proprio ritardo nell’impugnazione del licenziamento fosse ritenuto giustificato, in ragione del fatto che al momento della ricezione dell’atto e nei giorni successivi si trovava in condizioni di incapacità naturale.

La sezione lavoro ha rinviato la questione alle sezioni unite della Corte, per riesaminare la questione dell’eventuale incidenza dello stato di incapacità naturale, che nel caso in esame era stato processualmente dimostrato e non contestato, sulla presunzione di conoscenza dell’atto unilaterale ricettizio prevista dall’art. 1335 c.c. al momento in cui giunge all’indirizzo del destinatario. Le sezioni unite hanno dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 della L. 15 luglio 1966, n. 604, nella parte in cui, nel prevedere che “il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, …”, fa decorrere, anche nei casi di incolpevole incapacità naturale del lavoratore licenziato, processualmente accertata e conseguente alle sue condizioni di salute, il termine di decadenza dalla ricezione dell’atto, anziché dalla data di cessazione dello stato di incapacità.

Corte di Cassazione, ordinanza 30 luglio 2024, n. 21299.

Licenziamento del dirigente: applicabile la procedura del licenziamento collettivo.

La Cassazione ha affermato che le procedure di informazione e consultazione sindacale, previste per il licenziamento collettivo, devono attuarsi anche qualora il recesso riguardi i dirigenti.

Nel caso di specie, il dirigente aveva impugnato il licenziamento irrogatogli, deducendo la violazione della procedura prevista in tema di licenziamento collettivo. La Corte d’Appello nell’accogliere la predetta domanda, ha ritenuto applicabile anche ai

dirigenti la procedura di cui alla L. n. 223/1991. La Cassazione ha successivamente confermato la pronuncia di merito, rilevando che: (i) l’art. 24, co. 1-quinquies, della L. n. 223/91 è stato introdotto dopo che l’Italia era stata condannata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per avere escluso la categoria dei dirigenti dall’ambito di applicazione della procedura nazionale sui licenziamenti collettivi; (ii) gli obblighi di informazione e di consultazione rappresentano il nucleo della direttiva europea sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia; (iii) poiché nella normativa europea e neppure nell’art. 24, comma 1-quinquies non vi è traccia di una distinzione tra licenziamenti collettivi intimati all’esito di una sospensione in CIGS ovvero disposti senza tale previa sospensione, le procedure di informazione e consultazione si applicano anche ai dirigenti in ogni caso di licenziamento collettivo. Pertanto, le procedure di informazione e consultazione si devono applicare anche ai dirigenti.

Corte di Cassazione, ordinanza 3 settembre 2024, n. 23610.

La necessità di pagare lo straordinario prevale se la prestazione è stata svolta in linea con la volontà del datore.

Con questa recente ordinanza, la Cassazione ha stabilito che il lavoro straordinario deve essere retribuito anche in assenza di autorizzazione formale, in quanto è sufficiente che ci sia il consenso del datore di lavoro.

I giudici della Corte hanno affermato che, sebbene il lavoro aggiuntivo richieda specifiche autorizzazioni e condizioni, nel pubblico impiego lo straordinario deve essere pagato sempre, anche in assenza di autorizzazioni formali, purché svolto con il consenso del datore di lavoro.

L’ordinanza in esame, pertanto, fornisce un principio fondamentale in materia di protezione dei diritti dei dipendenti pubblici, assicurando agli stessi una giusta ed adeguata remunerazione per l’attività lavorativa in concreto svolta.

Corte di Cassazione, sentenza 7 agosto 2024, n. 22362.

Illegittime le trattenute a titolo di costi di gestione della cessione del quinto.

La Cassazione conferma l’illegittimità delle trattenute, effettuate da una società, dallo stipendio di alcuni dipendenti a titolo di costi di gestione amministrativi della cessione del quinto del loro stipendio, in un giudizio in cui tali dipendenti ne chiedevano la restituzione. In proposito, la Corte osserva che: (i) la cessione del quinto, quale cessione di credito, per la cui validità non è richiesto il consenso del debitore

ceduto, è opponibile a questi purché egli ne sia a conoscenza; (ii) essa inerisce al rapporto di lavoro, ancorché non sia strettamente funzionale alla modulazione dello stesso, in quanto prevista dalla legge, che in proposito attribuisce ai dipendenti un vero e proprio diritto potestativo, con conseguente riconduzione delle spese relative nell’ambito di quelle a carico del datore di lavoro per la gestione del rapporto; (iii) questi potrebbe, peraltro, liberarsi del relativo obbligo, unicamente provandone l’eccessiva onerosità in rapporto all’organizzazione amministrativa che l’impresa ha l’onere di predisporre in funzione delle dimensioni aziendali.

Corte di Cassazione, ordinanza 10 maggio 2024, n. 12790.

Il lavoratore non può rifiutarsi di partecipare ai corsi di formazione sulla sicurezza neppure se sono organizzati al di fuori del proprio normale orario di lavoro.

La Cassazione ha ritenuto che l’art. 37, comma 12, D.Lgs. n. 81/2008, nella parte in cui prescrive che la formazione dei lavoratori in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro deve avvenire “durante l’orario di lavoro”, vada interpretato nel senso che tale locuzione sia comprensiva anche dell’orario relativo a prestazioni esigibili al di fuori dell’orario di lavoro. Nello specifico, si deve fare riferimento all’orario ordinario, di legge o previsto dal contratto collettivo, per i lavoratori a tempo pieno e di quello concordato, per i lavoratori a tempo parziale, con conseguente illegittimità del rifiuto, da parte del lavoratore, di svolgere la formazione fuori dai propri turni di lavoro.

NEWSLETTER 9/2024

Novita’ normative

Il D.Lgs. 12 luglio 2024, n. 103, recante misure di semplificazione dei controlli sulle attività economiche, in materia di ispezioni sul lavoro vieta i doppi controlli contemporanei.

Tra le principali novità in materia di lavoro e legislazione sociale, introdotte dal D.Lgs. 103/2024 in vigore dal 2 agosto, c’è il divieto di effettuare due o più ispezioni contemporaneamente, da parte di diverse amministrazioni (Ispettorato, INPS, INAIL e Guardia di Finanza), nei confronti dello stesso soggetto, a meno che le stesse non si organizzino in via preventiva per lo svolgimento di una ispezione congiunta. Tale divieto risponde all’esigenza di evitare duplicazioni e rendere più efficace l’attività ispettiva, in particolar modo nell’ambito delle verifiche sul lavoro sommerso, rispetto alle quali operano diversi organi di controllo.

L’art. 5 del D.Lgs. contiene, inoltre, alcuni principi in base ai quali i controlli sulle imprese devono essere programmati «con intervalli temporali correlati alla gravità del rischio». Tuttavia, per l’Ispettorato valgono molteplici eccezioni: verifiche richieste dall’autorità giudiziaria; denunce e segnalazioni circostanziate da parte di soggetti pubblici o privati; controlli in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro e, comunque, per situazioni di rischio. Ad eccezione di tali casistiche, l’art. 5 prevede che, all’esito del controllo da parte dell’amministrazione procedente ed accertata la conformità agli obblighi e agli adempimenti imposti dalla disciplina di riferimento, le imprese controllate siano esonerate per un periodo di dieci mesi dall’ultima verifica da parte della stessa amministrazione o altre amministrazioni che esercitano le funzioni di controllo. Tale disposizione, tuttavia, si sovrappone con il meccanismo della lista di conformità, introdotta dal D.L. 19/2024, norma speciale e dunque prevalente, che prevede uno stop di 12 mesi ai controlli per le aziende regolari, che si iscrivono nella lista su base volontaria.

Novita’ GIURISPRUDENZIALI

Corte di Cassazione, ordinanza 22 agosto 2024, n. 23029.

No al licenziamento per giusta causa del lavoratore che insulta pesantemente la collega dopo averle fatto i complimenti per essersi fidanzata.

La Cassazione ha riconosciuto l’illegittimità del licenziamento in tronco di un dipendente di un’importante casa automobilistica che, dopo aver rivolto ad una collega gli auguri e i complimenti per essersi fidanzata ha successivamente cambiato tono, prima insultandola e poi minacciandola di fare una brutta fine.

Secondo la Corte il licenziamento del lavoratore per giusta causa deciso dall’azienda non era legittimo in quanto il lavoratore non era passato a vie di fatto. Infatti, nonostante il comportamento del dipendente manifestatosi in un’aggressione verbale nei confronti di una donna sia socialmente riprovevole e pertanto abbia certamente rilievo disciplinare, lo stesso non lede il rapporto di fiducia con il datore di lavoro. Pur se oltraggioso e volgare e rimproverabile a titolo di dolo, le ingiurie del lavoratore nei confronti della collega non rappresentano un reato, essendo stato il reato di ingiuria depenalizzato.

La Cassazione ha così accolto il ricorso del lavoratore, che aveva impugnato la sentenza d’appello che gli negava il reintegro sul posto di lavoro, in quanto il suo comportamento rientrava in un diverbio senza passaggio alle vie di fatto e per il quale pertanto il CCNL di riferimento prevede una sanzione conservativa.

Corte di Cassazione, ordinanza 12 agosto 2024, n. 22712.

Escluso il licenziamento per l’attività sportiva svolta durante il periodo di malattia se non ritarda la guarigione anzi la favorisce.

La Corte d’Appello di Milano, in riforma della sentenza di primo grado del Tribunale della medesima sede, ha accolto la domanda di nullità del licenziamento intimato da Rete Ferroviaria Italia S.p.A. ad un proprio dipendente, avendo ritenuto insussistente una giusta causa di recesso in relazione agli allenamenti sportivi praticati dal lavoratore a seguito di un intervento.

La Corte ha ritenuto decisiva la manifesta insussistenza (in quanto priva dei profili di illiceità) dell’addebito disciplinare contestato, in quanto l’infrazione addebitata atteneva all’adozione di una condotta che aveva protratto il periodo di inidoneità alla mansione assegnata non già ad un comportamento che avesse impedito l’effettiva guarigione.

Per la cassazione di tale sentenza la società proponeva ricorso sulla base di quattro motivi.

Con il secondo di questi la società ha denunciato la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.) ritenendo che la Corte territoriale avesse effettuato una valutazione erronea della condotta tenuta dal lavoratore, considerata dalla datrice di lavoro come di innegabile gravità oltre che incompatibile con la propria condizione di non idoneità alla mansione specifica di addetto al controllo dei varchi di accesso.

La Cassazione specifica che la parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata è tenuta a denunciare che la combinazione e il peso dei dati fattuali (gravità dei fatti addebitati, portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, circostanze in cui sono state commessi, intensità dell’elemento intenzionale, ecc.), così come definito dal giudice del merito, non consente comunque la riconduzione alla nozione legale di giusta causa di licenziamento. Aggiunge inoltre che nel caso di specie, la Corte territoriale ha tenuto conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnando rilievo alla ripresa delle ordinarie mansioni alla scadenza dei 60 giorni di inidoneità stabiliti dal medico competente nonché a tutta la documentazione medica acquisita (dalla quale emergeva una buona evoluzione della convalescenza e la necessità di uno svolgimento di attività fisica ai fini del recupero di un adeguato tono muscolare), concludendo per la insussistenza di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme dell’etica aziendale o del comune vivere civile.

Corte di Cassazione, ordinanza 8 agosto 2024, n. 22455.

Illegittimo il licenziamento del dipendente indotto in errore dal datore di lavoro sul calcolo per il superamento del periodo di comporto.

Se la contrattazione collettiva non contiene una specifica previsione il datore non ha l’obbligo di preavvertire il lavoratore nell’imminenza del superamento del comporto. Ma l’obbligo c’è quando, come nel caso esaminato, il lavoratore viene fuorviato da quanto scritto in busta paga.

La vicenda ha riguardato un dipendente di una società per azioni a cui veniva notificato il licenziamento per superamento del comporto ed il quale, di conseguenza, impugnava giudizialmente l’atto espulsivo. Il Tribunale adito, in veste di giudice del lavoro, respingeva la domanda del lavoratore di dichiarare l’illegittimità del licenziamento, con conseguenti annullamento del provvedimento, reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanna della società al risarcimento dei danni. Avverso tale decisione del Tribunale veniva proposto, dal

dipendente, appello. La Corte territoriale riformando l’impugnata sentenza, dichiarava illegittimo

il licenziamento e lo annullava. Ordinava altresì alla società suddetta di procedere alla immediata

reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro, con adibizione alle stesse mansioni svolte all’atto del licenziamento o ad altre equivalenti, oltre al risarcimento dei danni. La società datrice di lavoro, avverso la sentenza di appello, proponeva ricorso innanzi alla Cassazione, la quale tuttavia lo ha dichiarato inammissibile.

I giudici di legittimità hanno, quindi, precisato che è illegittimo il licenziamento per superamento del comporto irrogato al dipendente indotto in errore dai prospetti presenze, allegati alle buste paga, riportanti un numero di assenze per malattia di molto inferiori rispetto a quelli reali. Infatti pur se il lavoratore può verificare autonomamente il numero effettivo di assenze per malattia (anche accedendo al portale Web dell’INPS), il comportamento del datore di lavoro non può essere considerato conforme a buona fede e correttezza.

Corte di Cassazione, ordinanza 25 luglio 2024, n. 20698.

Sanzione conservativa alla dipendente che fotografa il posto di lavoro e stampa in eccesso.

