NEWSLETTER n. 2/2024

Novità normative e giurisprudenziali

Novità Normative

INPS, messaggio n. 30 del 4 gennaio 2024

Criteri di computo del rateo della tredicesima e della quattordicesima mensilità nel calcolo dell’indennità per il congedo straordinario di cui all’articolo 42, commi 5 e seguenti, del Decreto legislativo n. 151/2001, in favore dei lavoratori dipendenti del settore privato. Precisazioni”.

Con messaggio n. 30/2024 l’INPS fornisce indicazioni in ordine ai criteri di computo del rateo della tredicesima e della quattordicesima mensilità nel calcolo dell’indennità per il congedo straordinario.

Il congedo straordinario, disciplinato dall’art. 42 del D.lgs. 151/2001, come modificato dall’articolo 4 del D.lgs. n. 119/2011, stabilisce che: “5-ter. Durante il periodo di congedo, il richiedente ha diritto a percepire un’indennità corrispondente all’ultima retribuzione, con riferimento alle voci fisse e continuative del trattamento, e il periodo medesimo è coperto da contribuzione figurativa […]”. Tale comma, nell’indicare la misura dell’indennità, la lega all’ultima retribuzione, limitandola alle voci fisse e continuative del trattamento e escludendo gli elementi variabili connessi alla presenza.

Sul punto l’Istituto Nazionale di Previdenza, riprendendo la Circolare n. 64 del 15 marzo 2001, precisa che l’indennità deve includere il rateo della tredicesima mensilità e altre mensilità aggiuntive.

La tredicesima mensilità trova la propria base normativa nel Decreto Legislativo n. 263 del 25 ottobre 1946. Questa “gratificazione”, secondo l’Istituto, è diventata un emolumento fisso e ricorrente, corrisposto a fine anno a tutti i dipendenti pubblici e privati, come confermato dalla giurisprudenza amministrativa e dal Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Pertanto, in virtù della previsione dell’art. 5-ter dell’articolo 42, il quale include nei criteri di computo del congedo straordinario, oltre all’ultima retribuzione, “le voci fisse e continuative del trattamento”, il richiedente ha diritto a percepire un’indennità calcolata sull’ultima retribuzione precedente al congedo, includendo le voci fisse e continuative del trattamento, quali il rateo della tredicesima mensilità e altre mensilità aggiuntive, escludendo gli emolumenti variabili.

DECRETO LEGISLATIVO 30 dicembre 2023, n. 216

Attuazione del primo modulo di riforma delle imposte sul reddito delle persone fisiche e altre misure in tema di imposte sui redditi”.

Tra le principali novità della Legge di Bilancio 2024 sono state previste le nuove aliquote e i nuovi scaglioni di reddito da impiegare per il calcolo dell’imposta lorda sul reddito delle persone fisiche per l’anno 2024.

A norma dell’art. 1, comma 1 del D.lgs. 30.12.2023, n. 216, per l’anno 2024, nella determinazione dell’IRPEF, l’imposta lorda è calcolata applicando le seguenti aliquote per scaglioni di reddito:

  1. fino a 28.000,00 euro, 23%;
  2. oltre 28.000,00 euro e fino a 50.000 euro, 35%;
  3. oltre 50.000,00 euro, 43%.

Sempre per l’anno 2024, inoltre, la detrazione per lavoro dipendente è innalzata da 1.880 euro (se il reddito complessivo non supera 15 mila euro) a 1.955 euro (art.1, comma secondo).

Tra le altre novità, la legge di bilancio ha previsto:

  • l’innalzamento a 1.955,00 euro della detrazione prevista per i redditi di lavoro dipendente – esclusi i redditi di pensione – e di taluni redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente;
  • la modifica del requisito per la corresponsione della somma a titolo di trattamento integrativo;
  • la diminuzione di un importo pari a 260 euro ai fini dell’IRPEF, per i contribuenti titolari di un reddito complessivo superiore a euro 50.000, l’ammontare della detrazione dall’imposta lorda spettante in relazione a taluni oneri;
  • la maggiorazione, nel periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023, per i titolari di reddito d’impresa e per gli esercenti arti e professioni, del costo del personale di nuova assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, ai fini della determinazione del reddito, di un importo pari al 20% del costo riferibile all’incremento occupazionale.

