NEWSLETTER N. 5/2021 NOVITÀ GIURISPRUDENZIALI E DOTTRINALI

NEWSLETTER n. 5/2021

Novità Giurisprudenziali e dottrinali

NOVITA’ GIURISPRUDENZIALI

PROROGA DEL CONTRATTO A TERMINE.

 La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 10870 del 23.04.2021, ammette la legittimità della forma orale per la proroga del contratto di lavoro a tempo determinato.

Un lavoratore proponeva ricorso esponendo di essere stato assunto con contratto a tempo determinato, prorogato oralmente ed in seguito licenziato in forma orale. Sulla scorta di tali premesse, chiedeva al Tribunale di Cosenza, di accertare la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato di condannare la parte datoriale alla reintegra nel posto di lavoro. Il giudice adito respingeva il ricorso, detta pronuncia veniva, in seguito, riformata dalla Corte d’appello di Catanzaro, per giungere il caso, alla Suprema Corte, la quale deduce l’erroneità della statuizione della Corte territoriale, con cui aveva sostenuto la necessità di forma scritta della proroga del contratto a termine. In tema di rapporto di lavoro a termine, per la proroga del contratto non è necessaria la forma scritta ad substantiam, ai sensi delle disposizioni di cui agli artt. 1 e 4 D. Lgs. n. 368 del 2001, potendo l’accordo tra le parti essere manifestato in forma orale o risultare da comportamenti concludenti. A riguardo, la Corte rimarca come la circostanza che la proroga non sia stata sottoscritta dal lavorare, non può escludere né la sussistenza della proroga stessa, né la validità del consenso, il quale può ben essere manifestato per facta concludentia.

ILLEGITTIMA COLLOCAZIONE IN CIG E DIRITTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 10378 del 20.04.2021, afferma che la violazione dei criteri, stabiliti in sede di contrattazione collettiva, per la scelta dei lavoratori da porre in cassa integrazione comporta, per il lavoratore ingiustificatamente sospeso il solo diritto al risarcimento del danno.

La Corte, sentenzia che la violazione dei criteri, stabiliti in sede di contrattazione collettiva, per la scelta dei lavoratori da collocare il CIG, non comporta il diritto alla riammissione in servizio per il lavoratore ingiustificatamente sospeso, essendo in tema di facere infungibile, fuori dalla sfera di operatività dell’art. 18 della L. n. 300 del 1970; ma solamente il diritto al risarcimento del danno, nella misura corrispondente alla differenza tra le retribuzioni spettanti nel periodo di ingiustificata sospensione del rapporto ed il trattamento di cassa integrazione corrisposto nello stesso periodo. In tal modo, ne deriva l’assoggettamento del diritto alla prescrizione ordinaria decennale e non alla prescrizione breve quinquennale.

La specificità dei criteri di scelta consiste nell’idoneità dei medesimi ad operare la selezione e nel contempo a consentire la verifica della scelta ai criteri. Infatti, un criterio di scelta generico esprime soltanto un generico indirizzo nella scelta, essendo palese che in una situazione in cui è genericamente indicato il numero di coloro che avrebbero subito la sospensione è impedita la preventiva conoscibilità dei fattori che in concreto determinano la scelta di un lavoratore piuttosto che di un altro.

Sulla base di tale orientamento, la Corte, confermando la decisione della Corte d’appello di Cagliari, rigetta il ricorso proposto dalla società datrice di lavoro, nei confronti del lavoratore ingiustificatamente sospeso.

RICHIESTA DI AUDIZIONE A DIFESA E ASSENZA DEL LAVORATORE.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 9313 del 07.04.2021, afferma che in sede di procedimento disciplinare, non è sufficiente per il lavoratore la semplice affermazione di impossibilità a presenziare, al fine di ottenere un differimento dell’audizione.