Con tale ordinanza la Cassazione ha deciso il caso relativo ad una dipendente licenziata per avere effettuato fotografie del posto di lavoro senza tuttavia l’autorizzazione datoriale e per aver stampato un considerevole numero di pagine in spregio al buon utilizzo delle risorse aziendali oltre a non avere fornito successivamente al datore di lavoro alcuna spiegazione in merito. Secondo il datore di lavoro tale condotta integrava un’ipotesi di violazione degli obblighi di cui all’art. 220, 1° e 2° comma, del CCNL Commercio, in quanto con tale comportamento la lavoratrice non aveva adempiuto all’obbligo di osservare nel modo più scrupoloso i doveri di ufficio e di conservare diligentemente i materiali aziendali. Secondo il giudice di secondo grado la condotta tenuta dalla lavoratrice non era, invece, di gravità tale da giustificarne il licenziamento, risultando pertanto una sanzione sproporzionata. Quanto alla tutela applicabile non viene tuttavia riconosciuta la reintegrazione, posto che i fatti contestati non risultano ricompresi nelle fattispecie per le quali la contrattazione collettiva prevede sanzioni conservative.

Secondo la Cassazione, invece, la lavoratrice ha diritto anche alla reintegrazione sul posto che il quadro dei provvedimenti disciplinari stabilito dal CCNL sopracitato fa rientrare il caso del lavoratore che “esegua con negligenza il lavoro affidatogli” tra i comportamenti per cui è prevista solo una sanzione conservativa (multa).

Corte di Cassazione, ordinanza 10 luglio 2024, n. 18904.

Per il rispetto dell’obbligo di repêchage vanno offerte anche posizioni inferiori.

Con la citata ordinanza, la Cassazione afferma il seguente principio di diritto: “Non risulta assolto l’obbligo di repêchage ove all’atto di licenziamento per gmo risultino esistenti nell’organico aziendale mansioni inferiori, anche a termine, ed il datore non abbia effettuato alcuna offerta di demansionamento al lavoratore né comunque allegato e provato in giudizio che il lavoratore non rivesta le competenze professionali richieste per l’espletamento delle stesse mansioni”.

La Cassazione – nel ribaltare la precedente pronuncia di merito – rileva, preliminarmente, che l’onere della prova in materia di repêchage è a carico del datore di lavoro.

Nella sentenza si legge che tale onere è esteso anche alle mansioni inferiori, con la conseguenza che parte datoriale è tenuta a provare che al momento del licenziamento non esista, in assoluto, alcuna altra posizione lavorativa in cui possa essere ricollocato il lavoratore da licenziare.

Invero, secondo i giudici di legittimità, prima di intimare il licenziamento, il datore deve offrire la mansione alternativa anche inferiore al lavoratore, prospettandone il demansionamento. Solo nel caso in cui tale soluzione alternativa non venga accettata dal dipendente, è possibile recedere dal rapporto.

Tanto premesso, la Suprema Corte accoglie il ricorso proposto dalla società e conferma l’illegittimità dell’impugnata sanzione espulsiva.

Tribunale di Varese, sentenza 11 giugno 2024, n. 207.

Sussiste la giusta causa di licenziamento in caso di utilizzo dei social network, da parte del dipendente, durante l’orario di lavoro.

Il caso in esame ha ad oggetto l’impugnazione di un licenziamento per giusta causa intimato al dipendente, il quale trascorreva numerose ore al giorno, durante l’orario di lavoro, a navigare su Internet, a gestire il proprio profilo Facebook, ovvero a conversare tramite Whatsapp per questioni esclusivamente personali. Nel corso del giudizio è stata dimostrata da parte del datore di lavoro sia documentalmente, sia tramite prova testimoniale, la sussistenza dei fatti contestati. Più precisamente, è stato dimostrato che il dipendente, in pochi giorni lavorativi, aveva visionato molteplici pagine social, oltre a chattare con amici ed a navigare su Internet per procedere ad acquisti personali o a curare interessi propri. Il Giudice del Lavoro, in accoglimento delle argomentazioni sollevate nell’interesse della società, ha confermato la giurisprudenza ormai consolidata sia di merito, sia di legittimità che ritiene che l’utilizzo del personal computer aziendale per uso personale mediante sistematiche connessioni a Internet giustifica il recesso da parte del datore di lavoro.

Nel caso di specie è stato confermato che la condotta consistente nell’utilizzo reiterato e volontario di social e chat da parte del dipendente con il pc aziendale durante l’orario lavorativo, per un periodo di tempo decisamente significativo, integra un utilizzo indebito dello strumento di lavoro fornito dall’azienda. Tale comportamento è sufficiente a dimostrare la gravità del fatto ed il venir meno dell’elemento fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro subordinato intercorso fra le parti.

Corte di Cassazione, ordinanza 21 agosto 2024, n. 22985.

La NASpI va restituita in caso di conversione del contratto a termine? Questione alle Sezioni Unite.

Nel caso esaminato, la Cassazione era stata chiamata a pronunciarsi rispetto a una controversia concernente la restituzione dell’indennità di disoccupazione (NASpI) da parte di un lavoratore.

Il dipendente, dopo aver ottenuto la conversione retroattiva di un contratto a termine in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, si era visto richiedere dall’INPS la restituzione delle somme percepite a titolo di indennità di disoccupazione.

Nello specifico, il lavoratore aveva percepito la NASpI alla scadenza di un contratto a termine, per un periodo in cui risultava pertanto non formalmente occupato.

Successivamente, una sentenza del 2014 aveva riconosciuto la natura illegittima del termine apposto al contratto e aveva disposto la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato con efficacia retroattiva, condannando il datore di lavoro al risarcimento.

Pertanto, la questione centrale da chiarire era se il lavoratore dovesse restituire o meno la NASpI ricevuta, considerato che la conversione retroattiva del rapporto di lavoro con il riconoscimento di un risarcimento forfettario, ai sensi della L. 183/2010, avrebbe comportato l’annullamento dello stato di disoccupazione all’origine del diritto all’indennità.

Secondo l’attuale indirizzo giurisprudenziale dominante quando un lavoratore ottiene la conversione del contratto a termine con effetto retroattivo e un risarcimento forfettario, viene meno lo stato di disoccupazione giustificativo della NASpI. Da ciò consegue che l’indennità percepita è considerata un indebito previdenziale e deve essere restituita.

La Sezione Lavoro della Cassazione, riconosciuta, sul punto, l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale latente e considerati i cambiamenti normativi recenti, ha ritenuto che il tema meritasse una revisione generale.

In particolare, ha sollecitato una riflessione sul fatto che lo stato di disoccupazione involontaria, che giustifica l’erogazione della NASpI, potrebbe non venire meno automaticamente con la retroattiva conversione del contratto.

La Sezione Lavoro, in altri termini, ha chiesto che le Sezioni Unite esaminino l’opportunità di stabilire un nuovo indirizzo giurisprudenziale che impedisca la richiesta di restituzione della NASpI nei casi in cui i lavoratori, sebbene abbiano ottenuto la conversione del contratto, abbiano effettivamente vissuto un periodo di disoccupazione involontaria.

La Corte di Cassazione, in definitiva, ha deciso di rimettere la questione alle Sezioni Unite, non solo per risolvere il contrasto giurisprudenziale, ma anche per valutare la possibilità di stabilire un nuovo orientamento che tenga conto delle implicazioni socio-economiche legate alla disoccupazione involontaria e alla tutela previdenziale dei lavoratori.

Corte di Cassazione, ordinanza 31 luglio 2024, n. 21440.

Questa recente ordinanza la Corte Suprema stabilisce che il tempo dedicato al pasto non rientra nell’orario di lavoro, ma conferma il diritto ai buoni pasto per turni oltre le sei ore.

La Cassazione afferma che la consumazione del pasto è collegata alla pausa di lavoro ed avviene nel corso della stessa e, laddove la contrattazione collettiva lo preveda, il diritto alla mensa (o, in alternativa, ai buoni pasto) sorge ogniqualvolta la prestazione ecceda le sei ore.

La Cassazione – nel confermare la pronuncia di merito – rileva che il diritto alla fruizione del buono pasto non ha natura retributiva, ma costituisce una erogazione di carattere assistenziale, collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale, avente il fine di conciliare le esigenze di servizio con le esigenze quotidiane del lavoratore.

Ciò premesso, per la Cassazione, non può essere accolta la tesi difensiva della società datrice, secondo cui il diritto alla mensa sorgerebbe solo in caso di attività lavorativa prestata nelle fasce orarie normalmente destinate alla consumazione del pasto.

Invero, secondo i Giudici di legittimità, la fruizione del pasto — ed il connesso diritto alla mensa o al buono pasto— è prevista nell’ambito di un intervallo non lavorato.

Su tali presupposti, la Suprema Corte rigetta il ricorso proposto dalla società e conferma la debenza dei richiesti buoni pasto.

Corte di Cassazione, ordinanza 26 luglio 2024, n. 20938.

Il valore dell’auto aziendale va calcolato ai fini del TFR.

Il valore dell’auto aziendale concessa al dipendente deve effettivamente rientrare nella base di calcolo del TFR e dell’indennità di preavviso, tuttavia deve trattarsi di beneficio riconosciuto contrattualmente dal datore al prestatore di lavoro come beneficio in natura e pattiziamente inserito nella struttura sinallagmatica del contratto di lavoro.

Il valore dell’uso e della disponibilità, anche a fini personali, di un’autovettura concessa contrattualmente dal datore di lavoro al lavoratore come beneficio in natura rappresenta il contenuto di un’obbligazione che, anche ove non ricollegabile ad una specifica prestazione, è suscettibile di essere considerata di natura retributiva, con tutte le relative conseguenze, se pattiziamente inserita all’interno del contratto di lavoro cui essa accede, e, pertanto, il controvalore in denaro deve essere computato nella base di calcolo dell’indennità di fine rapporto.

NEWSLETTER 8/2024

Novita’ normative

Legge 12 luglio 2024, n. 101 (G.U. n. 163 del 13 luglio 2024) recante “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 15 maggio 2024, n. 63, recante disposizioni urgenti per le imprese agricole, della pesca e dell’acquacoltura, nonché’ per le imprese di interesse strategico nazionale”.

La legge in esame converte il c.d. Decreto Agricoltura, con cui, il legislatore ha introdotto misure a sostegno delle imprese agricole, della pesca e acquacoltura e nuove regole per l’installazione di impianti fotovoltaici in terreni agricoli.

Il provvedimento normativo ha introdotto una serie di misure finalizzate ad incrementare i controlli sul lavoro.

Innanzitutto, dispone i fondi sia per provvedere all’assunzione di un totale 514 ispettori tra INPS e INAIL, sia per investire in strumentazioni informatiche. Infatti, presso il Ministero del Lavoro, viene istituito un Sistema informativo per la lotta al caporalato nell’agricoltura, volto alla condivisione delle informazioni tra amministrazioni statali e regioni, per consentire lo sviluppo di una strategia volta al contrasto del caporalato, oltre a favorire l’evoluzione qualitativa del lavoro agricolo.

Inoltre, per rafforzare i controlli sugli appalti nel settore agricolo, è stata prevista anche l’istituzione presso l’INPS di una banca dati degli appalti in agricoltura. L’iscrizione alla banca dati sarà obbligatoria per le imprese che intendono partecipare ad appalti in cui l’impresa committente sia un’impresa agricola di cui all’art. 2135 c.c. e che sono imprese non agricole singole ed associate che svolgono servizi di raccolta di prodotti agricoli, nonché ad attività di cernita, pulitura e imballaggio dei prodotti ortofrutticoli, sia le imprese che effettuano lavori e servizi di sistemazione e di manutenzione agraria e forestale, di imboschimento, di creazione, sistemazione e manutenzione di aree a verde.

Le stesse imprese dovranno anche attivare una polizza fideiussoria assicurativa, da rilasciare al committente, a garanzia dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, nonché delle retribuzioni spettanti i lavoratori dipendenti dell’impresa stessa impiegati nell’appalto. In assenza di tale polizza verrà applicata

una sanzione amministrativa, che grava tanto sul committente quanto sull’appaltatore e che oscilla tra un minimo di Euro 5.000 ad un massimo di Euro 15.000. L’irrogazione della stessa impedirà, inoltre, per un periodo di un anno a decorrere dalla notifica dell’illecito, l’iscrizione o la permanenza dell’impresa committente nella Rete del lavoro agricolo di qualità.

Il D.Lgs. 12 luglio 2024, n. 103, recante misure di semplificazione dei controlli sulle attività economiche, potrebbe incidere anche sui controlli in materia di lavoro e legislazione sociale.

L’art. 1 del citato decreto, nel definire l’ambito di applicazione, fa un generico riferimento ai controlli amministrativi sulle attività economiche svolti dalle Pubbliche Amministrazioni, tra le quali appare difficile escludere l’Ispettorato nazionale del Lavoro. Di seguito si analizzano alcune delle nuove disposizioni che entreranno in vigore il prossimo 2 agosto 2024 e che rischiano di confliggere con istituti attualmente utilizzati dal personale ispettivo.

L’art. 6 si occupa delle violazioni sanabili e stabilisce che, per le infrazioni per le quali è prevista l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria non superiore nel massimo ad Euro 5.000, l’organo di controllo incaricato, nel caso in cui accerti, per la prima volta nell’arco di un quinquennio, l’esistenza di violazioni sanabili, diffida l’interessato a porre fine alla violazione, ad adempiere alle prescrizioni trasgredite ed a rimuovere le conseguenze dell’illecito amministrativo entro un termine non superiore a venti giorni dalla data della notificazione dell’atto di diffida.

Tale istituto presenta aspetti comuni e aspetti differenti rispetto alla diffida obbligatoria di cui all’art. 13, comma 2 D.Lgs. n. 124/2004, operativa ad oggi per le verifiche ispettive in materia di lavoro.