NOVITÀ GIURISPRUDENZIALI

Corte di giustizia UE, sentenza 18 gennaio 2024 in causa n. C-218/22

Bocciata la legge italiana che vieta al dipendente pubblico la monetizzazione delle ferie in caso di dimissioni.

Oggetto del giudizio incidentale della Corte è l’art. 5 D.L. italiano del 6 luglio 2012 n. 95, il quale, nella versione vigente all’epoca dei fatti (ottobre 2016), vieta per i dipendenti pubblici la corresponsione di un’indennità sostitutiva delle ferie anche in caso di dimissioni, risoluzione del rapporto, mobilità etc. Il rinvio incidentale della questione alla Corte di giustizia era stato effettuato in una causa in cui un dipendente comunale aveva chiesto, al momento delle sue dimissioni volontarie, il pagamento di una indennità in sostituzione delle ferie non godute nel corso del rapporto. Avanti alla Corte di giustizia la questione della conformità del divieto al diritto comunitario era stata difesa dal governo italiano con ragioni attinenti al contenimento della spesa pubblica e alle esigenze organizzative della pubblica amministrazione. Inoltre era stato sottolineato che il lavoratore avrebbe potuto correttamente esercitare il diritto alle ferie prima di dimettersi. La Corte spazza via ogni obiezione dell’Italia, ribadendo la propria costante giurisprudenza sul carattere fondamentale del diritto incondizionato alle ferie nonché a un’indennità finanziaria sostitutiva di esse nel solo caso in cui al momento della cessazione del rapporto di lavoro, anche per dimissioni volontarie, queste non siano state godute. Né ragioni organizzative o attinenti al contenimento della spesa pubblica possono giustificare, secondo la Corte, il rifiuto dell’indennità sostitutiva (come invece ritenuto dalla Corte costituzionale italiana, che aveva respinto la questione di costituzionalità della norma di legge in esame). La Corte di giustizia ricorda infine che il dipendente, per fruire, nelle condizioni date, dell’indennità finanziaria sostitutiva, non ha l’onere di provare di non aver potuto godere delle ferie per fatto a lui non imputabile, ma è il datore di lavoro che deve dimostrare di aver esercitato tutta la diligenza necessaria per fargliele fruire.

Corte di Cassazione, ordinanza 22 dicembre 2023, n. 35922

Quando il licenziamento del sindacalista che critica su Facebook l’azienda è legittimo.

Un rappresentante sindacale aziendale, licenziato per avere pubblicato sulla propria bacheca Facebook, visibile alla generalità degli utenti, reiterati commenti ritenuti gravemente lesivi dell’immagine dell’azienda e di persone a essa collegate, aveva impugnato il licenziamento, sostenendo la violazione dell’art. 7 S.L., (non avendo avuto riscontro la sua richiesta di audizione orale), la natura illecita dell’atto e comunque la sua ingiustificatezza. I giudici di merito avevano

respinto il ricorso, accertando che la richiesta di audizione comunicata per PEC non era stata ricevuta dalla società e rilevando il carattere diffamatorio dei messaggi pubblicati dal dipendente che travalicavano altresì i limiti di continenza verbale, eccedendo il perimetro di liceità dell’esercizio del diritto di critica nell’ambito delle relazioni sindacali. La Cassazione, nel confermare la decisione di merito, osserva che: (i) in ordine al tema della richiesta di audizione, il sistema di posta elettronica ordinaria è privo delle caratteristiche che consentono di attestare con certezza, alla stregua della disciplina codicistica, l’avvenuta ricezione della comunicazione da parte del destinatario, sul quale quindi grava l’onere probatorio relativo, nel caso di specie non assolto; (ii) quanto all’esercizio del diritto di critica sindacale, garantito dagli artt . 21 e 39 della Costituzione, esso incontra i limiti della correttezza formale e sostanziale che sono imposti dall’esigenza, anch’essa costituzionalmente garantita (art. 2 Cost.) di tutela della persona, con la conseguenza che, ove tali limiti siano, come nel caso di specie, superati con l’attribuzione all’impresa datoriale o ai suoi dirigenti di qualità apertamente disonorevoli, con riferimenti denigratori non certi, il comportamento del lavoratore