La Corte dispone l’onere del dipendente, che contesti l’illegittimità della sanzione, di dimostrare di non aver potuto presenziare all’audizione a causa di una patologia così grave da risultare ostativa in assoluto all’esercizio del diritto di difesa, dovendosi ritenere che altre malattie non precludano all’incolpato altre forme partecipative come ad esempio l’invio di memorie esplicative o la delega difensiva di un avvocato.

Infatti, il lavoratore raggiunto da contestazione disciplinare, ha il diritto ad essere sentito oralmente dal datore di lavoro. Tuttavia, ove il datore, a seguito della richiesta di audizione, abbia convocato il lavoratore per una certa data, questi non ha diritto ad un differimento dell’incontro laddove si limiti ad addurre una impossibilità di presenziare, poiché l’obbligo di accogliere la richiesta del lavoratore, sussiste solo ove la stessa risponda ad un’esigenza difensiva non altrimenti tutelabile.

Difatti, la Corte precisa che i vizi procedurali correlati all’audizione del lavoratore, a garanzia del diritto alla difesa dello stesso, possono dar luogo alla nullità del procedimento, con conseguente sanzione, solo ove sia dimostrato dall’interessato un pregiudizio al concerto esercizio del diritto di difesa, e non di per sé soli.

LICENZIAMENTO DISCIPLINARE PER PLURALITA’ DI CONDOTTE.

La Corte di Cassazione con sentenza n. 9305 del 2021, dispone che nel caso di licenziamento disciplinare comminato a seguito di una pluralità di comportamenti distinti e autonomi, dei quali solo alcuni risultino dimostrati, “l’insussistenza del fatto” si configura solo qualora non sussista un nucleo minimo di condotte astrattamente idonee a giustificare la sanzione espulsiva, o si realizzi l’ipotesi dei fatti sussistenti ma privi del carattere dell’illiceità.

La Corte sottolinea che l’ipotesi di “insussistenza del fatto” contestato, a seguito di impugnazione del licenziamento disciplinare, qualora le condotte siano plurime e non tutte dimostrate, può configurarsi solo ove non vi sia nemmeno un nucleo minimo di condotte astrattamente idoneo a giustificare la sanzione, ovvero, i fatti siano sussistenti ma non illeciti. Ciò alla luce e sotto la guida del principio di proporzionalità tra la sanzione ed i comportamenti dimostrati, con la conseguenza, in caso di sproporzione tra sanzione e infrazione, dell’applicazione della tutela risarcitoria nel caso in cui la condotta dimostrata non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi o i codici disciplinari applicabili, prevedano una sanzione conservativa; ricadendo invece la proporzionalità tra le “altre ipotesi” di cui all’art. 18 co. 5 della L. n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1 co. 42 della L. n. 92 del 2012 per le quali è prevista la tutela indennitaria c.d. forte.

La Corte, ribadisce che sotto altro profilo, l’art. 18 della L. n. 300 del 1970 nel testo novellato, riconosce al quarto comma la tutela reintegratoria in caso di insussistenza del fatto contestato, nonché nelle ipotesi in cui il fatto contestato sia sostanzialmente irrilevante sotto il profilo disciplinare o non imputabile al lavoratore; la non proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato rientra nel suddetto quarto comma, quando questa risulti dalle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, che stabiliscano per esso una sanzione conservativa. Diversamente, verificandosi le “altre ipotesi” di non ricorrenza del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa per le quali il quinto comma dell’art. 18 prevede la tutela indennitaria c.d. forte.

INDENNITA’ SOSTITUTIVA DI PREAVVISO.

La Corte di cassazione, con sentenza n. 9556 del 12.042021, dichiara non dovuta al lavoratore l’indennità sostitutiva del preavviso in caso di scioglimento automatico del rapporto per inidoneità permanente assoluta a svolgere qualsiasi attività lavorativa per ragioni di salute.