Tra i tratti comuni vi rientrano: (i) la finalità: entrambi si applicano ai casi di irregolarità sanzionate in via amministrativa con la finalità di indurre il trasgressore ad eliminare le conseguenze dannose; (ii) il risultato: per entrambe le procedure, il risultato finale dell’attività sanante e, quindi, dell’ottemperanza alla diffida, è quello di estinguere il procedimento sanzionatorio limitatamente alle inosservanze sanate.

Tra le differenze invece rilevano: (i) i termini: il termine per ottemperate è pari a 30 giorni per la diffida ex art. 13, mentre è di 20 giorni per la nuova diffida; (ii) apparato sanzionatorio: l’ottemperanza alla diffida ex art. 13, comporta l’applicazione di un importo sanzionatorio, commisurato nel minimo edittale previsto ovvero nel quarto della misura fissa, mentre la diffida ex art. 6 D.Lgs. n. 103/2024 consente al trasgressore di non andare incontro ad alcuna sanzione, la quale troverà applicazione nel solo caso di mancata ottemperanza.

Al fine di coordinare i due istituti occorre fare riferimento a quanto previsto dall’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 6, in ragione del quale la diffida amministrativa ivi disciplinata non si applica a violazioni di obblighi o adempimenti che riguardano la tutela della salute, la sicurezza e l’incolumità pubblica e la sicurezza sui luoghi di lavoro.

Con risposta ad interpello n. 142 del 24 giugno 2024 l’Agenzia delle Entrate ha risposto ad un quesito in merito alla dematerializzazione delle note spese e dei documenti che giustificano le spese sostenute dai dipendenti durante le trasferte di lavoro, in prevalenza per servizi di trasporto tramite taxi, saldati utilizzando, di regola, la carta di credito aziendale.

Il parere fornito dall’Agenzia si può così riassumere:

•        quando si parla di documenti informatici qualsiasi considerazione non può prescindere dal D.Lgs. n. 82/2005 (c.d. Codice dell’Amministrazione Digitale o CAD) e dai relativi decreti attuativi;

•        qualunque documento informatico avente rilevanza fiscale ossia qualunque documento elettronico che contiene la rappresentazione di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti ai fini tributari come le note spese che verranno poi utilizzate per la deducibilità dei relativi costi ai sensi del D.P.R. n. 917/1986, deve possedere, tra le altre, le caratteristiche della immodificabilità, integrità ed autenticità. Laddove tali accorgimenti siano effettivamente presenti, nulla osta a che i documenti analogici siano sostituiti da quelli informatici sopra descritti e che la procedura sia interamente dematerializzata;

•        restano fermi tutti gli ulteriori requisiti legislativamente individuati per la deducibilità dei costi (quali inerenza, competenza e congruità e le modalità di imputazione dei redditi in capo ai soggetti rimborsati);

  • ove sia richiesta la fattura, dal 1° gennaio 2024, è obbligatorio che la stessa sia emessa elettronicamente tramite il c.d. Sistema di Interscambio (SdI).;

•        in merito all’efficacia probatoria delle copie per immagine di documenti analogici, si rammenta che l’art. 22 del D.Lgs. n. 82/2005 (c.d. CAD) stabilisce che, «1 bis. La copia per immagine su supporto informatico di un documento analogico è prodotta mediante processi e strumenti che assicurano che il documento informatico abbia contenuto e forma identici a quelli del documento analogico da cui è tratto, previo raffronto dei documenti o attraverso certificazione di processo nei casi in cui siano adottate tecniche in grado di garantire la corrispondenza della forma e del contenuto dell’originale e della copia”.

Garante per la Protezione dei Dati Personali, provvedimento 6 giugno 2024, n. 338.

Utilizzo di sistemi di riconoscimento facciale per il controllo delle presenze sul posto di lavoro e di un gestionale per il rilievo dei tempi e delle pause di lavoro: violazione della disciplina a tutela dei dati personali.

Il Garante Privacy è intervenuto a seguito del reclamo di un dipendente di una concessionaria di automobili che lamentava il trattamento illecito di dati personali tramite un sistema di rilevazione dei dati biometrici dei lavoratori. Il lavoratore lamentava inoltre l’utilizzo di un software con cui ciascun dipendente era tenuto a registrare gli interventi di riparazione svolti sui veicoli assegnati, i tempi e le modalità di esecuzione dei lavori, nonché le pause e i tempi di inattività.

L’Autorità, in tale occasione, ha ribadito che il trattamento dei dati biometrici non è ad oggi consentito stante il fatto che non esiste alcuna norma che ne preveda l’utilizzo per la rilevazione delle presenze. Il datore di lavoro, infatti, è tenuto ad utilizzare strumenti di controllo meno invasivi tra i quali vi rientra, ad esempio, il badge.

Lo stesso Garante ha ricordato che il consenso prestato dai dipendenti non può in ogni caso essere considerato tale da ammettere la liceità dei suddetti sistemi di controllo altamente invasivi, in quanto vi è una evidente asimmetria tra le parti del rapporto di lavoro.

Anche l’utilizzo del software è stato sanzionato in quanto la Società non aveva fornito riscontri precisi sul trattamento effettuato, sulla natura e la tipologia dei dati trattati, sull’effettiva necessità e proporzionalità del trattamento rispetto alle finalità da perseguire, peraltro senza nemmeno fornire un’adeguata informativa a riguardo ai dipendenti.

Novita’ GIURISPRUDENZIALI

Corte Costituzionale, sentenza 16 luglio 2024, n. 129.

Tutele crescenti: sì alla reintegrazione in caso di mancanze disciplinari tipicizzate dal CCNL con sanzione conservativa.

Era stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2 del D.Lgs. n. 23/2015 (in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 2, 34, 35, 36, 39, 40 41 e 76 Cost.) in un giudizio relativo all’impugnazione, con conseguente richiesta di tutela reintegratoria, di un licenziamento disciplinare motivato da mancanze risultate esistenti, ma che il CCNL applicabile sanzionava con una misura conservativa del rapporto. Con una decisione, che ricostruisce puntualmente il quadro normativo di contenimento della libertà di recesso del datore di lavoro (e relativa disciplina sanzionatoria), nel suo sviluppo nel tempo dalla L. n. 604/66 a quella n. 300/70, dalla L. n. 92/2012 al D.Lgs. n. 23/2015 (applicabile ai neo-assunti dal 7 marzo 2015), la Corte dichiara infondata la questione sotto ogni profilo considerato. Ma, in riferimento all’art. 39 Cost., il giudizio è condizionato ad una interpretazione adeguatrice della norma, con riferimento all’ipotesi in cui la contrattazione collettiva tipicizzi specifiche ipotesi di mancanze disciplinari cui ricolleghi una sanzione conservativa. Attraverso tale interpretazione, la Corte giunge ad equiparate, sul piano sanzionatorio della reintegrazione c.d. minore, questa ipotesi a quella, esplicitamente considerata dalla legge, di insussistenza del fatto materiale contestato.

Corte Costituzionale, sentenza 16 luglio 2024, n. 128.

Jobs Act incostituzionale per assenza della tutela reintegratoria se il fatto che giustifica il licenziamento per giustificato motivo oggettivo risulti insussistente.

Era stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 1 e 2 del D.Lgs. n. 23/2015, nella parte in cui, in presenza dei prescritti requisiti dimensionali aziendali, non prevede la tutela reintegratoria in caso di insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (di dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015). La questione era stata sollevata nel giudizio di impugnazione di un licenziamento, in cui era risultata l’insussistenza del fatto oggettivo che lo avrebbe dovuto giustificare. La Corte, nell’accogliere le questioni con riferimento agli artt. 3, 4 e 35 Cost., ricorda il principio della necessaria causalità del licenziamento, posto a garanzia del lavoratore. In assenza della causa (insussistenza del fatto posto a suo fondamento), il licenziamento degrada a mero recesso senza causa, risultando di conseguenza illegittimo. Da qui il giudizio di irragionevolezza della diversità di trattamento dell’assenza di causa a seconda che questa sia legata a motivi soggettivi (nel qual caso la tutela è di reintegrazione) o a ragioni oggettive (mera tutela indennitaria). Conclusione sostenuta anche dalla possibilità di un uso distorto del licenziamento per causa oggettiva che mascheri una ragione soggettiva, escludendo così il rischio della reintegrazione per insussistenza del fatto contestato.

Corte di Cassazione, ordinanza 8 luglio 2024, n. 18547.

È ritorsivo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo dopo il rifiuto del part-time?

La Corte di Cassazione con tale ordinanza ha chiarito che, mentre il licenziamento motivato dall’esigenza di trasformazione del part time in full time o viceversa va ritenuto ingiustificato alla luce dell’art. 8, comma 1 D.Lgs. n. 81/2015, il licenziamento intimato a seguito del rifiuto del part time deve essere considerato ritorsivo, in quanto mosso dall’esclusivo e determinante fine di eludere il divieto di cui all’art. 8 D.Lgs. n. 81/2015 attraverso una ingiusta ed arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore, che attribuisce al licenziamento il connotato della vendetta.

Al licenziamento ritorsivo, essendo riconducibile ad un caso di nullità del recesso previsto dell’art. 1345 c.c., si applica la tutela reintegratoria.

Corte di Cassazione, ordinanza 8 luglio 2024, n. 18529.

Valida l’impugnazione del licenziamento avvenuta con l’invio via PEC da parte del difensore di un documento Word.

I giudici di merito avevano dichiarato la decadenza del ricorso di impugnazione di un licenziamento in quanto avvenuto per mezzo di invio tramite PEC, da parte del difensore del prestatore di lavoro, di un semplice file Word non sottoscritto e contenente il ricorso, anziché nella forma prescritta dal D.Lgs. n. 82/2005, ossia con l’invio di copia informatica di documento analogico. La Cassazione, nell’accogliere il ricorso del lavoratore, osserva che: (i) la soluzione formalistica adottata dai giudici di merito contrasta con la costante applicazione sostanzialistica dell’art. 6 L. n. 604/1966 praticata dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, quel che conta ai fini della validità dell’atto di impugnazione, è che esso sia idoneo a far conoscere con la dovuta certezza la volontà inequivoca di impugnare il licenziamento; (ii) nel caso di specie, tale idoneità sussiste senz’altro, dal momento che la società datrice non ha mai sostenuto che dal file Word allegato alla PEC non emergesse con chiarezza la volontà di impugnare il licenziamento o che il suo contenuto sia stato modificato; (iii) anche la mancata sottoscrizione del documento deve considerarsi priva di rilevanza, avendo la giurisprudenza di legittimità in più occasioni ribadito il principio per cui la produzione in giudizio di una scrittura, priva di firma da parte di chi avrebbe dovuto sottoscriverla, equivale a sottoscrizione, a condizione che tale produzione avvenga ad opera della parte stessa.

Corte di Cassazione, ordinanza 2 luglio 2024, n. 18094.

Sul licenziamento del disabile assunto obbligatoriamente causato dalla variazione organizzativa del lavoro.

Nella vicenda in esame, la Corte d’appello aveva ritenuto legittimo il licenziamento di un dipendente disabile, il quale era stato in precedenza assunto obbligatoriamente, a causa dell’esternalizzazione del servizio cui era addetto e dell’impossibilità di adibirlo ad altre mansioni, tenuto anche conto delle limitazioni conseguenti alla sua condizione di disabilità. La Cassazione accoglie il ricorso del dipendente e ricorda che il licenziamento per significative variazioni dell’organizzazione del lavoro (come anche per l’aggravarsi delle condizioni di salute) di un disabile assunto obbligatoriamente deve necessariamente seguire, a pena di invalidità (e nel caso esaminato ciò non è avvenuto), la procedura prescritta dal comma 3 dell’art. 10 L. n. 68/1999, che prevede l’accertamento da parte di una speciale Commissione integrata dell’eventuale impossibilità definitiva di reinserire il soggetto all’interno dell’azienda, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro.

Corte di Cassazione, sentenza 27 giugno 2024, n. 17715.

Un caso di licenziamento per abuso del whistleblowing.

La vicenda riguarda l’impugnazione del licenziamento di una dirigente pubblica, intimatole per avere trasmesso una sua segnalazione whistleblowing con gravi accuse a carico di un superiore, poi rivelatesi infondate e per avere successivamente pubblicato su una nota piattaforma social gli frammenti di una conversazione con un collega registrata di nascosto. La Cassazione, nel confermare la legittimità del recesso, si sofferma sui limiti delle tutele (invocate dalla dirigente) che l’ordinamento offre al whistleblower contro possibili ritorsioni, osservando che: (i) sebbene una registrazione di conversazioni tra un dipendente e i suoi colleghi presenti, all’insaputa dei conversanti, non sia in assoluto abusiva, essa appare legittima solo se svolta per finalità difensive in giudizio; (ii) il sistema di tutela del whistleblower opera solo nei confronti di chi segnala notizie di un’attività illecita, senza che sia ipotizzabile una tacita autorizzazione a improprie e illecite azioni di indagine per acquisire tali notizie; (iii) più in generale, deve escludersi l’applicabilità della disciplina di tutela del whistleblowing ogni qualvolta il segnalante agisca per scopi essenzialmente di carattere personale o per contestazioni o rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro nei confronti di superiori; (iv) nel caso di specie, essendo stato accertato che la dirigente, allorché aveva diffuso il contenuto della propria segnalazione e gli stralci della conversazione registrata di nascosto, aveva agito con il solo intento di gettare discredito sui colleghi, non vi è spazio per invocare le tutele previste dalla legge.

Corte di Cassazione, ordinanza 20 giugno 2024, n. 17036.

Repêchage senza obbligo di formazione da parte del datore di lavoro.

