NEWSLETTER N. 9/2021 NOVITÀ NORMATIVE E GIURISPRUDENZIALI

NOVITÀ NORMATIVE

GREEN PASS.
Dal 6.08.2021 si può accedere solo se in possesso di Green Pass a determinati servizi, tra i quali i servizi per la ristorazione svolti da qualsiasi esercizio per consumo al tavolo al chiuso; gli spettacoli aperti al pubblico; musei, altri istituti e luoghi della cultura e mostre; piscine, palestre, centri benessere, anche all’interno di strutture ricettive, limitatamente alle attività al chiuso, centri estivi e le relative attività di ristorazione.
Il Governo ha, inoltre, pubblicato una FAQ che chiarisce l’obbligatorietà della certificazione anche con riferimento alle mense aziendali: “Per la consumazione al tavolo nelle mense aziendali o in tutti i locali adibiti alla somministrazione di servizi di ristorazione ai dipendenti pubblici e privati è necessario esibire la certificazione verde COVID-19?
Sì, per la consumazione al tavolo al chiuso i lavoratori possono accedere nella mensa aziendale o nei locali adibiti alla somministrazione di servizi di ristorazione ai dipendenti, solo se muniti di certificazione verde COVID-19, analogamente a quanto avviene nei ristoranti. A tal fine, i gestori dei predetti servizi sono tenuti a verificare le certificazioni verdi COVID-19 con le modalità indicate dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 17 giugno 2021”.
Dal 1.09.2021, il Green Pass è obbligatorio anche per tutto il personale scolastico ed universitario e per gli studenti universitari (il mancato rispetto del requisito è considerato assenza ingiustificata e, a decorrere dal quinto giorno di assenza, il rapporto di lavoro è sospeso e non sono dovuti la retribuzione né altro compenso), nonché per l’utilizzo dei trasporti di medio-lunga percorrenza.
Si ricorda che i soggetti autorizzati a verificare la certificazione devono essere incaricati formalmente, avere istruzioni su come fare i controlli e sulla normativa vigente per la protezione dei dati personali. L’attività di verifica delle certificazioni non comporta, in alcun caso, la raccolta dei dati dell’intestatario in qualunque forma.
CONVERSIONE SOSTEGNI-BIS: CAUSALI CONTRATTO A TERMINE.
La legge di conversione del decreto Sostegni-bis (L. n. 106 del 23.07.2021) introduce, con l’articolo 41-bis, margini di flessibilità alla disciplina del contratto a tempo determinato, assegnando un ruolo fondamentale alla contrattazione collettiva, a qualsiasi livello.
Infatti, l’art. 41-bis, aggiunge alle rigide causali imposte dal decreto Dignità la possibilità che ulteriori ragioni giustificatrici della apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato possano essere previste dalla contrattazione collettiva, alla quale è assegnato ampio margine operativo. Una possibilità, però, anch’essa con efficacia a tempo determinato, considerato che la stessa legge ne fissa l’operatività fino al 30.09.2022.
La delega alla contrattazione collettiva.
L’art. 19 del D.Lgs. n. 81 del 2015, così come riformulato dal decreto Dignità, richiede per l’apposizione di un termine ai contratti di lavoro subordinato della durata superiore a dodici mesi apposite ragioni giustificatrici:
a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
b) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.
L’art. 41-bis aggiunge alle stesse la lettera b-bis), che introduce una ulteriore condizione per poter stipulare un contratto a tempo determinato, della durata superiore a 12 mesi e sempre nel limite massimo dei 24 mesi, ovverosia “specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di cui all’art. 51”.