Un dipendente dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, in sede di procedimento per ottenere la pensione d’inabilità, era stato dichiarato dall’apposita Commissione medica inidoneo in maniera permanente e assoluta a qualsiasi attività lavorativa, cui era conseguito lo scioglimento del rapporto di lavoro per ragioni di salute. Avendo l’Agenzia negato che in questo caso fosse dovuta l’indennità sostitutiva del preavviso, gli eredi del lavoratore, nel frattempo deceduto, avevano promosso un giudizio per ottenerla. Giunta la causa in cassazione, la Corte ha confermato che il preavviso o la relativa indennità non sono dovuti, in ragione dell’assoluta e permanente impossibilità della prestazione lavorativa, che determina lo scioglimento automatico del rapporto.

ILLIGEITTIMITA’ DEL CONTRATTO DI SOMMINISTRZIONE IN ASSENZA DI DVR.

La Corte d’appello di Brescia, con sentenza n. 248 del 01.04.2021, conferma l’illegittimità del contratto di somministrazione in assenza di DVR che individui gli specifici rischi connessi alle mansioni dei lavoratori somministrati.

La Corte d’appello conferma l’illegittimità di un contratto di somministrazione di lavoro per omessa predisposizione del documento di valutazione dei rischi da parte dell’utilizzatore. La Corte afferma che il vincolo di redazione del DVR, individuato dall’art. 32 del D. Lgs. n. 81 del 2015, sia da ricondursi alla necessità di assicurare una rigida tutela ai lavoratori che, operando in forza di contratti flessibili, possano avere minore esperienza e conoscenza dell’organizzazione aziendale e, dunque, siano maggiormente esposti a rischi per la propria salute e sicurezza. Tale onere può considerarsi assolto solo laddove il DVR individui i rischi specifici in cui incorrono tali lavoratori e non indicazioni generiche. In assenza di tale prova, il lavoratore ha diritto di chiedere la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato in capo alla società utilizzatrice.

LICENZIAMENTO PER MANCATO SUPERAMENTO DEL PERIODO DI PROVA.

Il Tribunale di Milano, con sentenza del 05.02.2021, dichiara nullo per frode alla legge il licenziamento per asserito mancato superamento del periodo di prova, qualora intimato per evadere il divieto di licenziamento di cui all’art. 46 del D.L. 18/2020.

Il Giudice accoglie il ricorso di alcuni lavoratori, assunti con contratti a tempo determinato e licenziati in blocco, tutti per mancato superamento della prova, durante il periodo dell’emergenza da Covid-19. Il Tribunale dichiara la nullità di tali recessi ravvisando nella volontà di eludere il divieto dei licenziamenti, la reale ragione dei medesimi, stante la numerosità degli stessi e l’identica motivazione riportata nelle lettere di licenziamento. Stante tale sviamento causale del recesso, il Giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno corrispondente alle retribuzioni perse dal giorno del licenziamento al giorno della naturale conclusione del rapporto di lavoro.

LICENZIAMENTO PER MANCATO SUPERAMENTO DEL PERIODO DI PROVA.

Il Tribunale di Roma, con pronuncia del 25.03.2021, ha chiarito che è nullo per motivo illecito il licenziamento per asserito mancato superamento del periodo di prova, adottato per aggirare il divieto di licenziamento di cui all’art 46 del D.L. n. 18 del 2020.

Il Tribunale ha accolto il ricorso di una lavoratrice avverso il licenziamento durante il periodo di prova, adottato durante la vigenza del divieto di licenziamento di cui all’art. 46 del D.L. n. 18 del 2020. La ricorrente aveva prodotto precise allegazioni a sostegno del positivo superamento del periodo di prova, nel breve periodo durante il quale aveva potuto espletarlo prima della sospensione delle attività per l’emergenza da Covid-19: su tale base il Giudice, ribadendo che il licenziamento in prova, pur essendo “ad nutum”, sia illegittimo laddove motivato in realtà da un motivo illecito determinante, ritiene che nel caso concreto l’unica ragione del recesso fosse quella di aggirare il divieto di licenziamento di cui all’art 46 del D.L. n. 18 del 2020 e, di conseguenza, dichiara il recesso nullo per motivo illecito e condanna la società a reintegrare la lavoratrice.