L’ordinanza conferma il rigetto delle domande di due dipendenti autisti, dirette all’annullamento del loro licenziamento per soppressione del posto di lavoro in ragione del mancato adempimento del datore di lavoro all’onere di repêchage in mansioni inferiori disponibili di addetto mensa. In proposito, la Corte, essendo stato accertato in giudizio che i ricorrenti, per occupare la mansione disponibile di addetto mensa avrebbero dovuto seguire un periodo annuale di formazione, ribadisce che l’obbligo di repêchage in mansioni equivalenti o inferiori è limitato, nell’art. 2103 c.c., alle attitudini e alla formazione di cui il dipendente sia dotato al momento del divisato licenziamento e non comporta per il datore di lavoro un obbligo di formazione nelle nuove mansioni, ma gli impone unicamente di provare che il lavoratore non abbia la capacità professionale richiesta per ricoprirle.

Corte di Cassazione, ordinanza 14 giugno 2024, n. 16630.

Sulla scadenza del termine stabilito per la revoca del licenziamento.

Una lavoratrice licenziata per giustificato motivo oggettivo, avendo ricevuto un telegramma di revoca del licenziamento il 16° giorno successivo dall’impugnazione dello stesso, aveva dichiarato inefficace la revoca a norma del comma 10 dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori e si era rifiutata di riprendere servizio (esponendosi ad un secondo subordinato licenziamento per giusta causa). Nel giudizio promosso dalla lavoratrice, il problema da risolvere era se i quindici giorni dalla ricezione dell’impugnazione del licenziamento prescritti per l’efficacia della revoca dello stesso dalla norma di legge citata abbiano come scadenza il giorno della ricezione della revoca oppure della semplice spedizione, che nel caso in esame era stata effettuata il giorno precedente.

In proposito, la Corte rileva che il comma 10 dell’art. 18 dello Statuto, stabilisce che la revoca va effettuata nei quindici giorni dalla comunicazione dell’impugnazione del licenziamento medesimo: di conseguenza, poiché il dato testuale non fa alcun riferimento alla comunicazione della revoca all’interessato, induce a ritenere sufficiente il mero invio della stessa al lavoratore nel termine prescritto e non anche la ricezione da parte del medesimo.

Corte di Cassazione, sentenza 12 luglio 2024, n. 19185.

Nullo il licenziamento durante il Covid-19 se il rifiuto del dipendente di passare al nuovo appaltatore è giustificato.

Durante il periodo pandemico dovuto al Covid-19, il legislatore aveva vietato o sospeso temporaneamente i licenziamenti collettivi e quelli per giustificato motivo oggettivo, “salvo le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore…”. In un giudizio in cui la Corte d’appello aveva dichiarato la nullità, con conseguente reintegrazione forte, del licenziamento, in periodo di blocco, di un dipendente che si era rifiutato di trasferirsi presso il nuovo appaltatore, la Cassazione rigetta il ricorso della società e osserva che: (i) ai sensi del primo comma dell’art. 46, D.L. n. 18/2020, per come riformulato dalla Legge di conversione n. 27/2020, la condizione per la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (in vigenza del divieto per Covid-19) è rappresentata dalla nuova assunzione del lavoratore da parte dell’appaltatore subentrante; (ii) tuttavia, se la nuova assunzione non si verifica a causa della mancata accettazione della proposta da parte del lavoratore, il licenziamento potrà considerarsi legittimo se il rifiuto si ponga in contrasto con i principi di correttezza e buona fede; (iii) tale condizione nel caso di specie non è presente, viste le modifiche peggiorative cui sarebbe andato incontro il lavoratore con il passaggio alle dipendenze del nuovo datore di lavoro. Di conseguenza, il licenziamento deve considerarsi illegittimo; (iv) il divieto di licenziamento posto dal citato art. 46, in quanto precetto con un contenuto specifico, preciso e individuato, nonché rispondente a interessi pubblici fondamentali, è da ricondurre alla categoria delle norme imperative, la cui violazione determina la nullità dell’atto di recesso ai sensi dell’art. 1418, co. 1, c.c., con conseguente reintegrazione forte del dipendente.

Corte di Cassazione, ordinanza 3 luglio 2024, n. 18263.

No alla sospensione del dipendente che si è dimesso con preavviso.

Un dirigente, dopo aver reso le proprie dimissioni con preavviso, era stato immediatamente privato da parte dell’azienda del telefono aziendale e del computer oltre ad essere stato invitato a non presentarsi in azienda, fermo restando il pagamento della retribuzione. Non ottenendo chiarimenti, al quinto giorno successivo il dirigente si era dimesso per giusta causa. Nel corso del

giudizio, la Corte d’Appello aveva disatteso la sua domanda di indennità sostitutiva del preavviso, in considerazione della brevità del periodo di cinque giorni di sospensione dal servizio. Questa previsione è stata cassata dalla Corte di Cassazione, la quale rileva che, a parte la considerazione che la sospensione era stata assunta senza determinazione di durata, quest’ultima costituisce solo uno dei possibili indici della gravità del fatto riconducibile alla nozione di giusta causa di dimissioni. Con essa occorre infatti valutare anche le modalità (nel caso in esame, repentine e umilianti) con le quali era stata attuata la sospensione, da ritenere del tutto illegittima in quanto unilaterale e non correlata a colpe del dipendente, a fronte dell’esercizio, da parte di quest’ultimo, del diritto soggettivo di recedere con preavviso.

Tribunale di Milano, sentenza 24 giugno 2024, n. 2195.

Dimissioni per giusta causa: l’INPS non può limitare la concessione della NASpI ad alcune soltanto delle ipotesi legittimanti le dimissioni.

Il Tribunale di Milano ha riconosciuto il diritto a percepire il trattamento di disoccupazione ad un lavoratore che, dopo avere rivolto richieste e diffide al proprio datore di lavoro, si era dimesso per giusta causa motivata dal mancato riconoscimento del corretto inquadramento contrattuale rispetto alle nuove mansioni svolte.

L’Istituto lo aveva negato ritenendo che la giusta causa di dimissioni legittimasse l’accesso alla NASpI solo in casi ritenuti più gravi quali il mancato pagamento della retribuzione, la dequalificazione professionale, le molestie sessuali. Il Tribunale, accertata la sussistenza dei fatti contestati dal lavoratore al datore di lavoro, censura la tesi riduttiva dell’Istituto. Il Giudice nega altresì rilevanza ostativa al fatto che lavoratore e azienda avessero raggiunto un accordo conciliativo, ritenuto anzi conferma della rilevanza della controversia.

Corte d’Appello di Brescia, sentenza 14 giugno 2024, n. 372.

In caso di pluralità di contratti di somministrazione che si susseguono senza soluzione di continuità il termine di impugnazione inizia a decorrere dalla data di cessazione effettiva dell’attività presso l’utilizzatore.

Così ha statuito la Corte d’Appello di Brescia in relazione alla decadenza dall’azione volta ad ottenere la costituzione del rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore, prevista ai sensi del comma 2 dell’art. 39 del D.Lgs. n. 81/2015. Il lavoratore, quindi, ha l’onere di impugnare i contratti di lavoro ritenuti illegittimi entro il termine di 60 giorni che decorre dalla data in cui è effettivamente e definitivamente cessato il rapporto con l’utilizzatore, non avendo alcun rilievo che tale rapporto sia il risultato di un susseguirsi, senza soluzione di continuità, di contratti di lavoro somministrato a termine.

Corte di Cassazione, sentenza 7 giugno 2024, n. 15957.

L’ambiente di lavoro stressogeno legittima il risarcimento del danno.

La Corte d’Appello aveva rigettato la domanda di una dipendente del Ministero dell’Istruzione diretta ad ottenere il risarcimento del danno per le vessazioni subite da colleghi e superiori, evidenziando che dalle risultanze testimoniali risultava che le difficoltà relazionali erano imputabili anche alla stessa lavoratrice. La sentenza tuttavia è stata cassata dai giudici di legittimità, i quali osservano che, in materia di tutela della salute nell’ambiente di lavoro, è stato ripetutamente affermato come un “ambiente lavorativo stressogeno” sia configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2087 c.c.

NEWSLETTER 7/2024

Novita’ normative

Il 5 giugno 2024 è stata firmata l’intesa, con vigenza dal 1° giugno 2024 al 31 dicembre 2027, che ha rinnovato il CCNL Pubblici esercizi, Ristorazione collettiva e commerciale e Turismo.

Tra le numerose novità:

  • aumento contrattuale a regime di 200 euro al 4°livello, da riparametrare per gli altri. La prima tranche di aumento salariale di 50 Euro sarà corrisposta con la retribuzione del mese di giugno 2024; seguiranno altre 4 tranche di 40, 40, 30 e 40 Euro;
  • aumento di 3 Euro del contributo per l’assistenza sanitaria integrativa Fondo EST a carico delle aziende a partire dal 1° gennaio 2027;
  • rafforzamento dell’assistenza sanitaria integrativa e una durata di tre anni e mezzo, con scadenza il 31 dicembre del 2027;
  • rivisitato l’impianto esistente della classificazione del personale, aggiornando le figure professionali rispetto all’evoluzione dei vari comparti.

Significativi gli interventi sulle politiche di genere:

•    inserite misure di contrasto alle molestie e violenze nei luoghi di lavoro;

•    previsti ulteriori 90 giorni di congedo retribuito al 100% per le donne vittime di violenza di genere, in aggiunta ai novanta previsti dalla Legge;

•    definita la possibilità di essere trasferiti in altre sedi di lavoro e di essere escluse da turni disagiati;

•    rinnovata la disciplina dei congedi di maternità e paternità obbligatori e facoltativi;

•    i periodi di congedo di maternità e paternità (alternativo ed obbligatorio), nonché i periodi di congedo parentale, saranno computati ai fini dell’integrale maturazione e corresponsione della tredicesima mensilità. Lo stesso criterio sarà applicato per la quattordicesima mensilità, salvo che i periodi di congedo parentale saranno computati solo a partire dal 1° dicembre 2027;

•    per le lavoratrici e i lavoratori part time è stato confermato un esame congiunto volto al consolidamento del lavoro supplementare svolto in maniera continuativa.

Con risposta ad interpello n. 130 del 6 giugno 2024 l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che l’indennità corrisposta al lavoratore – in seguito a sentenza che ha accertato l’illegittimità del contratto di somministrazione per superamento del limite consentito ex art. 31, comma 2, D.Lgs. n. 81/2015 (e del CCNL applicato) – ha natura risarcitoria e, pertanto, deve essere tassata separatamente.

La predetta indennità, per effetto del citato art. 39, ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore – comprese le conseguenze retributive e contributive – relativo al periodo compreso tra la data in cui il lavoratore ha cessato la propria attività presso l’utilizzatore e la pronuncia del giudice costitutiva del rapporto di lavoro.

Tale indennità, ad avviso dell’Agenzia, è qualificabile quale risarcimento del danno consistente nella perdita di redditi di lavoro dipendente e come tale ha una valenza sostitutiva del reddito non conseguito – ai sensi dell’art. 6 TUIR – e, dunque, deve essere tassata.

Tali somme – precisa l’Agenzia – rientrano nella portata applicativa dell’art. 17, comma 1, lett. b), che prevede la tassazione separata sugli emolumenti arretrati per prestazioni di lavoro dipendente riferibili ad anni precedenti, percepiti per effetto di leggi, di contratti collettivi, di sentenze o di atti amministrativi sopravvenuti o per altre cause non dipendenti dalla volontà delle parti.

Dunque, l’indennità risarcitoria – di cui all’art. 39, comma 2, del D.lgs. 81/2015 – deve essere assoggettata a tassazione separata.

Garante Privacy, provvedimento 6 giugno 2024, n. 364.

Posta elettronica nel contesto lavorativo. Indicazioni del Garante Privacy.

Il Garante per la protezione dei dati personali, con il provvedimento del 6 giugno 2024, fornisce il proprio indirizzo circa i programmi e servizi informatici di gestione della posta elettronica nel contesto lavorativo e trattamento dei metadati.

In particolare il Garante Privacy ha ribadito che:

  • il contenuto dei messaggi di posta elettronica – come pure i dati esteriori delle comunicazioni e i file allegati – riguardano forme di corrispondenza assistite da garanzie di segretezza tutelate anche costituzionalmente (artt. 2 e 15 Cost.), che proteggono il nucleo essenziale della dignità della persona e il pieno sviluppo della sua personalità nelle formazioni sociali. Ciò comporta che, anche nel contesto lavorativo pubblico e privato, sussista una legittima aspettativa di riservatezza in relazione ai messaggi oggetto di corrispondenza;
  • dovrà essere sempre verificata la sussistenza dei presupposti di liceità stabiliti dall’art. 4 della L. 20 maggio 1970, n. 300, nonché il rispetto delle disposizioni che vietano al datore di lavoro di acquisire e comunque trattare informazioni non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore o comunque afferenti alla sua sfera privata (art. 8 della L. 20 maggio 1970, n. 300 e artt. 113 e 114 del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196). La violazione delle norme determina, oltre all’applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie ai sensi dell’art. 83, par. 5, lett. d) del Regolamento, anche il possibile insorgere di responsabilità sul piano penale (cfr. art. 171 del Codice);
  • i tempi di conservazione dei metadati devono in ogni caso essere proporzionati rispetto alle legittime finalità perseguite. In particolare, finalità connesse alla sicurezza informatica e alla tutela del patrimonio informatico giustificano la conservazione dei metadati per un arco temporale congruo rispetto all’obiettivo di rilevare e mitigare eventuali incidenti di sicurezza, adottando tempestivamente le opportune contromisure. Ove i tempi di conservazione non siano definiti in maniera proporzionata alle finalità del trattamento, il titolare del trattamento può incorrere nella violazione del principio di “limitazione della conservazione”, con conseguenti sanzioni.