Quella operata in favore della contrattazione collettiva è una delega significativamente ampia, che rilascia alle parti sociali il compito di individuare delle circostanze la cui sussistenza giustifica l’apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato, senza limitarne in alcun modo il campo d’azione. Tuttavia, le esigenze che i contratti collettivi potranno prevedere devono essere “specifiche”. La contrattazione collettiva è perciò chiamata a individuare delle ulteriori causali, rispetto a quelle già previste dalla legge, che dovranno essere puntuali, determinate ed univoche: ogni singola ragione giustificatrice della predeterminazione della durata del contratto di lavoro subordinato dovrà essere elencata in maniera analitica e costituire di per sé stessa una clausola autosufficiente a consentire di individuarla e verificarne l’effettività dell’apposizione.
Al netto della richiesta specificità però, la legge non impone alcun limite alla operatività della previsione delle causali, per cui attraverso la contrattazione collettiva ogni esigenza che si vorrà individuare sarà legittima, purché connotata dalla premessa puntualità definitoria. Non sarà quindi necessario che le esigenze che si vorranno individuare con i contratti collettivi presentino quei connotati di straordinarietà e imprevedibilità richiesti dalle lettere a) e b) dell’art. 19.
Inoltre, le esigenze stesse non necessariamente dovranno limitarsi a circostanze oggettive, potendo immaginare ‒ stando alla lettera della legge ‒ che attraverso un contratto collettivo sia possibile individuare e prestabilire delle esigenze di natura anche soggettiva, destinate ad esempio a promuovere l’occupazione di una particolare categoria di lavoratori, magari rispetto ad una determinata fascia d’età.
Il livello di contrattazione previsto.
Entrambe le previsioni introdotte dalla legge di conversione del decreto Sostegni-bis, nel determinare la possibilità di stipulare contratti a tempo determinato secondo le specifiche esigenze previste dai contratti collettivi, richiamano a tal fine l’art. 51 del D.Lgs. n. 81 del 2015 che dispone che, salvo diversa indicazione, ogni qual volta nell’ambito del suddetto decreto viene fatto riferimento ai contratti collettivi, senza ulteriore specificazione, questi devono intendersi indifferentemente come nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali conclusi dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria.
Effetti su proroghe e rinnovi.
Le nuove norme consentiranno di stipulare nuovi contratti a tempo determinato, della durata superiore a 12 mesi e sempre nel rispetto del limite massimo di 24, secondo le causali che saranno individuate dalla contrattazione collettiva, di qualsiasi livello.
Nulla osta però che anche le proroghe e i rinnovi possano essere disposti alla luce delle suddette specifiche esigenze né che, una volta introdotte dai contratti collettivi, queste possano essere applicate pure alle proroghe e ai rinnovi dei contratti a tempo determinato a suo tempo stipulati secondo le causali originariamente previste dall’art. 19. Ciò perché la previsione della possibilità di introdurre le nuove causali da parte della contrattazione collettiva, è inserita nel primo comma dell’art. 19, cui fa espresso rinvio il comma 1 dell’art. 21 dello stesso D.Lgs. n. 81 del 2015.
Possibilità a scadenza.
L’art. 41-bis inserisce, inoltre, all’art. 19 del D.Lgs. n. 81 del 2015, il comma 1.1, con il quale è stabilito che “il termine di durata superiore a dodici mesi, ma comunque non eccedente ventiquattro mesi, di cui al comma 1 del presente articolo, può essere apposto ai contratti di lavoro subordinato qualora si verifichino specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di lavoro di cui all’articolo 51, ai sensi della lettera b-bis) del medesimo comma 1, fino al 30 settembre 2022”. La delega affidata alla contrattazione collettiva di prevedere nuove causali è rilasciata, quindi, a tempo.
Dalla norma si evincerebbe, infine, che il termine del 30.09.2022 rappresenta l’ultimo giorno utile per poter stipulare un contratto a tempo determinato con una causale individuata dalla contrattazione collettiva ai sensi della lettera b-bis) dell’art. 19, comma 1, del D.Lgs. n. 81 del 2015, mentre la durata del rapporto può protrarsi oltre tale data.