Corte di cassazione, ordinanza 19 dicembre 2023 n. 35527

Divieto di licenziamento della lavoratrice madre e cessazione dell’attività dell’azienda.

Licenziata dal fallimento dell’impresa datrice di lavoro, una lavoratrice madre aveva impugnato il licenziamento, sostenendo che l’impresa fallita aveva continuato a svolgere una pur ridotta attività e quindi invocando la legge che vieta il licenziamento economico delle lavoratrici dall’inizio della gestazione al compimento di un anno di età del figlio, salvo il caso di cessazione dell’attività di impresa. In giudizio era poi risultato che il fallimento, sebbene non autorizzato all’esercizio provvisorio dell’azienda, aveva in corso un’attività di conservazione, in vista di una possibile cessione, per la quale era anche in corso la selezione del personale da mantenere in servizio. Posta davanti al dilemma interpretativo se privilegiare, in ordine al significato di cessazione dell’attività ai fini della tutela della maternità, una lettura meramente formale della legge (il fallimento senza esercizio provvisorio la determina giuridicamente) o viceversa valorizzarne la sostanza, la situazione di fatto, la Corte, ricordando l’evoluzione legislativa e giurisprudenziale in materia, ampiamente ispirata a principi di rilievo costituzionale e del diritto comunitario, opta per l’interpretazione sostanziale, affermando che per escludere la possibilità di licenziamento economico della lavoratrice madre è sufficiente la continuazione o la persistenza dell’impresa, a qualsiasi titolo essa avvenga.

Corte di Cassazione, Sez. Un., sentenza del 28 dicembre 2023 n. 36197.

La prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato decorre sempre – tanto in caso di rapporto a tempo indeterminato, tanto di rapporto a tempo determinato– in costanza di rapporto.

L’istituto della prescrizione è tornato di grande attualità dopo la frammentazione del regime sanzionatorio dei licenziamenti e la graduazione delle tutele derivanti dalle riforme del 2012 e del 2015, riaccendendo il dibattito in ordine alla decorrenza della prescrizione dei crediti dei lavoratori e rimettendo in discussione i principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale.

La sentenza della Cassazione prende le mosse da un contenzioso instaurato da dipendente stabilizzato di un ente pubblico, volto ad ottenere il riconoscimento dell’anzianità pregressa per gli scatti stipendiali, maturata nel periodo antecedente alla stabilizzazione.

La Sezione lavoro della Corte di Cassazione individuava nel caso di specie la dirimente questione, sottoposta successivamente alle Sezioni Unite, della decorrenza nel pubblico impiego contrattualizzato della prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori assunti a seguito di procedura di stabilizzazione, dopo lo svolgimento di rapporti di lavoro regolari e dotati di stabilità reale. L’ordinanza di remissione sottolineava la necessità di riconsiderare l’attuale orientamento giurisprudenziale in ragione dell’evoluzione socioeconomica dei rapporti di lavoro, di significativi mutamenti normativi che hanno interessato la materia del pubblico impiego e per effetto della sua contrattualizzazione.