Ispettorato Nazionale del Lavoro, nota 18 giugno 2024, n. 1091.

Appalto, distacco e somministrazione illeciti. Regime sanzionatorio.

La Direzione Centrale coordinamento giuridico, dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL), con la sopracitata nota ha fornito alcune indicazioni operative relative al regime sanzionatorio in materia di somministrazione, appalto e distacco illeciti, così come previsto dall’articolo 29, del D.L. n. 19/2024.

Segnaliamo in particolare:

  • Importo delle ammende: l’art. 29, comma 4, del D.L. n. 19/2024 ha ripristinato il rilievo penale delle fattispecie sanzionate dall’art. 18 del D.Lgs. n. 276/2003, precedentemente depenalizzate dall’art. 1 del D.Lgs. n. 8/2016, introducendo la pena – alternativa o congiunta – dell’arresto o dell’ammenda. Nella nota dell’INL vengono precisate, l’importo dell’ammenda (che non può, in ogni caso, essere inferiore a euro 5.000 né superiore a euro 50.000) e le relative possibili maggiorazioni.
  • Regime della recidiva: il tema della recidiva riferito alle violazioni di cui al nuovo art. 18 del D.Lgs. n. 276/2003 l’INL evidenzia agli ispettori che, esistendo una parziale sovrapposizione di diverse disposizioni normative (come l’art. 1, comma 445 lett. e), L. n. 145/2018, secondo cui “le maggiorazioni sono raddoppiate ove, nei tre anni precedenti, il datore di lavoro sia stato destinatario di sanzioni amministrative o penali per i medesimi illeciti” e il D.L. n. 19/2024, che ha introdotto all’art. 18 del D.Lgs. n. 276/2003 un nuovo comma 5-quater, secondo il quale “gli importi delle sanzioni previste dal presente articolo sono aumentati del venti per cento ove, nei tre anni precedenti, il datore di lavoro sia stato destinatario di sanzioni penali per i medesimi illeciti”, occorrerà valutare se si tratti di recidiva “semplice” o recidiva “specifica”.
  • Aggravanti per sfruttamento dei minori: ad eccezione dell’ipotesi di esercizio non autorizzato dell’attività di intermediazione con scopo di lucro, anche in presenza dell’aggravante per sfruttamento di minori, andrà applicata la prescrizione ex art. 20, D.Lgs. n. 758/1994 e, in caso di ottemperanza, un’ammenda pari al quarto del sestuplo della sanzione base (aumentata del 20%) o di quella determinata a seguito di recidiva. Inoltre, l’importo da irrogare in concreto dovrà tenere conto dei limiti minimi e massimi sopra indicati.

INPS, circolare 20 maggio 2024, n. 67.

Accesso alla prestazione di disoccupazione NASpI e DIS-COLL in favore dei lavoratori sportivi.

Con la circolare n. 67/2024 l’INPS ha fornito le istruzioni operative per la fruizione delle indennità di disoccupazione (Naspi e Dis-Coll) nel lavoro sportivo. Le indicazioni completano il quadro della nuova disciplina introdotta dalla riforma con il D.Lgs n. 36/2021, nel quale l’INPS conferma l’estensione della disciplina Naspi per i lavoratori sportivi subordinati iscritti al nuovo Fondo pensione dei lavoratori sportivi dal 1° luglio 2023, non rilevando il settore professionistico o dilettantistico in cui costoro svolgono l’attività.

Novita’ GIURISPRUDENZIALI

Corte di Cassazione, sentenza 17 giugno 2024, n. 16674.

Il tempo preparatorio della prestazione è in orario di lavoro se si svolge sotto la direzione datoriale.

La Suprema Corte, con la citata sentenza ha chiarito che deve considerarsi invalida, in quanto contraria a norma imperativa, la clausola di un accordo sindacale aziendale che preveda una franchigia temporale, entro la quale sia posto a carico dei lavoratori il tempo necessario per il trasferimento dal luogo di ricovero del mezzo aziendale a quello del primo intervento nonché, al termine della giornata di lavoro, per il tragitto inverso.

Nel caso sottoposto al giudizio della Corte, in forza di un accordo sindacale aziendale, veniva statuito come il tempo della prestazione lavorativa iniziasse al momento di arrivo dei tecnici presso il primo cliente e terminasse alla fine dell’intervento presso l’ultimo; pertanto, il tempo di viaggio necessario per recarsi al domicilio del cliente e quello per tornare alla sede aziendale non veniva più retribuito. Sulla scorta del dettato dell’art. 1 comma 2 del D.Lgs. 66/2003, in virtù del quale rientra nel tempo di lavoro e di conseguenza deve essere retribuito ogni momento in cui il lavoratore sia a disposizione del datore di lavoro nello svolgimento delle sue mansioni, compresi i tempi per gli spostamenti necessari, la Corte è giunta ad affermare la nullità dell’accordo summenzionato, in quanto contrario a norma imperativa.

In particolare, il tempo preparatorio della prestazione lavorativa rientra nell’orario di lavoro laddove le relative operazioni si svolgano sotto la direzione e il controllo del datore di lavoro, con conseguente nullità degli accordi collettivi che prevedano una franchigia temporale, entro la quale i tempi necessari per gli spostamenti siano posti a carico dei lavoratori.

Corte di Cassazione, sentenza 6 giugno 2024, n. 15845.

Licenziamento per superamento del periodo di comporto: escluse dal calcolo le giornate in cui il lavoratore accede al Pronto Soccorso.

La Cassazione afferma che la clausola del CCNL, nello specifico l’art. 70 del CCNL Carta Industria, che esclude dal computo del comporto le giornate di “ricovero ospedaliero e day hospital” va interpretata nel senso di non conteggiare, a tal fine, tutto il tempo in cui il lavoratore è ricoverato presso una struttura sanitaria, anche se solo per una giornata o per una parte di essa, per essere sottoposto a indagini, cure e assistenza non eseguibili a domicilio.

Corte di Cassazione, ordinanza 3 giugno 2024, n. 15391.

Illegittimo il licenziamento, se le contestazioni sono tratte dal Telepass in uso al dipendente.

Nel caso specifico, un dipendente è stato licenziato per inadempimenti legati al suo orario e luogo di lavoro, dati acquisiti attraverso il Telepass. Il Tribunale di Fermo ha inizialmente convalidato il licenziamento, ma la Corte d’Appello di Ancona ha ribaltato questa decisione, considerando i dati del Telepass inutilizzabili per mancanza di una specifica informativa sull’uso a fini di controllo.

L’applicazione di questa norma ha portato la Cassazione a precisare che il Telepass, qualora installato su auto aziendali adibite a specifici servizi, assume la funzione di strumento di lavoro. Tuttavia, le informazioni raccolte tramite il dispositivo sono utilizzabili per fini disciplinari solo se il lavoratore è stato adeguatamente informato su come il dispositivo sarà usato per monitorare le sue attività.

La Cassazione distingue tra i “controlli difensivi” – indirizzati alla tutela dei beni aziendali e alla prevenzione di comportamenti illeciti, che possono essere attivati solo in presenza di un fondato sospetto e devono essere proporzionati e non invasivi – e l’uso normale di strumenti tecnologici come il Telepass, che, seppur potenzialmente utilizzabile per controlli, necessita di specifica informativa.

In conclusione, se il datore di lavoro vuole utilizzare il Telepass per monitorare le attività del dipendente, deve prima informare il dipendente in modo chiaro e dettagliato. In assenza di tale informativa, i dati raccolti non sono ammissibili per giustificare decisioni disciplinari come un licenziamento.

Corte di Cassazione, ordinanza interlocutoria 29 maggio 2024, n. 15030 alla Corte costituzionale l’esclusione dei dirigenti dal “blocco” dei licenziamenti individuali per g.m.o. durante la pandemia da Covid-19.

La Corte d’appello aveva dichiarato la nullità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un dirigente d’azienda, in quanto disposto ad aprile 2020, nella vigenza del “blocco” dei licenziamenti (collettivi e individuali per g.m.o.) durante la pandemia da Covid-19, introdotto dall’art. 46, D.L. 18/20 e successive proroghe e che i giudici di merito avevano ritenuto applicabile anche ai dirigenti.

L’interpretazione dei giudici di merito non è condivisa dalla Cassazione, che osserva: (i) nel definire l’ambito applicativo del divieto dei licenziamenti individuali, il legislatore dell’emergenza ha fatto espresso riferimento al recesso per “giustificato motivo oggettivo disposto ai sensi dell’art 3 della legge 15 luglio 1966 n. 604”, che non menziona i dirigenti, quindi esclusi dal successivo divieto; (ii) al contrario, il blocco dei licenziamenti collettivi riguarda senz’altro anche i dirigenti, perché anche a costoro si applica la L. 223/91, le cui procedure sono state temporaneamente vietate dal legislatore dell’emergenza pandemica; (iii) per i dirigenti, si registra, quindi, un’asimmetria nel regime del blocco dei licenziamenti, che non appare ragionevole, tenuto anche conto che il sacrificio così imposto ai datori di lavoro è stato bilanciato attraverso una serie di misure economiche che presuppongono tutte la portata generalizzata del blocco dei licenziamenti collettivi e individuali per ragioni oggettive, a prescindere dalla categoria legale di inquadramento dei dipendenti altrimenti licenziabili; (iv) l’asimmetria non è tuttavia superabile attraverso l’interpretazione costituzionalmente conforme della norma emergenziale come proposta dalla Corte d’appello, che non è compatibile con il dato letterale assolutamente univoco dell’art. 46, né, d’altro canto, attraverso un’applicazione analogica della norma, il cui carattere eccezionale è evidente; (v) non resta quindi che investire della questione la Corte costituzionale, perché si pronunci sulla compatibilità della norma con l’art. 3 della Costituzione.

Corte di Cassazione, ordinanza 28 maggio 2024, n. 14848.

Va retribuito il tempo necessario a percorrere il tragitto dall’ingresso dell’azienda fino alla postazione di lavoro.

La Corte d’appello aveva riconosciuto il diritto dei dipendenti di un’azienda a vedersi retribuiti, quale tempo effettivo di lavoro, i 5 minuti dagli stessi impiegati per raggiungere la postazione di lavoro, e fare login sul proprio personal computer, dopo avere varcato l’ingresso della sede aziendale (e viceversa al termine della prestazione). Nel confermare la decisione di merito, la Cassazione osserva che: (i) in giurisprudenza è consolidato l’orientamento per cui è da considerarsi orario di lavoro l’arco temporale che il lavoratore trascorre all’interno dell’azienda nell’espletamento di attività prodromiche ed accessorie allo svolgimento delle mansioni affidategli, ove il datore di lavoro non provi che egli sia ivi libero di autodeterminarsi ovvero non assoggettato al potere gerarchico; (ii) a tale principio si è correttamente conformata

la Corte d’appello, la quale ha ritenuto accertato che per i dipendenti fosse necessario e obbligatorio fare il tragitto dall’ingresso fino alla postazione di lavoro e compiere ogni altra attività preliminare cui essi sono tenuti in base all’organizzazione predisposta dal datore di lavoro.

Corte di Cassazione, sentenza 22 maggio 2024, n. 14307.

Discriminatorio il licenziamento del disabile in mancanza di “accorgimenti ragionevoli”.

La Corte di Cassazione, con la citata sentenza è tornata ad esaminare la delicata questione legata alla qualificazione dell’illegittimo licenziamento del lavoratore disabile per motivo oggettivo consistente nella sopravvenuta inidoneità fisica o psichica alla mansione e – sposando l’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza nazionale e comunitaria – ha dichiarato discriminatorio (con conseguente applicazione della tutela reintegratoria piena) il provvedimento espulsivo senza previo tentativo del datore di lavoro di ricollocare in azienda il lavoratore e di adottare gli accorgimenti organizzativi ragionevoli di cui all’ all’art. 3, comma 3-bis D.Lgs. n. 216/2003 che non richiedano eccessivi oneri finanziari.

Corte di Cassazione, sentenza 22 maggio 2024, n. 14301.

Nullo il licenziamento a causa di matrimonio della lavoratrice, anche se già di fatto convivente.

Il giudizio promosso da una lavoratrice per ottenere la dichiarazione di nullità del licenziamento intimatole nel 2019 all’interno del periodo di un anno dalle pubblicazioni di matrimonio da modo alla Cassazione, nel confermare la sentenza dei giudici di appello di accoglimento delle domande, di ricordare: (i) che la nullità del licenziamento della donna lavoratrice a causa di matrimonio prescinde dalla considerazione della buona fede del datore di lavoro (che, ad es. come nel caso di specie, sia a conoscenza del fatto che il matrimonio intervenga in una situazione di precedente convivenza di fatto) ed è esclusivamente legato al fatto che esso cada nel periodo di un anno dalle pubblicazioni di matrimonio, se questo poi segua; (ii) che tale presunzione di collegamento del licenziamento col matrimonio può vincersi per legge unicamente in tre casi: colpa grave della lavoratrice, costituente giusta causa di licenziamento, cessazione dell’attività di azienda e scadenza del termine direttamente o indirettamente apposto al contratto di lavoro; (iii) che in questo come negli altri casi di nullità del licenziamento la tutela reintegratoria piena esclude la detrazione dell’”aliunde percepiendum” (che nel caso sarebbe stato rappresentato, secondo la società, da ciò che la lavoratrice avrebbe guadagnato accettando la proposta di revoca del licenziamento proveniente dalla società); (iv) che questa disciplina non discrimina gli uomini lavoratori, perché la diversità di trattamento non è giustificata dal genere, ma dalla realtà sociale che rende necessarie misura di protezione inutili per gli uomini.

Corte di Cassazione, sentenza 21 maggio 2024, n. 14089.