NOVITÀ GIURISPRUDENZIALI

SANITARI NO VAX: SOSPENSIONE SENZA RETRIBUZIONE.
Il Tribunale di Modena, con ordinanza n. 2467 del 23.07.2021, ha affermato la piena legittimità del provvedimento di sospensione dal lavoro senza retribuzione adottato da un datore di lavoro operante in una RSA ove due addetti con mansioni sanitarie avevano rifiutato di vaccinarsi contro il Covid-19, prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 44 del 2021.
Il Tribunale ha osservato che, ai sensi del D.Lgs. n. 81 del 2008, l’imprenditore è garante della salute e della sicurezza sia degli altri dipendenti che dei terzi. Il rifiuto della vaccinazione, se pur non può dar adito a provvedimenti di natura disciplinare, può avere delle conseguenze sul piano della oggettività a svolgere determinate mansioni. Di qui la valutazione del medico competente di inidoneità a svolgere (art. 41), causa il pericolo pandemico e l’attività a stretto contatto con anziani e persone oltre modo fragili.
Veniva effettuata una prima valutazione del datore, a seguito della comunicazione del medico, circa la possibilità di utilizzare gli addetti sanitari in una posizione lavorativa non a contatto con altri dipendenti o terzi (art. 42). Verificata l’impossibilita, è stato ritenuto corretto il comportamento del datore che ha proceduto a sospendere i due dipendenti senza la corresponsione di alcuna retribuzione.
Non trova pregio neppure l’asserita violazione della privacy delle lavoratrici che avevano sottoscritto il consenso informato sulla mancata sottoposizione al vaccino che può essere valutata dal medico aziendale per stabilire l’inidoneità del lavoratore alla mansione.
Il Tribunale sostiene che il diritto alla libertà di autodeterminazione deve essere bilanciato con altri diritti di rilievo costituzionale come la salute dei clienti, degli altri dipendenti e il principio di libera iniziativa economica fissato dall’art. 41 della Costituzione.

DOPPIO PROCEDIMENTO GIUDIZIARIO PER IL MEDESIMO LICENZIAMENTO.
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 22930 del 16.08.2021, si è pronunciata in un caso di due giudizi aventi per oggetto l’impugnazione del medesimo licenziamento.
La Corte ha precisato che tra due giudizi aventi per oggetto l’impugnazione per ragioni diverse del medesimo atto di licenziamento non sussiste litispendenza, ma la proponibilità di una nuova iniziativa giudiziaria è condizionata alla sussistenza di un interesse oggettivo del lavoratore al frazionamento della tutela verso l’unico atto di recesso.

UTILIZZO E-MAIL A FINI DISCIPLINARI.
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 15161 del 31.05.2021, ha chiarito che l’utilizzo a fini disciplinari delle e-mail dal contenuto offensivo non integra una violazione del codice della privacy, a condizione che il datore utilizzi i relativi dati solo per finalità disciplinari e non anche per indagare sulle opinioni del lavoratore.
Nel caso di specie, un dipendente aveva inviato e-mail dal contenuto offensivo nei confronti dei vertici aziendali in una mailing list del sindacato.
A seguito della segnalazione di uno dei partecipanti alla mailing list, il lavoratore riceveva una contestazione disciplinare. Conseguentemente, lamentava la violazione del codice della privacy integrata dall’utilizzo della corrispondenza di posta elettronica per fini disciplinari.
La Cassazione rileva, preliminarmente, che la dichiarazione resa da una persona in una conversazione è un elemento identificativo e, come tale, va trattata alla stregua di un dato personale. In secondo luogo, richiama la pronuncia dell’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali, la quale chiariva che l’azienda non aveva avuto alcun ruolo nella raccolta dei dati, né aveva effettuato indagini o controlli sulle opinioni del lavoratore.
Ribadisce, infine, che l’acquisizione di tale dato personale non può considerarsi illecita, allorquando non sia stata raccolta direttamente dal soggetto che la utilizza, ma provenga da un terzo che ne ha avuta diretta conoscenza. Secondo i Giudici di legittimità, inoltre, il trattamento dei dati contenuti all’interno di una e-mail non richiede il consenso dell’interessato, quando sia necessario per adempiere ad un obbligo imposto o consentito dalla legge, come l’esercizio del potere disciplinare nei confronti dei propri dipendenti.

MANCATO RIENTRO DOPO MALATTIA.
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 22819 del 12.08.2021, fornisce alcune precisazioni sull’applicazione dell’art. 41, comma 2, del D.Lgs. n. 81 del 2008.
Nel caso di specie ad una dipendente assente prima per malattia e poi per aspettativa per motivi di salute, alla scadenza del suddetto periodo, era stato sollecitato di presentarsi in azienda per essere sottoposta a visita medica. La lavoratrice, però, non si presentava sul luogo di lavoro senza alcuna giustificazione. Da qui la contestazione dell’assenza ingiustificata dal servizio, all’esito di procedimento disciplinare concluso con l’irrogazione della sanzione del licenziamento disciplinare con preavviso.
La dipendente lamentava che la stessa non avrebbe potuto iniziare la prestazione lavorativa prima di essere sottoposta alla visita medica preventiva di cui all’art. 41, comma 2, lett. e-ter del D. Lgs. n. 81 del 2008.
La Corte di cassazione ha disatteso le ragioni della ricorrente chiarendo che è obbligo del datore di effettuare la visita di controllo preventivo circa la idoneità alla mansione e, contemporaneamente, il lavoratore non può rifiutarsi di andare in azienda se il datore, lo invita a recarsi sul posto di lavoro, cosa che integra gli estremi del licenziamento disciplinare con diritto al preavviso.