LA TUTELA DEI RIDERS NEL RAPPORTO DI COLLABORAZIONE COORDINATA E CONTINUATIVA.

Il Tribunale di Palermo, con ordinanza del 12.04.2021, dichiara discriminatorio il recesso da parte del committente che voleva imporre l’applicazione, non condivisa dal collaboratore, del contratto collettivo Assodelivery-UGL.

Il Tribunale fa applicazione – anche al rapporto di collaborazione del rider, inquadrato nell’art. 2 D. Lgs. n. 81 del 2015 – dei principi in tema di libertà sindacale e di tutela del dissenso dei lavoratori rispetto all’applicazione del contratto collettivo individuato dall’azienda, in quanto aderenti ad una organizzazione sindacale diversa da quella firmataria. La vicenda è quella nota della firma a settembre 2020 del primo e contestato CCNL per i riders, stipulato dall’associazione delle imprese di settore col sindacato UGL, ritenuto anche dal Ministero del Lavoro privo di rappresentatività dei lavoratori interessati. A fronte del diffuso tentativo di imposizione di tale contratto da parte delle piattaforme, quale condizione per proseguire nel rapporto di collaborazione, il Tribunale qualifica come discriminatorio il recesso, anticipato rispetto alla scadenza, adottato nei confronti del rider che aveva rifiutato di aderirvi.

PROCURA NEGOZIALE PER L’IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO IN VIA STRAGIUDIZIALE.

La Corte di cassazione, con sentenza n. 9650 del 13.04.2021, sostiene che il legale che impugna in via stragiudiziale un licenziamento, dichiarandosi munito si procura negoziale scritta, non ha l’onere, fino all’eventuale richiesta, di comunicarne gli estremi o documentarla entro i sessanta giorni dal licenziamento.

Come è noto, la legge impone l’impugnazione, anche stragiudiziale, di un licenziamento (o di un contratto di lavoro a termine), mediante atto negoziale scritto, anche stragiudiziale, entro 60 giorni dal licenziamento. L’impugnazione scritta può essere effettuata anche da un terzo, tra cui il difensore, purché munito di potere negoziale, che può essere rappresentato da una preventiva procura oppure dalla successiva ratifica del lavoratore entro il termine di decadenza di 60 giorni. In un giudizio d’impugnazione stragiudiziale del termine apposto ad un contratto di lavoro, effettuata dal difensore dichiaratosi munito di procura, la Corte d’appello aveva dichiarato la decadenza dall’impugnazione in ragione del fatto che la stessa non era stata comunicata alla controparte nei termini stabiliti. In sede di ricorso per cassazione, la Suprema Corte, viceversa, facendo chiarezza su alcuni equivoci e incertezze di qualche precedente sentenza, afferma che mentre la ratifica, nei suoi estremi, deve essere comunicata o prodotta al datore di lavoro prima di sessanta giorni, pena la decadenza, altrettanto non è necessario per la procura preventiva scritta, che è sufficiente menzionare entro i termini, salvo esplicita richiesta del destinatario dell’impugnazione di ottenerne la comunicazione degli estremi o la documentazione della stessa.

RECESSO PER GIUSTA CAUSA.

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 10028 del 15.04.2021, ha affermato il principio della necessità della contestazione immediata, sia pure sommaria, delle ragioni poste alla base di un recesso per giusta causa.