Ancora sulla composizione della retribuzione feriale.

Secondo il diritto comunitario, come interpretato dalla Corte di giustizia, vincolante nella Comunità, la retribuzione del periodo di ferie deve comprendere qualsiasi importo che si ponga in rapporto di collegamento con l’esecuzione delle mansioni lavorative e che sia correlato allo status personale e professionale del lavoratore. Ciò perché la previsione di importi minori potrebbe costituire per il lavoratore un deterrente all’esercizio del suo fondamentale diritto al riposo annuale. Invocando ancora una volta questo principio, la Cassazione ha accolto le domande del macchinista di una società ferroviaria, relative alla inclusione nella retribuzione feriale dell’indennità per assenza dalla residenza e della parte variabile dell’indennità di utilizzazione/condotta, ambedue tipiche delle mansioni, da calcolare nella media dei 12 mesi precedenti la fruizione dei singoli periodi di ferie.

Corte di Cassazione, ordinanza 20 maggio 2024, n. 13934.

Anche fruire dei permessi per assistere un parente disabile costituisce fattore di rischio di discriminazione nel lavoro.

Nel giudizio di impugnazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo di una dipendente fruente dei permessi di cui alla L. n. 104/1992 per assistere il marito disabile grave, la Corte di cassazione annulla con rinvio ad altro collegio di giudici di merito la sentenza della Corte d’appello per non aver tenuto conto, nella valutazione della fattispecie (che aveva condotto all’accoglimento parziale della domanda con applicazione peraltro della sola tutela indennitaria), della disciplina antidiscriminatoria di cui al D. Lgs. n. 216/2003. In proposito, la Corte rileva anzitutto che nel testo di tale decreto (come del resto nella direttiva comunitaria di cui esso costituisce attuazione) la condizione di handicap non è tutelata con esclusivo riferimento al lavoratore handicappato, ma la tutela si estende anche a coloro che per legge lo assistono, costituendo tale situazione un fattore di rischio di discriminazione in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Ciò posto, secondo la Corte, le circostanze di fatto acquisite avrebbero meritato la verifica da parte della Corte d’appello di una possibile correlazione significativa tra il fattore di rischio indicato e il licenziamento e quindi del carattere discriminatorio di quest’ultimo, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria piena.

Corte di Cassazione, ordinanza 15 maggio 2024, n. 13479.

Irriducibili dal giudice le sanzioni disciplinari inflitte dal datore di lavoro.

Il Tribunale di Grosseto, giudicando della legittimità della sanzione di cinque giorni di sospensione di una lavoratrice, ritenuti accertati i fatti contestati e valutata peraltro eccessiva la sanzione

conseguente, l’aveva ridotta a due giorni di sospensione. La sentenza era stata riformata in appello, con l’annullamento della sanzione, sempre perché ritenuta sproporzionata. Su ricorso della società, che originariamente, agendo in giudizio, aveva chiesto l’accertamento della legittimità della sanzione di cinque giorni “o quella che sarà ritenuta di giustizia”, la Cassazione, richiamando un proprio precedente del 2019, rigetta il ricorso della società, affermando che l’irrogazione delle sanzioni disciplinari rientra nel potere organizzativo e direttivo dell’imprenditore, al quale il giudice non può sostituirsi rimodulandone la misura, anche solo in senso riduttivo, salvo che: a) la sanzione abbia illegittimamente superato il minimo edittale; b) oppure sia lo stesso imprenditore a chiedere in giudizio la riduzione della sanzione a una misura determinata (e non genericamente, come nel caso di specie).

Corte di Cassazione, ordinanza 7 maggio 2024, n. 12393.

Licenziamento tardivo.

La Corte ha ritenuto difettare del requisito della tempestività il (secondo) licenziamento irrogato ad un dipendente appena reintegrato, a seguito di contestazione elevata successivamente alla reintegra ed avente ad oggetto fatti di cui il datore di lavoro era venuto a conoscenza già nel corso del giudizio relativo al primo licenziamento. Secondo la Corte, il datore avrebbe dovuto procedere senza ritardo alla contestazione degli addebiti anche nelle more del giudizio, in quanto il primo licenziamento (illegittimo) non poteva considerarsi idoneo a risolvere il rapporto che, quindi, doveva considerarsi giuridicamente persistente benché sospeso. Sulla scia di quanto stabilito dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 3098/2017, la Corte ha anche ribadito che la tardività della contestazione costituisce un vizio di natura sostanziale, che determina l’applicazione della tutela indennitaria c.d. “forte” ai sensi dell’art. 18 comma 5 dello Statuto dei Lavoratori, anziché quella c.d. debole, ex art. 18 comma 6, che spetta in caso di violazioni di natura procedurale.

Tribunale di Milano, sentenza 22 maggio 2024, n. 988.

Diritto all’APE sociale equiparato a quello alla Naspi, per la lavoratrice che abbia risolto consensualmente il rapporto per impossibilità di accettare un trasferimento.

Il Tribunale condanna l’Ente previdenziale a riconoscere il diritto a percepire l’anticipo pensionistico a una lavoratrice la quale, a seguito della chiusura dello stabilimento presso cui era adibita, aveva rifiutato il trasferimento presso altra sede aziendale distante quasi 300 km dall’abitazione. Su tali basi la dipendente e il datore avevano deciso di procedere con la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro. Il Tribunale ha ritenuto irragionevole ed illegittima la posizione assunta dall’INPS che, stante l’asserita tassatività delle fattispecie previste per l’accesso all’APE sociale, sosteneva che la risoluzione consensuale del rapporto non fosse tra queste. Per il Giudice

non sussistono motivi per discostarsi da quanto accade nei casi di domanda di NASpI, nei quali lo stesso Ente convenuto riconosce comunque il requisito dell’involontarietà della disoccupazione – e quindi la relativa indennità – quando vi è rifiuto del lavoratore al trasferimento oltre i 50 km dalla propria residenza.

Tribunale di Roma, sentenza 4 marzo 2024, n. 2615.

L’influencer che promuove stabilmente e con continuità i prodotti di un’azienda è inquadrabile come agente di commercio.

Il Tribunale di Roma respinge l’impugnazione di un verbale ispettivo che aveva accertato la natura di contratto di agenzia, con i conseguenti obblighi di versamento contributivo, per alcuni rapporti contrattuali costituiti da un’impresa che vende integratori alimentari mediante tecniche di e-commerce affidate a influencer. Il Tribunale accerta il carattere della stabilità del rapporto di promozione e, pur rammentando che l’assegnazione all’agente di una specifica zona di vendita non è elemento essenziale del contratto, ritiene che per zona possa intendersi non solo quella geografica ma anche una porzione di mercato, che nel caso dell’influencer è costituita dalla comunità dei followers che lo seguono. L’evoluzione tecnologica e delle modalità di vendita sul mercato consente di inserire la figura professionale dell’influencer, in grado di influenzare le scelte di mercato di coloro che lo seguono, nell’ambito dello schema contrattuale dell’agente, quando l’attività di promozione non sia del tutto episodica, ma concordata stabile e continuativa. Dovuto dall’impresa anche il pagamento del FIRR, in forza del degli accordi economici collettivi del 1957 e 1958 estesi erga omnes dai decreti emanati in attuazione della legge Vigorelli del 1959.

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NEWSLETTER n. 6/2024

Novita’ normative

Con la L. 29 aprile 2024, n. 56 (G.U. n. 100 del 30.4.2024, S.O. n. 19) viene convertito il D.L. 2 marzo 2024, n. 19, recante ulteriori disposizioni urgenti per l’attuazione del PNRR. Sulle previsioni in materia di lavoro in sede di conversione sono state introdotte alcune novità.

Diverse modifiche sono state apportate in materia di appalti pubblici, al fine di contrastare il lavoro irregolare.

  • È stato poi riscritto l’art. 27: dal 1° ottobre 2024 sono tenuti al possesso della “patente” le imprese e i lavoratori autonomi che operano nei cantieri temporanei o mobili, ad esclusione di coloro che effettuano mere forniture o prestazioni di natura intellettuale. La patente è rilasciata in formato digitale dall’Ispettorato nazionale del lavoro subordinatamente al possesso dei seguenti requisiti:

a) iscrizione alla Camera di commercio;

b) adempimento, da parte dei datori di lavoro, dei dirigenti, dei preposti, dei lavoratori autonomi e dei prestatori di lavoro, degli obblighi formativi;

c) possesso del documento unico di regolarità contributiva in corso di validità;

d) possesso del documento di valutazione dei rischi;

e) possesso della certificazione di regolarità fiscale;

f) avvenuta designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione.

  • È revocata in caso di dichiarazione non veritiera sulla sussistenza di uno o più requisiti, accertata in sede di controllo successivo al rilascio. Decorsi dodici mesi dalla revoca, l’impresa o il lavoratore autonomo possono richiederne il rilascio di una nuova.
  • È dotata di un punteggio iniziale di trenta crediti e consente di operare nei cantieri temporanei o mobili con una dotazione pari o superiore a quindici crediti. Con apposito decreto saranno individuati i criteri di attribuzione di crediti ulteriori rispetto al punteggio iniziale nonché le modalità di recupero dei crediti decurtati. Il punteggio della patente subisce le decurtazioni correlate alle risultanze dei provvedimenti definitivi emanati nei confronti dei datori di lavoro, dirigenti e preposti delle imprese o dei lavoratori autonomi. Se nell’ambito del medesimo accertamento ispettivo sono contestate più violazioni, i crediti sono decurtati in misura non eccedente il doppio di quella prevista per la violazione più grave.
  • Se nei cantieri si verificano infortuni da cui deriva la morte del lavoratore o un’inabilità permanente, assoluta o parziale, l’Ispettorato nazionale del lavoro può sospendere, in via cautelare, la patente fino a dodici mesi.
  • La patente con punteggio inferiore a quindici crediti non consente alle imprese e ai lavoratori autonomi di operare nei cantieri temporanei o mobili, ma in tal caso è consentito il completamento delle attività oggetto di appalto o subappalto in corso di esecuzione, quando i lavori eseguiti sono superiori al 30% del valore del contratto.
  • In mancanza della patente, alle imprese e ai lavoratori autonomi si applica una sanzione amministrativa pari al 10% del valore dei lavori e, comunque, non inferiore ad Euro 6.000, nonché l’esclusione dalla partecipazione ai lavori pubblici per sei mesi. Le stesse sanzioni si applicano alle imprese ed ai lavoratori autonomi che operano con una patente con punteggio inferiore a quindici crediti.
  • Le informazioni relative alla patente sono annotate in un’apposita sezione del Portale nazionale del sommerso.
  • Non sono tenute al possesso della patente le imprese in possesso dell’attestazione di qualificazione SOA, in classifica pari o superiore alla III.
  • Un’ulteriore novità è contenuta nell’art. 29, in cui è stato inserito il comma 1-bis, secondo cui al personale impiegato nell’appalto di opere o servizi e nel subappalto spetta un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale stipulato dalle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, applicato nel settore e per la zona strettamente connessi con l’attività oggetto dell’appalto e del subappalto
  • Infine, una novità è stata introdotta in tema di somministrazione di lavoro. La L. n. 56/2024 specifica che l’importo delle pene pecuniarie proporzionali così come sinora previsto dall’art. 18 del D.Lgs. 276/2003 non potrà in ogni caso essere inferiore a euro 5.000 né superiore ad euro 50.000.

D.Lgs 62/2024: nuova terminologia in materia di disabilità.

Il 14 maggio 2024 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 111 il D.Lgs. n 62 del 3 maggio 2024 contenente la definizione della condizione di disabilità, della valutazione di base, di accomodamento ragionevole, della valutazione multidimensionale per l’elaborazione e attuazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato.

La nuova terminologia in materia di disabilità, volta ad una valutazione congrua, trasparente ed agevole, prevede la sostituzione all’interno delle normative di legge delle parole:

  • «handicap», ovunque ricorre, con: «condizione di disabilità»;
  • «persona handicappata», «portatore di handicap», «persona affetta da disabilità», «disabile» e «diversamente abile», ovunque ricorrono, con: «persona con disabilità»;
  • «con connotazione di gravità» e «in situazione di gravità», ove ricorrono, con: «con necessità di sostegno elevato o molto elevato»;
  • «disabile grave», con: «persona con necessità di sostegno intensivo».

Il Decreto, composto da 40 articoli, contiene disposizioni sul procedimento volto al riconoscimento della condizione di disabilità (art. 5-17) e sul progetto di vita individuale personalizzato e partecipato delle persone con riconosciuta disabilità (artt. 18-32).

Ispettorato Nazionale del Lavoro, nota 8 maggio 2024, n. 862.

Revoca delle dimissioni protette a seguito di convalida ai sensi dell’art. 55, comma 4, D.Lgs. n. 151/2001.

In base all’articolo 55, comma 4, del D.Lgs. n. 151/2001, la risoluzione consensuale del rapporto o la richiesta di dimissioni presentate da una lavoratrice durante la gravidanza e da uno dei due genitori entro i primi tre anni di vita dei figli (o di ingresso in famiglia se adottati o affidati), devono essere obbligatoriamente convalidate dall’Ispettorato Territoriale del Lavoro.

A fronte di questa disposizione normativa era sorto il dubbio se e come fosse possibile revocare tali dimissioni. Con la nota n. 862/2024, su conforme parere del Ministero del Lavoro, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro afferma che le dimissioni possono essere revocate prima dell’emanazione del provvedimento di convalida, ma anche successivamente allo stesso purché prima della decorrenza delle dimissioni e della effettiva risoluzione del rapporto. Tuttavia anche la decisione di revocare le dimissioni deve essere soggetta a verifica da parte dell’Ispettorato che, valutata attentamente la fondatezza delle motivazioni addotte, provvederà all’annullamento della convalida. Inoltre, se il funzionario riterrà che ci siano stati comportamenti illeciti o discriminatori del datore di lavoro potrà effettuare accertamenti ispettivi.