ALLONTANAMENTO DAL LAVORO PER PAUSA CAFFÈ.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 29674 del 29.07.2021, si pronuncia in un caso di uscita dall’ufficio senza timbrare il cartellino e reato di cui all’art. 55-quinquies del D.Lgs. n. 165 del 2001.
Nel caso di specie due impiegati del Comune si erano assentati ingiustificatamente, senza timbrare il badge, uno per la pausa caffè ed uno per acquistare le sigarette.
Il Tribunale e, poi, la Corte di Appello avevano posto l’accento sulla futilità dei motivi delle uscite (quali l’assenza, in ufficio, di un distributore di caffè), evidenziando come dalle dichiarazioni dei due impiegati l’allontanamento non fosse stato occasionale, ma una consuetudine mattutina.
La Suprema Corte, tuttavia, ha ritenuto non provata l’abitualità del comportamento. La Cassazione precisa che l’uscita dall’ufficio senza timbrare il cartellino è sempre reato, ma se non è provata l’abitualità del comportamento e non c’è danno rilevante per l’ufficio, allora scatta la tenuità del fatto: il reato resta, ma non è punibile.

OBBLIGO MASCHERINA E SANZIONE DISCIPLINARE.
Il Tribunale di Venezia, con sentenza del 4.06.2021, si pronuncia in un caso di sanzione disciplinare inflitta per rifiuto ad indossare la mascherina chirurgica.
Nel caso di specie un lavoratore – che ricopriva, tra l’altro, il ruolo di RLS – aveva inoltrato alla Direzione della società una PEC in cui lamentava l’illegittimità della disposizione aziendale relativa all’utilizzo obbligatorio della mascherina, con tono aggressivo e linguaggio inappropriato. Lo stesso dipendente, successivamente, si presentava ad una riunione sprovvisto di mascherina, rifiutando anche di indossare quella distribuita dall’azienda. Da ultimo, il lavoratore affiggeva nella bacheca aziendale la sopracitata PEC, divulgando così il messaggio ivi contenuto.
L’azienda irrogava, conseguentemente, la sanzione disciplinare della sospensione di tre giorni dal lavoro e dalla retribuzione.
Il Tribunale conferma la legittimità della sanzione irrogata, evidenziando come il datore di lavoro, garante di tutela della salute dei lavoratori, sia tenuto ad adottare tutte le misure necessarie ed opportune per prevenire eventi dannosi.
Richiamando i c.d. Protocolli anti-contagio, il giudice ricorda che gli stessi impongono quelle che sono da considerarsi le misure minime, le quali possono essere integrate con altre e più incisive secondo la peculiarità della singola organizzazione.
Nel caso concreto, il Protocollo adottato dall’azienda in attuazione dei Protocolli anti-contagio prevedeva l’utilizzo obbligatorio della mascherina chirurgica. Il Tribunale evidenzia come tale imposizione non sia misura irrazionale o eccessivamente gravosa, ma che risponde pienamente al dovere datoriale di tutelare i propri dipendenti.
Sottolineando anche la gravità della condotta dovuta al ruolo di RLS ricoperto dal lavoratore, il Tribunale accerta la legittimità della sanzione disciplinare irrogata.

PATTO DI NON CONCORRENZA.
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 23418 del 25.08.2021, si pronuncia in merito al patto di non concorrenza e relativo corrispettivo.
Con riferimento al patto di non concorrenza, la Corte ribadisce che il corrispettivo dovuto non deve prevedere compensi simbolici o manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore ed alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato.
La Corte precisa, inoltre, che il corrispettivo del patto di non concorrenza può essere erogato anche in corso del rapporto di lavoro.

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