La Corte sostiene, collegandosi ad un risalente orientamento di legittimità (cfr. Cass. n. 3592 del 1977), che il principio della necessità della contestazione immediata, sia pure sommaria, delle ragioni poste alla base del recesso per giusta causa, con la conseguente preclusione di dedurre successivamente fatti diversi da quelli contestati, opera sia per il rapporto di lavoro subordinato che per quello di agenzia – data l’analogia dei due rapporti – ma in relazione solo al recesso del preponente. Il recesso per giusta causa, con conseguente diritto all’indennità per mancato preavviso, del lavoratore o dell’agente non è invece condizionato ad alcuna formalità di comunicazione delle relative ragioni, sicché, a tal fine, può tenersi conto anche di comportamenti (del datore di lavoro o del preponente) ulteriori rispetto a quelli lamentati nell’atto di recesso del lavoratore o dell’agente. Sottolinea la Corte che occorre tuttavia chiarire il principio secondo cui se è vero che il preponente non deve fare riferimento, fin dal momento della comunicazione del recesso, a fatti specifici, a tal fine è sufficiente e necessario che di essi l’agente sia a conoscenza, anche “aliunde”.

INFORTUNIO IN ITINERE E GARANZIA ASSICURATIVA.

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 9375 del 8.04.2021, esclude l’ipotesi di infortunio in itinere, nel caso in cui il sinistro sia occorso ad un lavoratore in possesso di una patente di guida diversa da quella prescritta per la conduzione del veicolo.

Rigettando il ricorso proposto da un lavoratore nei confronti dell’INAIL, volto a beneficiare delle prestazioni previdenziali per l’infortunio in itinere occorsogli, afferma la Corte che, l’art. 2, del T.U. n. 1124 del 1965, per come modificato dall’art. 12, del D. Lgs. n. 38 del 2000 (secondo il quale, per quanto qui rileva, “l’assicurazione […] non opera nei confronti del conducente sprovvisto della prescritta abilitazione di guida”), dev’essere interpretato nel senso  che la garanzia assicurativa è esclusa non solo nel caso in cui il conducente, al momento dell’infortunio, non abbia conseguito il rilascio di patente, ma altresì nel caso in cui sia munito di patente diversa da quella richiesta per il tipo di veicolo guidato, non potendo letteralmente sostenersi che, in questo secondo caso, egli si trovi in possesso della “prescritta abilitazione di guida”.

La guida con una patente di tipo diverso da quella prescritta per la conduzione del veicolo è da considerarsi equiparata alla guida senza patente o con patente scaduta. Alle suddette considerazioni, si può aggiungere che la ratio solidaristica che impernia il sistema della sicurezza sociale, impone una lettura delle disposizioni normative che valorizzi l’adempimento di quei valori inderogabili (nel caso di specie, di prudenza) che sono richiesti ai singoli, quale presupposto indefettibile per la tutela dei loro diritti (art. 2 della Costituzione).

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con sentenza del 17.03.2021 (causa n. C-585/19), chiarisce che se un lavoratore ha stipulato due contratti di lavoro con il medesimo datore, il limite giornaliero dell’orario fa riferimento congiuntamente ai due contratti.

Nel quadro di un programma di ricerca in Polonia finanziato dallo Stato, l’Accademia studi economici di Bucarest aveva assunto vari dipendenti, ognuno anche con un doppio contratto di lavoro con diverso contenuto, per complessive ore 16 giornaliere. Alla contestazione del Ministero finanziatore per il mancato rispetto del limite giornaliero dell’orario, l’Accademia aveva sostenuto che tale limite si riferisse ad ogni singolo contratto. Pervenuta la questione alla Corte di giustizia, interpellata dal giudice nazionale della causa, la Corte afferma che il limite orario di lavoro stabilito a livello comunitario si riferisce al complesso unitario di eventuali plurimi contratti con un unico datore di lavoro.

LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO E TUTELA.

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 59 del 1.04.2021, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, della L. n. 300 del 1970, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare» – invece che «applica altresì» – la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma.