Le Sezioni Unite, pronunciatesi sul tema, hanno ribadito il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, confermando che nel pubblico impiego, anche contrattualizzato e a tempo determinato, la prescrizione dei diritti retributivi ha inizio durante il rapporto di lavoro, seguendo l’insorgenza progressiva dei diritti o la cessazione del rapporto per i diritti originati da essa. La conferma della decorrenza della prescrizione in corso di rapporto si basa su considerazioni che attribuiscono maggior stabilità al rapporto pubblico rispetto a quello privato. Tale stabilità deriva principalmente dall’obbligo della Pubblica Amministrazione, imposto dalla legge e dalla Costituzione, di rispettare principi e vincoli che attenuano il timore del lavoratore rispetto a possibili ritorsioni in caso di difesa dei propri diritti. Inoltre, la presenza di una giurisdizione efficace di tutela del dipendente nel caso di atti illegittimi contribuisce a consolidare la maggiore sicurezza del rapporto di lavoro nel contesto pubblico.

Tribunale di Milano, 09.05.2023

Illegittimo, in assenza di causali, il ricorso a più contratti a termine e missioni nell’ambito di una somministrazione a tempo indeterminato, anche se contenuti nel limite massimo di 24 mesi, se la prestazione svolta non è realmente temporanea.

Il Tribunale accoglie il ricorso presentato da dei lavoratori che hanno svolto per l’impresa convenuta successivi periodo di lavoro assunti a termine e poi inviati in missione nell’ambito di una somministrazione a tempo indeterminato, e dichiara la sussistenza tra questi e la società utilizzatrice di un rapporto di lavoro diretto, in quanto si sono succeduti più rapporti di lavoro privi di specifica causale, per un periodo superiore ai 12 mesi. secondo il giudice, infatti, va valorizzata la giurisprudenza della corte di giustizia dell’unione europea, secondo la quale i rapporti di somministrazione devono avere un carattere necessariamente temporaneo, ed è compito dei giudici nazionali stabilire caso per caso una durata massima (sentenze c-681/2018 e c-232/20). nel caso specifico, deve essere applicato il limite di 12 mesi in assenza di specifiche cause giustificative: limite che il principio di temporaneità consente di applicare anche se non sia raggiunto il limite dei 24 mesi per sommatoria di rapporti a termine e somministrati.

Tribunale di Milano, 16 gennaio 2024, Tribunale di Trieste, 14 novembre 2023.

Si consolida l’orientamento sulla necessaria temporaneità nell’utilizzo di lavoratori somministrati, e sull’applicazione dei limiti dei rinnovi dei contratti a tempo determinato.

I Tribunali di Milano e Trieste accolgono le domande presentate da lavoratori somministrati e accertano la sussistenza di un rapporto di lavoro alle dirette dipendenze della società utilizzatrice, per carenza del requisito dell’effettiva temporaneità. infatti, anche in base alle recenti pronunce della corte di giustizia, la temporaneità del rapporto è ritenuta caratteristica essenziale della somministrazione di manodopera. di conseguenza, ai rapporti di somministrazione si applicano gli stessi limiti vigenti ratione temporis per i contratti a tempo determinato, il superamento dei quali può portare all’instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato.

Tribunale di Trieste, Sez. Lavoro, sentenza del 21 dicembre 2023

Il diritto al Lavoro Agile per i Lavoratori fragili deve conciliarsi con le esigenze e necessità organizzative aziendali.

Una lavoratrice presentava un ricorso d’urgenza assumendo di essere affetta da artrite reumatoide e invalida al 50%. Dopo aver lavorato in modalità agile per 5 giorni a settimana, il datore di lavoro le comunicava il passaggio al lavoro in presenza giustificandolo sulla base di esigenze organizzative aziendali. La lavoratrice denunciava quindi l’incompatibilità del suo stato di salute con il lavoro in presenza, affermando che l’azione del datore di lavoro si poneva in violazione dell’art. 2087 c.c., in virtù della compatibilità delle proprie mansioni con il lavoro agile, già espletato in precedenza presso il suo domicilio negli ultimi 3 anni. Nel valutare la questione, il giudice ha esaminato il quadro normativo vigente, confermando che il lavoro agile non costituisce un diritto assoluto, ma dipende dalla compatibilità delle mansioni. La sentenza del Tribunale ha riconosciuto la legittimità delle ragioni organizzative e produttive della convenuta, stabilendo che la lavoratrice aveva ottenuto il lavoro agile per due giorni a settimana in un compromesso tra le esigenze “meritevoli” di entrambe le parti. Nel respingere il ricorso, il Tribunale di Trieste ha inoltre affermato che la lavoratrice non aveva dimostrato il fumus boni iuris (la fondatezza del diritto) e che in ogni caso la decisione deve tener conto del potere del datore di lavoro di poter organizzare l’impresa, sottolineando che tale potere non è assoluto e può essere sindacato in caso di violazione del principio di buona fede e della reale compatibilità delle mansioni con il lavoro agile.