La revoca non è possibile se le dimissioni sono state convalidate e hanno prodotto effetto. In tal caso la ripresa del rapporto di lavoro può avvenire solo con il consenso del datore di lavoro.

Novita’ GIURISPRUDENZIALI

Corte di Cassazione, ordinanza 17 maggio 2024, n. 13764.

Licenziamento per giusta causa.

La Corte di Cassazione ha stabilito che il post denigratorio nei confronti dell’azienda pubblicato su Facebook dal lavoratore, dopo la reintegra di questi e prima della ripresa dell’attività lavorativa, costituisce giusta causa di licenziamento.

Nel caso di specie, il dipendente aveva impugnato il licenziamento intimatogli a causa del contenuto denigratorio pubblicato tramite social subito dopo la reintegrazione disposta dal Tribunale.

La Corte d’Appello aveva rigettato la domanda, considerando la condotta tanto grave da ledere il rapporto di fiducia. Nel confermare la pronuncia di merito, i giudici sottolineano che un illecito commesso nel lasso temporale che intercorre tra la lettura del dispositivo della sentenza di reintegra e l’effettiva ripresa dell’attività lavorativa va valutata da un punto di vista disciplinare.

Corte di Cassazione, sentenza 14 maggio 2024, n. 13181.

Servizi pubblici essenziali: l’astensione dal lavoro con certificati medici falsi costituisce sciopero.

Nell’ambito dei servizi pubblici essenziali, costituisce sciopero, come tale soggetto alla disciplina di cui alla legge n. 146 del 1990, l’astensione dal lavoro che si realizzi, a fini di rivendicazione collettiva, mediante presentazione di certificazioni mediche che, secondo l’accertamento del giudice del merito, risultino fittizie e finalizzate a giustificare solo formalmente la mancata presentazione al lavoro, senza reale fondamento in un sottostante stato patologico, ma in realtà siano da collegare ad uno stato di agitazione volto all’astensione collettiva dal lavoro nella sostanza proclamato dalle OO.SS. in modo “occulto”. Questo è quanto deciso dalla Sezione lavoro della Cassazione civile con la sentenza n. 13181/2024.

Corte di Cassazione, sentenza 9 maggio 2024, n. 12688.

Licenziamento del whistleblower: la giusta causa va valutata anche considerando le denunce di cui è autore.

Con tale sentenza la Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso del dirigente, ha cassato con rinvio la sentenza di appello che aveva dichiarato la legittimità del licenziamento per giusta causa irrogato.

Secondo la Cassazione la Corte territoriale aveva errato in quanto aveva mancato di considerare il contesto complessivo all’interno del quale si è inserito il provvedimento espulsivo: la tempistica del licenziamento rispetto all’avvenuta conoscenza da parte dei vertici aziendali delle denunce rese dal dirigente e il progressivo ridimensionamento delle sue attribuzioni.

Di conseguenza, seppur la condotta contestata al dirigente non era in sé direttamente collegabile alle denunce dallo stesso presentate, tuttavia, nel delineare l’effettiva responsabilità disciplinare del dirigente, la Corte territoriale avrebbe dovuto tener conto del whistelblowing di cui questo era autore, dell’esautoramento di attribuzioni a suo danno e delle tempistiche tra tali fatti e il relativo licenziamento.

Avendo la Corte territoriale mancato di considerare tali aspetti, la Corte di Cassazione accoglie il ricorso del dirigente e cassa la sentenza con rinvio.

Corte di Cassazione, ordinanza 6 maggio 2024, n. 12152.

Ancora sul licenziamento disciplinare per uso improprio delle assenze per malattia.

Confermando la sentenza d’appello, che aveva reintegrato un lavoratore licenziato per utilizzo improprio delle assenze di malattia, in quanto le attività accertate non erano risultate incompatibili con lo stato di malattia o comunque tali da ritardare la ripresa del lavoro, la Cassazione ribadisce il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, in materia di licenziamento disciplinare per svolgimento di altra attività durante l’assenza per malattia, grava sul datore di lavoro la prova che la malattia sia simulata ovvero che l’attività svolta nei giorni di assenza sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio.

Corte di Cassazione, ordinanza 19 aprile 2024, n. 10679.

Un caso di patto di non concorrenza nullo per indeterminatezza del compenso.

Il patto, riguardante il dipendente di una banca con mansioni di private banker e incremento ordini, prevedeva la non concorrenza per 20 mesi dopo la cessazione del rapporto, con un compenso di 5.000 euro all’anno, peraltro non più spettanti in caso di mutamento di mansioni del lavoratore, il quale viceversa sarebbe restato comunque vincolato al patto per 12 mesi. Il bancario si era dimesso dopo sei mesi, passando a una banca concorrente. Da qui l’azione giudiziaria della prima banca per il risarcimento danni. Sia i giudici di merito che la Cassazione le danno torto, dichiarando la nullità del patto di non concorrenza per indeterminatezza del compenso, il cui ammontare effettivo dipendeva dal comportamento unilaterale della banca in ordine all’eventuale (imprevedibile al momento della stipula del patto) esercizio da parte sua dello ius variandi delle mansioni.

Corte di Cassazione, ordinanza 18 aprile 2024, n. 10571.

Pubblico impiego: si applica il limite di 36 mesi indipendentemente dalle modalità di assunzione.

La Corte di Cassazione ha stabilito che nel caso di successione di contratti a termine, il limite massimo di trentasei mesi di durata complessiva, oltre il quale la reiterazione è da considerarsi abusiva, trova applicazione indipendentemente dalle modalità attraverso cui avviene l’assunzione a termine. Ciò è giustificato dal concetto di “medesima occasione lavorativa” sancito dall’art. 5, comma 4-bis del D.Lgs. n. 368 del 2001, il quale si riferisce alla “mansione equivalente”, indipendentemente dalla modalità di selezione del lavoratore. Pertanto, la valutazione si basa sulla sostanziale identità dell’attività lavorativa svolta e non sulle modalità di assunzione.

Corte di Cassazione, ordinanza 15 aprile 2024, n. 10065.

Attenzione al luogo in cui si stipula una conciliazione sindacale.

Un dipendente aveva impugnato la conciliazione raggiunta in sede aziendale con l’assistenza del sindacato, con la quale, a fronte della rinuncia della datrice di lavoro a procedere ad un licenziamento collettivo, aveva rinunciato per due anni al 20% della retribuzione, come consentito dall’ultimo testo dell’art. 2103 c.c.

La Cassazione gli dà ragione, rilevando che la norma citata affida, nelle conciliazioni definitive (ex art. 2113, comma 4 c.c.) su diritti indisponibili, la protezione del lavoratore non solo all’assistenza del rappresentante sindacale e/o alla terzietà di chi vi presiede, ma anche al luogo in cui la conciliazione avviene (la sede giudiziale, le commissioni di conciliazione presso l’ispettorato del lavoro, le sedi sindacali e i collegi di conciliazione e arbitrato).

Si tratta di un elenco tassativo, sia perché si tratta di sedi collegate all’organo deputato alla conciliazione sia in ragione della finalità di assicurare al lavoratore un ambiente neutro, estraneo all’influenza della controparte sindacale. Da qui la dichiarazione di nullità della conciliazione perché stipulata nella sede dell’azienda.

Corte di Cassazione, ordinanza 4 aprile 2024, n. 8956.

Assenze ingiustificate mai di domenica.

Un’insegnante statale di scuola primaria era stata licenziata per l’assenza ingiustificata di quattro giorni nel quadrimestre, in applicazione del D.Lgs. n. 165/2001 che prevede tale sanzione in caso di assenze ingiustificate anche non continuative per un numero di giornate superiore a tre in un biennio.

In giudizio, era risultato che una delle quattro giornate era caduta di domenica, che, unitamente al lunedì successivo, era stata considerata assenza ingiustificata perché la ricorrente aveva tardato due giorni dal chiedere la proroga del certificato di malattia dopo la sua scadenza. Pur riconoscendo che tale ritardo costituisce un inadempimento alla regola per cui la proroga di un certificato di malattia deve essere richiesta il giorno immediatamente successivo alla scadenza originaria, la Corte di Cassazione afferma che ciò non significa che, se il giorno di ritardo è una domenica, questa vada considerata come giorno di assenza ai fini disciplinari, proprio perché la domenica il dipendente non deve e non può effettuare la prestazione.

Tribunale di Bologna, 22 febbraio 2024.

Illegittimo il licenziamento del lavoratore agli arresti se l’impossibilità di svolgere la prestazione è temporanea e il datore può efficacemente sostituirlo.

Il Tribunale accoglie il ricorso del lavoratore sottoposto a provvedimenti restrittivi della libertà personale, che era stato licenziato dal datore di lavoro per giustificato motivo oggettivo, consistente nel venir meno dell’interesse a ricevere la prestazione lavorativa stante l’assenza forzata. Secondo il Giudice il recesso datoriale è illegittimo in quanto intimato dopo appena un mese di assenza del dipendente, senza peraltro attendere l’esito della richiesta di autorizzazione al lavoro avanzata dallo stesso al PM. Il Giudice ha tenuto in maggior considerazione il fatto che la società potesse agevolmente sopperire all’assenza avendo a disposizione vari dipendenti “jolly”, adibiti proprio alla sostituzione dei colleghi in caso di necessità. La società è stata quindi condannata a reintegrare in servizio il ricorrente e a corrispondergli un’indennità risarcitoria pari alla retribuzione maturata dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione.

NEWSLETTER n. 5/2024

Novità GIURISPRUDENZIALI

Corte di Appello di Roma sentenza 2 aprile 2024, n. 1294.

La Corte di Appello di Roma ha applicato il principio di recente chiarito dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 22 del 22.02.2024, affermando che anche il dirigente licenziato in violazione della procedura disciplinare ex art. 7 Statuto dei lavoratori non ha diritto alla reintegrazione ma solo all’indennità prevista dal CCNL.

Incorre in una violazione delle garanzie procedimentali di cui all’art. 7 dello Statuto il datore di lavoro che si rifiuta di convocare il dirigente il quale ha richiesto di essere ascoltato nell’ambito di una procedura disciplinare, anche se tale richiesta viene formulata dopo che erano già state rese le prime deduzioni scritte, ma prima che sia spirato il termine ultimo per le difese.

Ad ogni modo, non è prevista alcuna reintegrazione per i casi di violazione delle garanzie procedimentali di cui all’articolo 7 Statuto: in tali casi si profila esclusivamente un’ipotesi di nullità del licenziamento per violazione di norma imperativa.

Corte d’Appello di Trieste, 17 gennaio 2024

Le dimissioni telematiche ai sensi dell’art. 26 D.Lgs. n. 151/2015 non sono un atto delegabile e richiedono la presenza personale, anche se si svolgano con l’assistenza di un operatore sindacale.

La Corte triestina si pronuncia su una complessa vicenda che riguardava un dirigente che, in una situazione di forte tensione, era stato indotto a dimettersi delegando un soggetto terzo all’adempimento telematico previsto dall’art. 26 del D. Lgs. n. 151/2015, soggetto che a sua volta si era rivolto, per la trasmissione dei moduli, ad un operatore sindacale (comma 4° dell’art. 26). La Corte, a fronte della successiva contestazione della validità dell’atto, ritiene che, se pure in generale le dimissioni sarebbero un atto delegabile, ciò non vale nell’ambito della disciplina introdotta nel 2015, che richiede sempre un atto personale, o la presenza personale del dimissionario nel caso ci si avvalga degli operatori autorizzati dal comma 4 dell’art. 26.

Invece, la Corte ha ritenuto che sia delegabile l’atto risolutorio quando questo si svolga in una delle sedi protette ex art. 2113, 4° comma, c.c. (escluse dal campo di applicazione dell’art. 26), e che il presupposto dell’effettiva assistenza per la validità delle conciliazioni possa realizzarsi anche se il lavoratore è rappresentato da una terza persona.

Corte d’Appello di Napoli, 21 marzo 2024.

Ancora sul CCNL vigilanza privata: violata la retribuzione minima ex art. 36 Cost.

I Giudici accolgono il ricorso presentato da svariati lavoratori impiegati nell’ambito di un appalto, e che a seguito di una successione di appaltatore si erano visti applicare il CCNL per i dipendenti da Istituti ed Imprese di Vigilanza Privata e Servizi Fiduciari – Sezione servizi fiduciari, con trattamento salariale base di 930,00 euro lordi, ritenuto non sufficiente a garantire agli stessi una vita libera e dignitosa. La Corte ha accolto la domanda – richiamando il più recente orientamento della Corte di cassazione e i vari indici utilizzabili per valutare la sufficienza o insufficienza della retribuzione, e ha dichiarato il diritto degli appellanti a percepire un trattamento salariale non inferiore a quello previsto dal CCNL per i dipendenti delle imprese di pulizia e integrati/multiservizi per i lavoratori di 2° livello (la cui declaratoria risulta comprendere anche le mansioni svolte dai ricorrenti).

Corte di Cassazione, ordinanza 8 marzo 2024, n. 6266

Nessuna decadenza se il dipendente licenziato dall’appaltatore rivendica giudizialmente il rapporto col committente.