In caso di manifesta insussistenza del fatto materiale e della impossibilità di repechage del lavoratore, posti a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’art. 18 della L. n. 300 del 1970, come modificato dalla Legge Fornero, afferma che il giudice “può” disporre la reintegrazione. Attenendosi strettamente alla lettera della disposizione, la Cassazione interpreta prevalentemente la norma nel senso che, in questo caso, la reintegrazione è facoltativa, affidata alla discrezionalità del giudice. Pervenuta la questione della costituzionalità della norma all’esame della Corte Costituzionale, questa la dichiara incostituzionale, evidenziandone l’irragionevolezza, per la mancanza assoluta d’indicazione dei criteri di esercizio della discrezionalità del giudice, nonché la natura discriminatoria rispetto a quanto previsto in caso di insussistenza del fatto posto a base del licenziamento disciplinare.

REINTEGRAZIONE E CESSAZIONE ATTIVITà D’IMPRESA.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 7363 del 16.03.2021, ha dichiarato inammissibile la reintegrazione in caso di cessazione dell’attività d’impresa.

Si trattava di una società che, dopo aver intimato il licenziamento collettivo di alcuni dipendenti, era, dopo qualche tempo e in corso di giudizio, fallita, senza prosecuzione dell’attività d’impresa. Mentre i giudici di merito, accertando l’illegittimità del licenziamento per la mancata indicazione dei criteri di scelta, avevano condannato il Fallimento alla reintegrazione dei lavoratori ricorrenti ed al risarcimento danno a norma dell’art. 18 della L. n. 300 del 1970, la Corte di cassazione, richiamando il proprio consolidato orientamento (anche in ordine alla possibilità del datore di lavoro di dedurre in ogni momento l’inapplicabilità della reintegrazione), limita la condanna al solo risarcimento del danno e afferma che la tutela reale non può spingersi fino ad escludere l’incidenza di successive vicende estintive del vincolo obbligatorio, come la sopravvenuta cessazione assoluta dell’attività aziendale.

CESSIONE DEL QUINTO.

La Corte d’Appello di Milano, con pronuncia dell’8.03.2021, ha precisato che i costi amministrativi della cessione del quinto dello stipendio dei lavoratori rimangono a carico del datore di lavoro.

La Corte d’appello, confermando la pronuncia di primo grado, afferma che gli oneri amministrativi di gestione della cessione del quinto dello stipendio dei lavoratori, per debiti personali di questi, debbano rimanere a carico del datore di lavoro, salvo che quest’ultimo provi l’insostenibilità di tali costi per la sproporzione tra la struttura aziendale e l’assolvimento di tali adempimenti. Tale pronuncia è motivata dal fatto che l’accordo di cessione del quinto rientra tra i diritti soggettivi dei lavoratori, al pari della gestione dei permessi parentali o dei benefici ex Legge n. 104 del 1992, e non sia vicenda estranea alla normale dinamica di gestione dei rapporti di lavoro.

COMPORTAMENTI PERSECUTORI E MINACCIOSI.

Il Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento, con sentenza dell’8.05.2020, ha confermato il provvedimento di ammonimento del Questore, ex art. 8 D.L. n. 11 del 2009, adottato in un caso di comportamenti persecutori e minacciosi tenuti nei confronti di una dipendente.

Una lavoratrice aveva chiesto al Questore della Provincia di Trento l’emissione del provvedimento di ammonimento del titolare dell’impresa, a seguito di una serie di comportamenti persecutori e minacciosi (urla, insulti, contusioni), reiterati nel tempo e che le avevano procurato un grave stato d’ansia, con alterazione delle proprie abitudini di vita. Il provvedimento, emesso in attesa dell’accertamento dell’eventuale reato ex art. 612-bis del codice penale (atti persecutori) viene confermato dal Tribunale respingendo la tesi del diffidato sull’inquadramento delle condotte denunciate nell’ambito della relazione conflittuale sviluppatasi nel rapporto di lavoro: per il Tribunale i comportamenti denunciati, gravi e ripetuti e connotati non da mera ineducazione e inciviltà, vanno al di là di una situazione lavorativa conflittuale pur presente e non possono trovare giustificazione in eventuali inadempienze della dipendente.

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