La sentenza rappresenta un importante precedente che bilancia il diritto del datore di organizzare l’azienda con l’obbligo di rispettare i diritti dei lavoratori, specialmente quelli riconosciuti per particolari condizioni di salute.

Corte di Cassazione, sentenza 14 dicembre 2023, n. 35066.

In tema di licenziamento per giusta causa, il lavoratore deve astenersi dal realizzare non solo comportamenti espressamente vietati ma anche qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con l’osservanza dei doveri di correttezza e di buona fede anche nei comportamenti extralavorativi.

La controversia in esame riguarda il licenziamento, per giusta causa, di un dipendente bancario che rivestiva la posizione di team leader. Tale decisione è scaturita dalla condotta ripetutamente molesta del dipendente nei confronti di due colleghe, comportamento che si è verificato al di fuori dell’ambiente lavorativo, causando notevoli danni sia alle dipendenti coinvolte sia alla banca datrice di lavoro. Nel corso del giudizio in Cassazione, la Corte Suprema ha respinto il ricorso avanzato dal lavoratore, qualificando le azioni del dipendente come veri e propri atti di molestia sul luogo di lavoro, nonostante siano fossero stati commessi in contesti estranei all’ambito lavorativo.

Secondo la giurisprudenza consolidata, affinchè possa configurarsi una giusta causa di recesso è necessario che il comportamento assunto dal dipendente costituisca una grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento della fiducia che deve necessariamente sussistere tra le parti.

La giusta causa deve inoltre essere riferibile a un comportamento del lavoratore che non deve necessariamente sostanziarsi in un inadempimento, ma può anche riguardare fatti estranei alla prestazione lavorativa. L’elemento fiduciario che è fattore condizionante la permanenza del rapporto, può essere compromessa, non solo in conseguenza di specifici inadempimenti contrattuali, ma anche in ragione di condotte extralavorative che, seppure tenute al di fuori dell’azienda e dell’orario di lavoro e non direttamente riguardanti l’esecuzione della prestazione, nondimeno possono essere tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti qualora abbiano un riflesso, sia pure soltanto potenziale ma oggettivo, sulle aspettative di un futuro e puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa.

Nel caso di specie la Corte ha elaborato il proprio ragionamento tenendo conto che le azioni extralavorative assumono rilevanza all’interno del rapporto di lavoro qualora comportino la violazione di obblighi e doveri correlati all’effettiva integrazione dell’autore nell’organizzazione aziendale. Inoltre la Cassazione ha ritenuto che l’onere di dimostrare l’irrimediabile lesività del vincolo fiduciario derivante dal comportamento extralavorativo del dipendente grava sul datore di lavoro. Quest’ultimo deve allegare in modo specifico il fatto in sé, quando tale comportamento si rifletta, anche solo potenzialmente ma in maniera oggettiva, sulla funzionalità del rapporto di lavoro, compromettendo le aspettative di un futuro adempimento puntuale.  Nel caso specifico, la banca datrice di lavoro ha legittimamente tratto un allert particolare e giustificato dalle condotte extralavorative del dipendente team leader, mostrandosi eccezionalmente molesto e addirittura violento nei confronti di altre due dipendenti.

Tribunale di Roma, Sez. Lavoro, sentenza del 12 dicembre 2023, n. 9303

Il procedimento logico giuridico “trifasico” diretto alla determinazione dell’inquadramento contrattuale corretto.