Quattro anni dopo essere stato licenziato da una società appaltatrice di servizi, un lavoratore aveva proposto ricorso giudiziale nei confronti della sola società committente, deducendo l’inesistenza del licenziamento per interposizione fittizia di manodopera e quindi rivendicando l’esistenza del rapporto con la committente. In giudizio, la Cassazione, in contrasto con l’appello, nega l’intervenuta decadenza, ai sensi dell’art. 32, co. 4, lett. D della L. 183/10, dell’azione promossa dal lavoratore. In proposito, ricorda che secondo la propria costante giurisprudenza, l’ipotesi di decadenza in questione (prevista in “ogni altro caso in cui… si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto”) necessita della presenza di un atto scritto da impugnare per ottenere il risultato perseguito. Poiché nell’ipotesi di appalto non genuino, l’eventuale licenziamento dell’appaltatore è inesistente, l’unico caso in cui l’azione per la costituzione del rapporto col committente sia soggetta alla decadenza è quello in cui il committente neghi la titolarità del rapporto con atto scritto, che nel caso pacificamente non esiste.

Corte di Cassazione, sentenza 13 marzo 2024, n. 6704

Forma del contratto di apprendistato e del relativo piano formativo.

Un’apprendista aveva impugnato giudizialmente il proprio contratto di apprendistato professionalizzante per mancanza in esso del piano formativo, sostenendo la conseguente nullità dello stesso contratto e quindi la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato. In sede di ricorso per cassazione, proposto dalla lavoratrice avverso la sentenza d’appello che aveva respinto le sue domande (in base alla considerazione che la forma scritta stabilita dalla legge sia per il contratto che per il piano non fosse sanzionata sul piano della validità negoziale), la Corte, giudicando in base alle norme del D. Lgs. n. 167/2011 (abrogato dal D. Lgs. n. 81/2015) applicabile al caso esaminato ratione temporis, accoglie il ricorso, procedendo a un’analisi storico-sistematica delle norme per giungere alla conclusione che la forma scritta da esse prevista per il contratto, ma anche per il piano formativo dell’apprendistato è stabilita a pena di nullità (ancorché tale conseguenza non sia stata esplicitata), a protezione della parte più debole del rapporto.

Corte di Cassazione, sentenza 14 marzo 2024, n. 6898

Somministrazione nulla o elusiva e decadenza dell’azione.

Un lavoratore, avendo stipulato più di 400 contratti di somministrazione a termine col medesimo utilizzatore e per identiche mansioni nell’arco di sette anni, aveva dedotto in giudizio, dopo più di un anno dalla cessazione dell’ultimo rapporto, 1) la nullità dei contratti di lavoro a termine conseguente alla nullità di quelli di somministrazione tra agenzia e utilizzatore, in quanto privi di forma scritta; 2) la frode alla legge per elusione del necessario carattere temporaneo della somministrazione; chiedendo conseguentemente, per l’una o l’altra delle ragioni dedotte, l’istaurazione di un unitario rapporto di lavoro con l’utilizzatore. I giudici di merito avevano respinto le domande per intervenuta decadenza dell’azione ai sensi dell’art. 32, 4° comma, lett. d) della legge n. 183/2010 (relativa ai casi “in cui si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto”). La cassazione, accogliendo il ricorso del lavoratore, ribadisce il proprio recente orientamento giurisprudenziale, secondo il quale la decadenza in questione è sicuramente applicabile quando si impugna un atto scritto o un fatto tipicizzato, come ad es. la scadenza del contratto a termine, ma non è applicabile se si sostiene la frode alla legge per elusione delle norme comunitarie sulla necessaria temporaneità della somministrazione, perché in tal caso non viene impugnato un atto o più atti, ma la valutazione sub iudice investe una situazione complessa articolatasi nel corso del tempo. La sentenza impugnata viene quindi cassata perché ricorre quest’ultima situazione.

Corte di Cassazione, ordinanza 18 marzo 2024, n. 7181

L’indennità di mensa non rientra nella base di calcolo del TFR.

La Cassazione, nell’accogliere il ricorso di una fondazione ospedaliera avverso la sentenza d’appello che l’aveva condannata a computare l’indennità di mensa nella base di calcolo del TFR di un infermiere, osserva che: (i) come già affermato da risalente giurisprudenza di legittimità, nella disciplina dettata dall’art. 6, co. 3, dl 333/92 (ritenuta di interpretazione autentica della disciplina previgente), il valore del servizio mensa e l’importo della prestazione sostitutiva percepita da chi non usufruisce del servizio aziendale non fanno parte della retribuzione a nessun effetto attinente a istituti legali e contrattuali del rapporto di lavoro, salvo che la contrattazione collettiva disponga diversamente; (ii) non ha riscontro nell’interpretazione letterale della norma di legge indicata l’esclusiva delimitazione del suo ambito all’ipotesi in cui sia stata istituita in azienda la mensa, con esclusione di quella in cui essa manchi; una tale distinzione (sostenuta dalla sentenza impugnata) non è stata del resto mai affermata dalla giurisprudenza di legittimità.

Corte di Cassazione, ordinanza 18 marzo 2024, n. 7203

Unico il CCNL per vecchi e nuovi assunti.

La società di servizi in house di un Comune, non iscritta ad alcuna Associazione sindacale di datori di lavoro e che applicava di fatto ai propri dipendenti il CCNL terziario, decide a un certo punto di applicare ai nuovi assunti il diverso CCNL multiservizi, ritenuto più aderente alla propria attività. Nel conseguente giudizio promosso da due neo assunti per ottenere l’inquadramento in una qualifica prevista dal primo CCNL, la Cassazione, annullando la diversa sentenza dei giudici di merito e accogliendo le tesi dei lavoratori, ricorda che l’art. 2070 c.c. che collega l’inquadramento sindacale all’attività principale dell’impresa non è più applicabile perché contrastante col principio costituzionale di libertà sindacale, per cui il datore di lavoro applica il CCNL stipulato dal sindacato cui è iscritto o altro scelto volontariamente. In quest’ultimo caso (che è anche quello in esame), la costante applicazione di fatto di un determinato contratto a tutti i dipendenti assume nel tempo valore negoziale, imponendosi pertanto anche nei riguardi delle nuove assunzioni.

Corte di Cassazione, ordinanza 21 marzo 2024, n. 7642

Obbligo di indicare i motivi della mancata rotazione in CIGS a zero ore anche in caso di chiusura di un’unità produttiva.

Una società romana con più unità produttive nel territorio comunale, cessando l’attività in una di esse, aveva avviato la procedura di cui all’art. 1 della legge n. 223 del 1991 (prima delle modifiche apportate nel 2015), comunicando alle OO.SS., tra l’altro, che avrebbe messo in CIGS a zero ore tutto il personale dell’unità. Alcune dipendenti sospese a zero ore hanno impugnato giudizialmente la decisione, censurando l’assenza di indicazione, nella comunicazione relativa alla procedura, dei motivi della mancata rotazione con dipendenti di altre unità e dei criteri di scelta adottati in alternativa. Pervenuta la causa in cassazione, la Corte, confermando la decisione di accoglimento delle domande (di pagamento della retribuzione piena nel periodo di sospensione illegittima), ribadisce la propria giurisprudenza in materia, affermando l’obbligo, non adempiuto dalla società, di indicare nella comunicazione di avvio della procedura, le ragioni della mancata adozione della rotazione – e dei criteri di scelta -, quali, in ipotesi, la “non comunicabilità” tra le varie unità produttive o l’infungibilità delle mansioni e delle professionalità impiegate nell’unità rispetto alle altre (circostanze ambedue del resto smentite dall’esistenza di un precedente episodio di CIGS a zero ore nella medesima unità, in cui era stata adottata la rotazione con dipendenti di altre unità).

Corte di Cassazione, ordinanza 2 aprile 2024, n. 8642

Sul controllo di legittimità in ordine alla proporzionalità della sanzione disciplinare.

Il dirigente di un comune, impugnando la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio per un mese, irrogatagli per aver omesso i necessari controlli sull’operato dei propri collaboratori, aveva tra l’altro sostenuto la sproporzione della sanzione rispetto all’addebito. Giunta la causa in Cassazione su ricorso del dirigente avverso la decisione sfavorevole dell’appello, la Corte, confermando quest’ultima, ribadisce in proposito le regole processuali vigenti, secondo cui il giudizio di proporzionalità della sanzione costituisce una valutazione di fatto, di competenza esclusiva del giudice di merito e pertanto incensurabile in Cassazione, salvo il caso in cui la motivazione sul punto manchi del tutto nella sentenza impugnata o sia contraddittoria o inconsistente ovvero sia viziata dall’omesso esame di un fatto decisivo, la cui valutazione avrebbe cioè condotto i giudici a una soluzione diversa della causa.

Corte di Cassazione, ordinanza 4 aprile 2024, n. 8898

Conciliazioni sindacali e diritti indisponibili.

Un lavoratore aveva promosso un primo giudizio nei confronti di tre società sostenendo di essere stato ad esse legato per alcuni anni da una complessa situazione di appalto illecito di manodopera e chiedendo l’accertamento che il suo rapporto era in realtà intercorso nei confronti di un unico utilizzatore. La causa era stata conciliata, prima a livello sindacale e poi giudiziale. In base ai medesimi presupposti, con separato ricorso, aveva poi chiesto all’”effettivo” datore di lavoro una somma a titolo di differenze retributive, a cui l’impresa aveva vittoriosamente opposto l’intervenuta conciliazione. La Cassazione, respingendo il ricorso del lavoratore che aveva impugnato la conciliazione in quanto incidente su suoi diritti indisponibili, ribadisce che se è vero che l’art. 2113 c.c., considera invalide (e da impugnare entro sei mesi) le rinunce e le transazioni che dispongono dei diritti del lavoratore derivanti da disposizioni inderogabili di legge e di contratto collettivo, questa regola, secondo l’ultimo comma dell’articolo, non vale nel caso delle conciliazioni di cui agli artt. 185, 410 e 411 c.p.c, tra le quali appunto quella giudiziale, in quanto il pericolo di una volontà non genuina della parte debole del rapporto di lavoro viene superato dalla presenza garantista dell’organo pubblico o sindacale.

Corte di Cassazione, ordinanza 9 aprile 2024, n. 9444

Risarcimento danni se il contratto di lavoro stagionale non menziona il diritto di precedenza del dipendente nelle nuove assunzioni.

Com’è noto, l’art. 24 del D. Lgs. n. 81/2015 stabilisce per i lavoratori stagionali (ma anche in genere per quelli a termine, sia pure a diverse condizioni) il diritto di precedenza nelle nuove assunzioni per le stesse mansioni, effettuate entro un determinato arco temporale a partire dalla cessazione del rapporto. E prescrive che tale diritto, da esercitare entro un termine di decadenza, debba essere richiamato nell’atto scritto di apposizione del termine al contratto. Due lavoratori stagionali avevano fatto causa all’ex datore di lavoro, chiedendo (tra l’altro) la trasformazione a tempo indeterminato del rapporto per mancanza di menzione del diritto di precedenza e il risarcimento danni per non aver potuto esercitare tempestivamente tale diritto a causa della mancata indicazione dello stesso nel contratto di assunzione. Mentre la Corte d’Appello aveva negato il risarcimento in quanto non sarebbe previsto dalla legge e aveva riconosciuto ai lavoratori la possibilità di esercitare il diritto di precedenza anche tardivamente, la Cassazione, cassando la decisione impugnata dai due dipendenti, nega anzitutto che alla violazione dell’obbligo da parte del datore di lavoro consegua la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato, ma riconosce ai lavoratori, secondo i principi generali, il risarcimento dei danni conseguenti all’inadempimento di tale preciso obbligo contrattuale.

Tribunale di Padova, 15 febbraio 2024

Competenza territoriale e foro del contratto in un caso di addetta ad appalto: decisivo il fatto che la lavoratrice, alla data della sottoscrizione, fosse già impiegata nell’appalto in una città diversa da quella indicata nel contratto.

Il Tribunale respinge il ricorso e conferma il decreto ingiuntivo con cui una lavoratrice aveva fatto valere i propri crediti da lavoro in via solidale nei confronti della società committente di un appalto presso il quale era stata impiegata. Secondo il giudice è stato rispettato il criterio di competenza per territorio: nonostante il fatto che il contratto indicasse come luogo della stipula un’altra città, la lavoratrice al momento della firma era già impiegata presso l’appalto nel distretto del Tribunale adito: si può presumere che il contratto, predisposto altrove, sia poi stato trasmesso e sottoscritto nel luogo effettivo di lavoro della lavoratrice.

Tribunale di Napoli, 21 marzo 2024

In materia di indennità per ferie non godute, la società “in house” è soggetta alle ordinarie regole dei rapporti di lavoro privati.

La società per azioni con partecipazione pubblica non muta la propria natura di soggetto di diritto privato solo perché un ente pubblico ne possegga, in tutto o in parte, le azioni. L’utilizzo di denaro pubblico per il pagamento delle retribuzioni dei lavoratori della partecipata non sottrae i rapporti di lavoro in questione dalla disciplina di cui all’art. 2019 c.c. La società in house non può invocare a suo favore, in maniera utilitaristica, ora l’applicazione della disciplina privatistica ora l’applicazione della disciplina pubblicistica.

Tribunale di Tivoli, 27 marzo 2024

Nullo il licenziamento dei lavoratori che avevano rifiutato il trasferimento alla nuova sede, privo di effettiva giustificazione.

Il Tribunale accoglie il ricorso presentato da due lavoratori, licenziati dopo aver rifiutato un trasferimento a 400 km di distanza e, dichiarato nullo il licenziamento, ordina la loro reintegrazione nel posto di lavoro. Secondo il Giudice, il datore di lavoro non ha dimostrato la sussistenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive e il nesso tra queste e il trasferimento, e ha pertanto violato i principi di buona fede e correttezza. Il rifiuto dei lavoratori si qualifica quindi come legittima eccezione di inadempimento, facendo venire meno la pretesa giusta causa di licenziamento.