Un lavoratore promuoveva ricorso davanti al Tribunale di Roma, in qualità di Giudice del Lavoro, volto ad accertare l’errato inquadramento contrattuale subito dall’ottobre del 2009 e, per l’effetto condannare la società datrice convenuta a inquadrare correttamente il lavoratore e corrispondere a quest’ultimo la somma dovuta a titolo di differenze retributive per l’errato inquadramento contrattuale. La società convenuta costituitasi in giudizio rilevava come il lavoratore in realtà non avesse svolto le mansioni come indicate nel ricorso introduttivo, eccependo in ogni caso l’inammissibilità per mancanza di allegazioni in sede istruttoria. In seguito all’integrazione del contraddittorio disposta d’ufficio dal Giudice, il Tribunale di Roma riteneva meritevole di accoglimento le ragioni di fatto e diritto poste a fondamento delle domande del ricorrente, sulla base di un procedimento logico-giuridico trifasico, diretto alla determinazione dell’inquadramento di un lavoratore subordinato.

Il Giudice del Lavoro sottolinea infatti come l’art. 2103 del Codice civile, come modificato dal decreto legislativo n. 81/15, prevede che il lavoratore debba essere adibito alle mansioni corrispondenti alla categoria superiore acquisita successivamente o a mansioni equivalenti a quelle ultimamente svolte, senza diminuzione della retribuzione. Nell’articolo 2103, comma 1, infatti, possono distinguersi due ipotesi di acquisizione dell’inquadramento superiore rappresentate: l’una dalla promozione definitiva derivante dalla stabile assegnazione alla categoria superiore, l’altra dalla promozione automatica, vale a dire dalla assegnazione a mansioni superiori che, inizialmente temporanea, diventa definitiva una volta trascorsi sei mesi o il diverso termine previsto dalla contrattazione collettiva.

Il Tribunale evidenziava inoltre che è precipuo onere della parte interessata provare l’effettivo svolgimento di mansioni inquadrabili nel livello superiore richiesto, in virtù del principio di corrispondenza tra inquadramento e mansioni, secondo il cd. “giudizio trifasico”. Dunque, ai fini della determinazione dell’inquadramento spettante al lavoratore alla stregua delle qualifiche previste dalla disciplina collettiva di diritto comune, il giudice del merito deve dapprima identificare le qualifiche o categorie, interpretando le disposizioni collettive secondo i criteri di cui agli art. 1362 ss. c.c. e poi accertare le mansioni di fatto esercitate, confrontando infine le categorie o qualifiche così identificate con le mansioni svolte in concreto. In altre parole, occorre accertare le attività effettivamente svolte dal lavoratore, individuare la qualifica rivendicata e verificare che le prime corrispondano alle seconde secondo le disposizioni della contrattazione collettiva.

Tribunale di Milano, 6 dicembre 2023

L’INPS è il solo legittimato passivo in controversie relative alle prestazioni previdenziali che dovrebbero essere anticipate dal datore di lavoro, tra cui indennità di malattia e di maternità, ma non erogate.

Il Tribunale accoglie il ricorso di una lavoratrice promosso (anche) verso l’Inps, per ottenere il pagamento delle indennità di malattia e di maternità, non corrisposte dal datore di lavoro. Il Giudice ha anzitutto respinto le eccezioni di improponibilità sollevate dall’Istituto previdenziale per presunta assenza di domanda amministrativa, rilevando che parte ricorrente ha provato di aver trasmesso all’INPS i certificati relativi allo stato di malattia e di maternità. Inoltre, alla luce della giurisprudenza di legittimità, è stata ribadita la titolarità in capo al solo INPS del lato passivo del rapporto obbligatorio nelle ipotesi di prestazioni previdenziali di cui il datore di lavoro sia chiamato ad anticipare gli importi al lavoratore, a prescindere dall’avvenuto conguaglio tra tali somme e i contributi dovuti dallo stesso datore all’Istituto.

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